Silenzi e grida: la Strage degli innocenti

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi. Allora si adempì quel che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: “Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande;Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più. ” (Mt 2, 16-18)

 

La memoria liturgica della Strage degli innocenti piomba sul credente ancora attardato nell’atmosfera sospesa e intenerita della notte di Natale, riportandolo bruscamente al binario vero e duro su cui prende a correre , fin dall’inizio, la vicenda terrena di quel bambino nato a Betlemme. Emarginazione da un lato e persecuzione dall’altro. Un risveglio  traumatico e doloroso, che si conficca come un chiodo  proprio là dove si era scoperta e riscaldata una nuova  e impensabile speranza: nella tenerezza innocente e indifesa di un bambino. Ancòra non si è spenta l’eco dello stupore davanti al Dio che si fa neonato, che proprio su neonati come Lui e bimbetti poco più grandi si manifesta la ferocia e la spietatezza cinica della caccia all’uomo. E’ dunque sulla sofferenza clamorosamente ingiusta di poverissimi innocenti senza macchia che ci si scontra – e ci si scotta – con la prima grande contraddizione ( almeno apparente)  del  Dio narrato nei Vangeli.

Come “trattare” questa materia incandescente e dolorosa, come “riscriverla”,  nel rappresentarla? Muovendosi – sembrerebbe – tra il silenzio inorridito  di chi non ha parole e l’urlo di chi prova la tragedia sulla propria pelle. Con Dio  ” assente” ,  un  vuoto  che interroga e pesa angosciosamente.

Guido_Reni_-_Massacre_of_the_Innocents

Era il 1611 quando Guido Reni, a Bologna, dipinse  Strage degli Innocenti , originariamente destinata  alla Cappella Berò nella chiesa di San Domenico, oggi conservato nella pinacoteca della città  ( e dal gennaio 2018, in esposizione per un mese ad Aosta). L’artista, secondo i canoni dell’epoca, ambienta la scena su uno sfondo classico, una quinta architettonica di portici, edifici e mura di città. Ma  la staticità monumentale  è come smentita dal movimento della scena rappresentata in primo piano, dove si svolge il dramma. Due uomini, seminudi e armati,  irrompono da opposti lati, a pugnali sguainati, determinati e senza pietà nella decisione dei loro gesti di violenza. Uno afferra e tira a sé per  i capelli  una madre urlante  devastata dal terrore, verso la quale leva il braccio per menare il colpo; l’altro alza alta l’arma, coprendo con un’ombra di morte (nei giochi del chiaroscuro) un bimbo che  lo segue con lo sguardo pieno di paura. Intorno ai due, un gruppo di madri e figli, a esprimere tutta la gamma delle reazioni davanti a tanta ferocia di morte: spavento, dolore, implorazione, rabbia, “impietrimento”. Le donne, specialmente, sembrano rappresentare i diversi aspetti della maternità viscerale:  la madre che protegge e la madre che soccombe , la madre che supplica e la madre che grida di dolore. Nella parte bassa del dipinto, in primo piano, c’è una mamma immobile, raffigurata con le mani giunte in grembo e gli occhi al cielo, con i corpicini dei bambini morti ai piedi: come a  prefigurare e ricordare a ogni credente l’immagine familiare delle ” Pietà ” della Madonna. Si potrebbe dire che il quadro, in alto e in basso, è dominato dal silenzio: il cielo, gli edifici, gli angioletti – bambini come gli altri, solo angelicati , che porgono rami di “palma del martirio” verso  terra – e, più giù, la madre in silenziosa e attonita preghiera. Mentre la parte centrale è come attraversata e sconvolta dallo scoppio della violenza selvaggia e del massacro. Tutto giocato tra silenzio e grida, tra fughe e arresti pietrificati dall’orrore, tra scene in movimento e staticità delle cose, questo  ritmo di contrasti sembra rimbalzarci addosso la assurdità e la molteplicità contraddittoria del male di cui siamo capaci.

Cosa sorprendente: se facciamo un salto di più di trecento anni e cambiamo il mezzo di espressione, passando dalla pittura al cinema, nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini ( 1964) , ritroviamo la stessa scena, e raccontata nello  stesso spazio delimitato  dalle stesse tracce: silenzio, e urla; immobilità  e movimento frenetico, calma innaturale e precipitoso andare in  tutti i sensi. All’inizio ci si sofferma  sulla “normalita’”  quasi professionale di chi opererà il massacro: lunghi primi  piani indugiano sulle espressioni – più impassibili che feroci – dei soldati che stanno per entrare in azione. In un silenzio rotto solo dal vento, dalle froge dei cavalli e dal  pianto in lontananza, premonitore, di un bambino. Primi piani lunghi, senza moto e muti: come una lunga  pausa  di preparazione , incongrua se paragonata  al brulichio dei gesti che si scatena con l’avvio dell’”operazione”. La  preannuncia e sottolinea la musica drammatica, essenziale e solenne , e  la scatena  un fischio popolano. Ripresa da lontano, la scena , giu’ per le pendici di un monte, ricorda in qualche momento il viavai sconvolto di un formicaio quando lo si scoperchia all’ improvviso; fino alle immagini più ravvicinate  della strage vera e propria. Caccia, inseguimento, fuga, cattura, uccisioni: in pochi istanti, lo schermo è come preso da un vortice di movimento di cui i suoni in crescendo , mescolando voci in canto,  urla ,  pianti  e caotici  rumori d’ambiente , formano l’inquietante  colonna sonora .

Fuori campo, in  un tono concitato più che solenne, la  voce narrante ripropone le parole di Geremia ricordate da Matteo,  con quel pianto che conosciamo tutti molto bene : troppo grande per potere ( e soprattutto, volere) essere consolato da qualcuno.

 

  • In copertina: Particolare de “LA STRAGE DEGLI INNOCENTI” di Guido Reni

Presepe: ri-scrittura per tutti.

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

Riscrivere per immagini i fatti della notte santa , attraverso una  rappresentazione reale  o artistica: in fondo il presepe è questo. Una riscrittura  alla portata di tutti , che ci riguarda da vicino: tanto da poterla fare a casa nostra, in stretto collegamento alle tradizioni familiari. Grossomodo sempre uguale, ma sempre aperta a mille piccole varianti possibili, in un passaggio affettuoso e tranquillizzante tra le generazioni.

Come ogni riscrittura, il presepio  mescola elementi “fedeli” alla narrazione originaria ad altri che vanno a riempire i tanti vuoti di un racconto  scarno ed essenziale come quello dei Vangeli. Queste integrazioni di fantasia servono ad attualizzare l’evento, ricostruendolo in una realtà mixata, in cui qualcosa evoca la Palestina di 2000 anni e il resto è libera aggiunta o reinterpretazione. I presepi che prepariamo nelle nostre case e nelle nostre parrocchie presentano  tutti un carattere di curiosa, talvolta clamorosa, contaminazione spazio/temporale. Venditori di caldarroste ottocenteschi stanno accanto a cammellieri del deserto, contadinelle provenzali vicino a incantatori di serpenti con  tanto di turbante, osterie di stampo inconfondibilmente  occidentale accanto a variopinti , scenografici, orientalissimi re Magi. Una riscrittura  senza tempo, senza spessore storico, ma che in fondo esprime – in modo immediato anche se ingenuo – l’ universalità e la trasversalità dell’arrivo del Salvatore come l’evento che attraversa e riguarda tutte le epoche e tutti i tempi.

Tuttavia ci sono casi particolari, in cui il presepio si propone una riscrittura decisamente più orientata al  reale, quasi cronachistica e  meglio attualizzata, ambientando  la Natività non  genericamente ai giorni nostri, ma in un preciso contesto di riferimento, che diviene così “la chiave di lettura “ del messaggio di salvezza del Natale per noi oggi. E’ il caso dei cosiddetti “presepi dei migranti”, allestiti in questi anni in diverse zone. In tutti, la nascita di Gesù viene rappresentata proprio nel mezzo di quel mondo a parte, di pura emarginazione e abbandono al proprio destino, che sono  il mare e la terra attraversati dalle tragiche carovane di chi abbandona, spesso in fuga obbligata, la propria casa – ammesso che ci fosse  ancora – in direzione Europa.

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Presepe di Castenaso (BO) – 2017

A Castenaso, vicino Bologna, niente capanna e niente mangiatoia. Un grosso drappo azzurro a evocare il mare, un gommone autentico, simbolo della migrazione, della condizione e anche della possibile accoglienza o rifiuto dei migranti: le sagome stilizzate in legno della Santa Famiglia, e quelle familiari del bue e dell’asinello, a bordo del gommone. Migranti tra i migranti, rifiutati tra i rifiutati, costretti a sistemazioni di fortuna e a rischio. Nessuna palma o grotta a protezione della intimità del fatto: disadorne pedane in legno chiudono l’orizzonte, a suggerire piuttosto la “ospitalità sorvegliata” dei centri di accoglienza.

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Presepe di Mazara Due- Mazara del Vallo ( TP), parrocchia Sant’Antonio  da Padova 2013

Nel 2013, in  Diocesi di Mazara del Vallo, nella parrocchia Sant’Antonio da Padova a Mazara Due, piena periferia della città, il “Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani” aveva realizzato un presepe dal contesto e dalla simbologia simile al precedente. ” Dentro una vera zattera in dotazione a un peschereccio, statue di cartone e colla raffigurano gli uomini di colore e una donna con in braccio il proprio bambino. La Natività è stata rappresentata in stile classico e sulla stella cometa c’è scritto Lampedusa. All’ingresso della grotta la simbologia è quella marinara: tipiche imbarcazioni congolesi e ghanesi si trovano davanti ai fari rosso e verde, come all’imbocco di un porto. E a fianco della Natività c’è il faro a luce bianca: simbolo di speranza ma anche di sicurezza per chi naviga per mare.”( dal sito della Diocesi di Mazara del Vallo, 26 dicembre 2013).

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Presepio di Lamezia , 2015

Nel 2015 , anche la Comunità di San Domenico di Lamezia aveva dato corpo a un presepe  del migrante: “Rispecchiando una problematica sociale attuale: gli sbarchi di migliaia di migranti sulle nostre coste. Una barca della Guardia Costiera e il personale della capitaneria di porto che salva diversi profughi. Questa la scena che il Presepe di quest’anno ha voluto rappresentare. Un modo per sensibilizzare anche a Natale la società verso questo fenomeno che, a causa dei frequenti naufragi dei barconi, causa sempre più morti ( da www.lametino.it  , 8 dicembre 2015)

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Presepio di Palermo, 2017, Chiesa di Sant’Ignazio Martire all’Olivella

È  invece dedicato ” …all’accoglienza dei migranti e al ricordo di Aylan Kurdi, il piccolo profugo siriano di 3 anni trovato morto sulla spiaggia di Bodrum il 2 settembre 2015, e di tutti i caduti nella fuga dalle guerre e dalla fame, il Natale organizzato quest’anno dalla Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri di Palermo nella Chiesa di Sant’Ignazio martire all’Olivella, che sorge sui resti della casa natale di Santa Rosalia.Il presepe del migrante inaugurato sabato scorso è stato allestito dentro una vecchia barca (il “barcone della speranza”) donato dai pescatori dell’Arenella, con la comunità integrata fra palermitani e famiglie di migranti. La rete che sporge dalla barca simboleggia la frase di Gesù “vi farò pescatori di uomini” nel senso della promozione dell’accoglienza. L’opera è stata  realizzata dai volontari della Protezione civile regionale con i chierici e i giovani dell’Oratorio secolare di S. Filippo Neri” ( da www.ilgiornale.it  cronache di Palermo dell’11/12/17)

Natale: cantare il tempo

Scritto da MARIA NISII.

Un bambino è nato per noi… Wonderful!

 

For unto us a Child is born,
unto us a Son is given,
and the government
shall be upon His shoulder;
and his name shall be called Wonderful,
Counsellor, the MightyGod,
the Everlasting Father, the Prince of Peace.
(Isaia 9,5)*

https://www.youtube.com/watch?v=_f7jhk-IjDo

 

messiahweb

I cori del Messiah di Händel cantano la gioia del Natale, evento della storia della salvezza in cui – forse più di altri – la sensibilità popolare chiede di ripetere i consueti canti tradizionali, senza i quali è come se fosse un po’ meno Natale. Indubbiamente non appartiene alla tradizione popolare italiana questo brano di musica barocca inglese, ma nell’ambito della musica classica è certo uno dei più noti. La profezia di Isaia è qui tradotta in un canto, che ci invita a ripetere più e più volte i versetti biblici – quasi come nelle antiche formule dell’esicasmo. Ma se quelle vogliono suscitare la calma interiore, qui si desidera invitare a scoprire e poi gioire della meraviglia: “wonderful!”.

 

Due secoli dopo nella stessa Inghilterra T. S. Eliot compone i Quattro Quartetti (richiamo musicale già nel titolo) sul tema del tempo: il tempo come modo di vivere la storia. E come la musica, anche la poesia scandisce un tempo, suggerendo il ritmo della lettura, del pensiero, del respiro. Quale poesia migliore allora di quella che, scandendo il tempo, ci rimanda a riflettere sull’attesa e il compimento che nel tempo si è realizzato e ancora e sempre aspetta di realizzarsi.

La curiosità degli uomini indaga il passato e il futuro

E s’attiene a quella dimensione, ma comprendere

Il punto d’intersezione del senza tempo

Col tempo, è un’occupazione da santi…

 

Il Natale, memoria della nascita dell’uomo che è stato Gesù di Nazareth, riconosciuto Cristo e Signore dopo la resurrezione, è per Eliot “punto di intersezione” del senza tempo (la divinità) col tempo (l’umanità). E il nostro umano tentativo di comprendere e indagare questo tempo non è un lavoro per teologi, bensì per “santi”, uomini di Dio che per un momento ne sono stati come folgorati, illuminati, ispirati e poi per tutta la vita inseguiranno quella luce:

 

è un’occupazione da santi…

E nemmeno un’occupazione, ma qualcosa ch’è dato

E tolto, in un annientamento di tutta la vita nell’amore,

Nell’ardore, altruismo e dedizione.

 

E per ritrovarlo, quell’attimo di barlume, i “santi” si spenderanno fino alla rinuncia di sé – seguaci di un Maestro che ha infuso in loro quella passione per l’amore.Una passione, questa, che fa di loro una musica:

 

…Ma finché essa dura

Voi stessi siete la musica. Questi non sono che accenni

E congetture, accenni seguiti da congetture; e il resto

È preghiera, osservanza, disciplina, pensiero e azione.

 

Così, letti con il ritmo suggerito, questi versi diventano a loro volta musica e preghiera e pensiero… e infine dono:

 

L’accenno mezzo indovinato, il dono mezzo capito, è l’Incarnazione.

 

Il dono di una mezza comprensione e nulla più.La folgorazione è già passata. Ma è quanto basta per quell’occupazione da “santi” che è cantare l’Incarnazione e la meraviglia (wonderful!) del Natale.

Raffaello, Madonna sistina (dettaglio), 1513-4, Dresda
Raffaello, Madonna sistina (dettaglio), 1513-4, Dresda

 

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*Perché un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il potere
e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile, Dio potente,

L’Annunciazione a Maria

Scritto da NORMA ALESSIO.

Le raffigurazioni sacre si distinguono tra opere religiose, devozionali e per la liturgia.

Se nell’arte cristiana gli artisti hanno interpretato, soprattutto nei secoli passati, le sacre scritture condizionati dai committenti e dalla destinazione finale dell’opera per contesti ecclesiastici, nell’arte religiosa vi è solo una rappresentazione di scene derivate o ispirate dalla Bibbia, ma non destinata necessariamente al culto; rappresenta il divino, ma non fa esclusivo riferimento alla religione cristiana, in quanto anche le altre religioni hanno le loro espressioni artistiche, esprime la fede personale dell’artista e il proprio rapporto con il divino.

Prendendo come esempio l’evento dell’annuncio a Maria del concepimento e nascita di Gesù da parte dell’Angelo Gabriele , riportato solo dall’evangelista Luca, vediamo l’interpretazione originale data da alcuni artisti che, nonostante fossero liberi da vincoli dettati dai committenti, hanno comunque mantenuto della simbologia riconosciuta.

Torino Galleria Sabauda – “Annunciazione” Orazio Gentileschi 1623
Torino Galleria Sabauda – “Annunciazione” – Orazio Gentileschi ,1623

Il dipinto di Orazio Gentileschi, eseguito nel 1623 per il Duca Carlo Emanuele di Savoia per la cappella della sua residenza a Torino a Palazzo Reale – oggi esposta alla Galleria Sabauda di Torino – presenta diversi particolari iconografici che si discostano da quelli che si vedono in altri di soggetto analogo appartenenti al primo Medioevo : un libro delle Scritture, le braccia incrociate sul petto, l’angelo che benedice, Maria inginocchiata. Lo schema compositivo non è quello tradizionale per raccontare l’Annunciazione, con l’incontro frontale tra l’Angelo a sinistra e la Vergine a destra; qui i due personaggi sono l’uno di fronte all’altro e la loro posizione è invertita, privi entrambi di aureola. L’evento è rappresentato come un incontro privato nella vita di Maria: l’ambiente intimo di una stanza domestica con un grande letto con le lenzuola scomposte e sopra il letto una tenda rossa aperta quale motivo non solo decorativo, ma anche iconografico, quale rivelazione di Dio come Verbo che divenne carne “e pose la sua tenda in mezzo a noi” (Gv. 1,14). Alla finestra c’è una colomba, non menzionata nel passo del Vangelo di Luca, ma riconosciuto simbolo dello Spirito Santo, a rappresentare il concepimento, sul fascio di una luce che filtra da essa senza infrangersi. L’angelo Gabriele, inginocchiato, ha l’indice alzato ad indicare la provenienza del messaggio – particolare, questo, nuovo – ma permane il tradizionale giglio fiorito simbolo della verginità di Maria. La mano della Vergine ha il palmo rivolto verso l’esterno ad indicare il riserbo iniziale; l’altra è ripiegata sul petto mostrando il dorso, simbolo del consenso avvenuto.

Londra - Tate Gallery “Ecce ancilla domini” di Dante Gabriel Rossetti dipinto tra il 1849-50
Londra – Tate Gallery – “Ecce ancilla domini” – Dante Gabriel Rossetti  (dipinto tra il 1849-50)

Anche nell’interpretazione del pittore Dante Gabriel Rossetti, la cui religiosità è di ispirazione protestante e anglicana, dal titolo ”Ecce ancilla domini” dipinto tra il 1849-50, si va al di là del modello iconografico tradizionale. L’evento è rappresentato con estremo realismo, l’ambiente volutamente ascetico e simile ad una cella; l’Angelo Gabriele è dipinto in forma completamente umana, si trova in piedi di fronte al letto della vergine e le porge un giglio; come Maria è avvolto in una veste candida, il cui orlo inferiore porta forti riflessi dorati. Maria appare spaventata e timorosa, l’espressione stupefatta, raffigurata nell’atto di destarsi da un sogno e di accoccolarsi su se stessa. Tutti gli elementi presenti nel quadro possiedono un preciso valore simbolico come la stola rossa e la tenda azzurra vicino alla finestra, oltre alla colomba, simbolo dello Spirito Santo. I toni bianchi creano un senso di ambiguità spaziale suscitando l’inquietante illusione che vi sia un vero angelo in carne ed ossa fluttuante nello spazio[1].

Filadelfia – Museum of Art “Annunciazione “- 1898 Henry Ossawa Tanner
Filadelfia , Museum of Art  – “Annunciazione “- Henry Ossawa Tanner ,1898

 

Un’opera più tarda, del 1898, che rappresenta lo stesso soggetto è quella di Henry Ossawa Tanner, artista afro-americano. La sua interpretazione raggiunge il culmine nella raffigurazione dell’Angelo come un ectoplasma luminoso, in contrasto col realismo del resto della scena, anch’essa ambientata in un povero interno orientale. Unici oggetti sono vasellame e tessuti. Quasi come in una cella, né porte né finestre sono visibili, la chiusura dell’ambiente inquadrato è totale. La luce tende a essere artificiale o, meglio, interiore. Seduta sul suo giaciglio, una giovanissima Maria è tornata a guardare verso l’apparizione, con atteggiamento perplesso più che interdetto. Solo le mani, congiunte e strette in grembo, ne tradiscono l’emozione.

Nella lettera agli artisti del 4 aprile 1999, Giovanni Paolo II ricorda che “… la Chiesa ha continuato a nutrire un grande apprezzamento per il valore dell’arte come tale. Questa, infatti, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa”.

 

[1]          Rossetti appartenne alla Confraternita dei preraffaelliti. I temi sono quelli biblici, sovente del Nuovo Testamento e si rifanno a un cattolicesimo delle origini. I Preraffaeliti recuperarono il simbolismo dell’arte cattolica primitiva, venendo addirittura accusati di lanciare oscuri messaggi religiosi. Nessuno di loro però era un cattolico praticante e consideravano la Bibbia un libro che conteneva piuttosto storie letterarie e poetiche che non temi teologici. A differenza di quello che avveniva nei secoli precedenti, le figure assumono caratteri psicologici; invece di concentrarsi esclusivamente sul simbolismo dei gesti e degli oggetti, gli artisti ritraggono anche sentimenti ed emozioni. La sfida per gli artisti protestanti era quella di trovare un modo di far rivivere l’arte religiosa senza però ripiegare su un’idealizzazione delle convenzioni rappresentative di matrice cattolica. La Bibbia era considerata una fonte di drammi umani, cui attingere per i suoi significati letterari e poetici, piuttosto che per i messaggi teologici in essa racchiusi.

Enigmi e parabole

Scritto da GIAN LUCA CARREGA.

 

Qual è il senso di una parabola? Messo davanti ad una domanda così diretta, lo studioso si trincera dietro a una serie di distinguo e comincia a snocciolare una serie di possibili significati, quello che aveva per Gesù quando la raccontava, quello che assume per l’evangelista che la mette per iscritto, quello per la comunità a cui è destinato il vangelo, quello per il lettore contemporaneo, ecc. Un racconto metaforico si presta particolarmente ad una pluralità di interpretazioni e molto dipende da come l’affronta l’osservatore: fino a che punto si estende il paragone?

 

I padri della Chiesa e gli omileti dei primi secoli vedevano in ogni dettaglio del racconto un elemento simbolico che in realtà rimandava ad una realtà spirituale. Per reazione a questa overdose di simbolismo, agli inizi del secolo scorso il tedesco Adolf Jülicher ipotizzò che ogni parabola avesse un solo punto di paragone con la realtà e che una volta individuato quello, tutto il resto facesse parte del contorno narrativo. Se è vero che i padri esageravano con le allegorie, è vero anche che Jülicher è troppo drastico con il suo metodo teutonico e rischia di impoverire la natura altamente simbolica dei racconti orientali.

Adolh Julicher
Adolf  Julicher

 

Prendiamo una parabola molto breve come quella dell’uomo che parte per un viaggio (Mc 13,34-36). La storia è molto semplice: un uomo va via per parecchio tempo e lascia dei compiti ai suoi servi; non sapendo quando tornerà, essi dovranno vegliare per non farsi cogliere impreparati. Non ci sono molti dubbi sul fatto che il padrone di casa sia Gesù e che i servi siano i discepoli. Ma poi ci si pone l’interrogativo: il portiere a cui viene dato il compito specifico di vegliare (v.34) è una figura che si distacca da tutte le altre? Possiamo ipotizzare un riferimento specifico a Pietro in quanto rappresentante degli apostoli, un leader con maggiori responsabilità? Ma allora perché tutti devono vegliare se c’è uno che ha ricevuto espressamente questo incarico?

veglia

Un altro problema è dato dalle ipotesi che vengono fatte circa il momento del ritorno, che spaziano dalla sera al primo mattino. Ma perché il padrone non potrebbe tornare in pieno giorno? Quando uno è in viaggio in un paese lontano impiega diverso tempo per ritornare, dunque perché esporsi ai pericoli di un viaggio notturno quando non c’è alcuna fretta di tornare qualche ora prima? Qui pare probabile che l’elemento della notte sia stato aggiunto per creare pathos e collocare nella storia un particolare che rende più difficile il tempo dell’attesa, così da avvicinarsi maggiormente alla reale fatica della chiesa primitiva che aspettava il ritorno del suo Signore in un clima ostile e di persecuzione. Così un dettaglio poco rilevante per l’economia del racconto e persino un po’ bizzarro diventa un suggerimento utile per comprendere l’applicazione della parabola.

 

La ricerca del quinto evangelio

Scritto da MARIA NISII.

“Se i vangeli non sono rimasti un libro come tanti, finito e concluso nei confini del suo tempo, ciò è accaduto anche perché il modo in cui ci è stato trasmesso il messaggio del Cristo ci ha predisposti alla tensione verso l’apocrifo… la quale per un verso si esplica nella domanda: “Cos’altro ha potuto dire il Cristo che noi non conosciamo?”, e giustifica appunto la fioritura degli apocrifi in quanto tentativo, maldestro quanto si vuole, d’integrare noi la sua Parola.”

(Mario Pomilio, Il quinto evangelio, L’orma ed., Roma, 2015, pag. 25)

 

Chiedersi che cosa d’altro può aver detto Cristo che non conosciamo è tutt’altro che una curiosità maliziosa o eterodossa per il fatto di essere instillata dai vangeli stessi e in particolare dalla finale di Giovanni: Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere (21,25). È da questo assunto che l’ampio testo di Mario Pomilio si dipana (prima edizione 1975, ma recentemente riedito dall’editore L’Orma per i quarant’anni in una versione integrata di altri scritti dell’autore e alcuni approfondimenti critici sull’opera), svolgendo la sua tesi in un’originale forma letteraria, che fa della narrazione romanzata un compendio di documenti, lettere, testi teatrali e rappresentazioni sacre, frammenti e leggende.

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Pomilio scrive un romanzo teologico costruendolo con il tipico motivo della quest, qui coniugata in una ricerca storico-filologica che assume da subito i connotati di un itinerario spirituale e personale dell’uomo che ne ha fatto la propria vocazione, fondendo l’istinto e la passione dello studioso all’inquietudine di un Assoluto. La ricerca ha per oggetto il Quinto Evangelio, vero protagonista del romanzo, costantemente citato in documenti e lettere rinvenuti nel corso della vicenda, che sembrano tessere un filo rosso lungo le diverse epoche della storia del cristianesimo; ma infine il testo in sé rimane sfuggente e irraggiungibile ai suoi cercatori.

 

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Il Quinto Evangelio si presenta come emblema del cristiano, “sempre in bilico tra la certezza che la verità sia già tutta scritta… e la tendenza a considerare i Vangeli qualcosa di simile a un libro aperto e quasi la prima trama d’un contesto di verità che aspettano da noi il loro completamento” (33) e pertanto una costante nella storia della chiesa, per cui si dice “che si manifesta ogni volta che gli uomini ne hanno bisogno” (45-6) e che d’altra parte “scompare quando la Chiesa si corrompe” (145). Ma a coloro che lo cercano viene semplicemente risposto: “Procura di trovare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio” (79).

Che cosa sia questo quinto vangelo è suggerito a più riprese nel corso di tutto il romanzo: non si tratterebbe di un altro vangelo o di un testo diverso ed estraneo agli altri, bensì nel Quinto “le parole assumono un suono diverso, e quasi si fanno più intense” (131). Il Quinto Evangelio pare inoltre coincidere con una sempre maggiore conoscenza delle Scritture: “penetrando sempre più negli Evangeli, “cercandovi la carità”, come domanda San Paolo, l’intelligenza che ne avremo sarà così perfetta, che veramente sarà come se ne avessimo composto un quinto” (212). In breve, “il quinto è come un libro che il Signore ha lasciato aperto. Lo scriviamo tutti noi con le opere che compiamo, e ciascuna generazione v’aggiunge una parola” (144).

 

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Questo testo irraggiungibile, quasi mitico deposito della verità, rappresenta peraltro la vitalità della Parola che, in quanto tale, non può restare racchiusa in nessun testo. E per questo nell’autodefinizione personificata contenuta nel dramma teatrale, il Quinto Evangelio così dice di sé: “potrei essere tutti quei libri [Vangeli] messi insieme. Sono gli apocrifi, sono tutti coloro che si sono ripiegati sulla Parola per meditarla e commentarla, sono l’insieme dei cristiani che nel corso dei secoli si sono interrogati intorno a chi fosse il Cristo, sono la somma della tradizione e il simbolo della ricerca” (339). Una summa della tensione che ha da sempre accompagnato la vita della chiesa e di tutti gli uomini in ricerca autentica del Signore; Cristo infatti “non ci ha dettato una verità, ci ha lanciati in un’avventura” (340).

La Bibbia di John Huston (o di Dino De Laurentiis?)

Scritto da  DAVIDE BRACCO.

 

Questa è una storia del tempo che fu. Una dichiarazione questa che sembra davvero banale, parlando di Genesi e di creazione del mondo, ma che assume un duplice significato se parliamo anche di uno dei kolossal più strambi e particolari della storia del cinema.

 

 

incipit

 

 

In principio fu un produttore quale Dino De Laurentiis (Fellini, Risi, Visconti, De Sica lavorarono, tra gli altri, con/per lui) che ai primi anni sessanta intende cimentarsi nell’impresa di portare sullo schermo la più grande storia mai raccontata, la Bibbia,  da dividersi in due film tra Antico e Nuovo Testamento, da affidare in staffetta ai massimi registi dell’epoca quali Bresson, Fellini, Kurosawa. Un’idea folle in partenza nel pensiero di un produttore capace di imporsi come creatore delle opere prodotte e di asservire all’idea i migliori registi: ma in questo caso il progetto appare presto irrealizzabile per differenti visioni e personalità. Pertanto  si limita dopo poco ad un film su Genesi sotto la regia di John Huston, un anglo-irlandese ben lontano da qualsiasi mistica e certamente non animato da un proposito didattico quale quello del De Laurentiis.

 

bibbiafilm

 

Il film è pertanto un’opera calligrafica e tuttavia sghemba nel suo intento pedagogico e artistico capace di creare cortocircuiti fin dalle prime scene della creazione. Il produttore infatti affidò ad uno dei più grandi fotografi dell’epoca Ernst Haas (uno dei fondatori dell’agenzia Magnum) un budget strepitoso per girare il mondo e filmare dal vero le eruzioni vulcaniche, le grandi cascate, mari e foreste come testimonianze dei primi giorni del creato. Immagini ancora oggi notevoli (e che certo influenzarono pochi anni fa il Malick di Tree of life) ma che – poco dopo – vengono subito contraddette dal pittorialismo facilone che dipinge le scene di Adamo e Eva, qui rappresentati stereotipati con il primo uomo  – con ciuffo novello James Dean – e la prima donna dai lunghi capelli biondi (per non sbagliare interpretata da una svedese…).

 

adamo ed Eva

 

Dopo la visione delle forze selvagge e primigenie di Haas assistiamo ad un rassicurante Paradiso Terrestre rappresentato dal fotografo Giuseppe Rotunno in un giardino di una villa fuori Roma trasformato in uno zoo hollywoodiano.

Un film eclettico come non se ne girano più (ormai tutti omologati in visioni finte-autoriali) che mischia il livello colto con quello popolare, l’intento artistico e quello pedagogico proprio di un tempo di 50 anni fa quando il cinema, prima della visione televisiva in famiglia (e delle serie scaricabili per visioni privatissime su singoli dispositivi), era IL medium e non una opportunità tra le tante.

 

genesi

 

  • Immagini tratte da ” The Bible . In the beginning” ( 1966, John Huston)

L’etichetta giusta

 

Scritto da GIAN LUCA CARREGA.

 

Io sono uno alla vecchia maniera, che se uno gli si presenta e dice: “Piacere, Dottor dei Tali” e poi scopre che non si è mai laureato, ci rimane male. Per questo non mi è mai garbato il Codice da Vinci, che si presenta come un romanzo e poi ti fa un pippone di presunta storia alternativa e pretende che tu ci creda. Se sei un bravo romanziere, fai il tuo mestiere, no? Le stesse idiosincrasie me le porto appresso quando leggo il testo biblico e mi pare importante poter distinguere se l’intenzione del narratore è descrivere un evento che presume essere avvenuto o se invece racconta qualcosa che è puro prodotto di fantasia. Ma il confine è molto più sottile di quanto si possa credere.

 

18) Albero secco - olio su tela - cm 100x75 - anno 1998

 

Ci sono storie pressoché identiche che nei vangeli compaiono sotto registri diversi. Marco e Matteo riportano la strana vicenda di Gesù che a Gerusalemme si imbatte in un fico che presenta molte foglie ma zero frutti, perché non è stagione. Ma siccome Gesù è affamato si arrabbia e ne decreta la seccatura che avviene di lì a poco (Mc 11,12-14 e Mt 21,18-19). Si tratta, ovviamente, di un episodio carico di risvolti simbolici che allude ai frutti mancati di Israele e la cosa è talmente palese che Luca omette questa vicenda imbarazzante e trasforma il fico improduttivo in una parabola che si colloca in un altro contesto e non si riferisce soltanto a Israele ma a tutti coloro che non portano i frutti di conversione auspicati (Lc 13,6-9).

 

zaccheo

 

Qualche volta gli evangelisti riportano esempi di fiction che sono così realistici da spingere a pensare che si basino su vicende davvero accadute: quell’amministratore che approfitta del breve tempo tra la comunicazione verbale del suo licenziamento e l’effettivo allontanamento per ingraziarsi i debitori del suo padrone con un congruo sconto sul dovuto (Lc 16,1-8) pare un fatto di cronaca spicciola. Viceversa, l’incontro di Gesù con Zaccheo, capo dei pubblicani di Gerico, ha dei dettagli così di maniera (la bassa statura del soggetto in questione e l’arrampicata sul sicomoro) che ci fanno pensare quasi a un racconto fittizio (Lc 19,1-10). Ovviamente la mia riflessione non verte sul fatto che Gesù abbia davvero incontrato un tizio di nome Zaccheo – se è successo, buon per lui – ma sulla sensibile diversità di valore dei dettagli di un racconto parabolico, che è la tipica forma di racconto fittizio dei vangeli sinottici. Se non è reale il fatto, tanto meno devo presumere che lo siano certi ammennicoli che lo accompagnano.

 

epulone

 

Perciò quando la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16,19-31) descrive l’aldilà come un luogo di fiamme che tormentano colui che in vita non ebbe compassione del povero non posso pretendere che si tratti di una descrizione di come effettivamente stanno le cose nell’altro mondo. È un modo simbolico di esprimere la sofferenza, serve a far comprendere alle folle il messaggio del contrappasso. Il contenuto dell’insegnamento è reale, il contorno è funzionale allo scopo ma può essere una libertà creativa del narratore, anche se si chiama Gesù.

 

Il Trionfo della Morte

Scritto da NORMA ALESSIO.

Il Signore disse ad Adamo dopo la colpa delle origini:“Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!” (Gen 3,19). Nelle Scritture la morte in sé non è stata raccontata con episodi tali da potere essere raffigurati, perciò gli artisti l’hanno interpretata fino al XVI secolo come una conseguenza del peccato alla luce del racconto delle origini, proprio come Paolo scrive nelle sue lettere: “come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato. Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.” (Rm 5- 12,14).

L’origine del tema della morte non è chiara, per molti studiosi rappresenta il fine di ogni principio vitale  a cui non è possibile opporsi esulando dal significato religioso; la Chiesa invece lo fece proprio, dandone un forte valore di ammonimento verso il peccato che lo genera , e il tema del macabro irruppe nelle raffigurazioni dalla seconda metà del XIII secolo, affermandosi come una vera e propria iconografia della morte. Pochi sono gli esempi ancora conservati di immagini sulla morte realizzate all’interno delle chiese, collocate comunque in luoghi poco agevoli e poco visibili; ma quando sono presenti sono associate alla scena del Giudizio Universale come salvezza nell’aldilà.

Gli artisti tentarono di rappresentarla nel mondo cristiano in vario modo, ma tutte le interpretazioni erano destinate ad avere un’incredibile efficacia, per cui iniziarono ad aggiungersi anche immagini di corpi umani in decomposizione o scene di forte impatto emotivo: è la morte che si mostra nel suo aspetto più orribile e imprevisto davanti agli occhi degli spettatori. A partire dal secolo XIV l’immagine della morte più diffusa nell’Italia è il cosiddetto “Trionfo della Morte”, un tema che si afferma anche in letteratura, con l’opera omonima di Francesco Petrarca.

Giovanni, nell’Apocalisse, (Ap 6,1-8) fa una descrizione figurata della morte, nella chiamata dei quattro cavalieri all’apertura dei primi quattro sigilli,” Quando l’Agnello sciolse il primo dei sette sigilli, vidi e udii il primo dei quattro esseri viventi che gridava come con voce di tuono: «Vieni».Ed ecco mi apparve un cavallo bianco e colui che lo cavalcava aveva un arco, gli fu data una corona e poi egli uscì vittorioso per vincere ancora.Quando l’Agnello aprì il secondo sigillo, udii il secondo essere vivente che gridava: «Vieni».Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada.Quando l’Agnello aprì il terzo sigillo, udii il terzo essere vivente che gridava: «Vieni». Ed ecco, mi apparve un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano. E udii gridare una voce in mezzo ai quattro esseri viventi: «Una misura di grano per un danaro e tre misure d’orzo per un danaro! Olio e vino non siano sprecati».Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: «Vieni».Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra”.

Nelle rappresentazioni del “Trionfo della Morte” generalmente è raffigurato solo il quarto cavallo, riferito all’ultimo versetto, seguito dalla personificazione dell’Inferno, a differenza di quelle più antiche – dei secoli tra XI e XIV – dove erano rappresentati tutti e quattro i cavalieri dell’Apocalisse.

Lucignano d’Arezzo Chiesa di San Francesco - Bartolo di Fredi1375
Lucignano d’Arezzo – Chiesa di San Francesco – Bartolo di Fredi (1375)

 

A Lucignano d’Arezzo, nella Chiesa di S. Francesco in Val di Chiana, la Morte -il cui abito nero si confonde con il colore del suo cavallo – è in procinto di scagliare una freccia non verso il gruppo dei poveri che la invocano, bensì contro i due giovanotti che conversano incuranti tra loro. Qui la morte è rappresentata come una strega, simbolo di arcane potenze demoniache, legata a Satana ed asservita al male, fornita oltre che di arco per uccidere anche di una lunga falce, per mietere e falciare le sue vittime.

Tutto in lei ha lo scopo di atterrire, di incutere paura: il volto minaccioso, la bocca spalancata nel grido: “IO NON BRAMO SE NON DI SPEGNER VITA / E CHI MI CHIAMA LE  PIU VOLTE SCHIVO / GIUNGENDO SPESSO A CHI MI TORCIE IL GRIFO”

Subiaco (Roma) Monastero di Sacro Speco - metà del XIV secolo
Subiaco (Roma) Monastero di Sacro Speco – metà del XIV secolo

 

A Subiaco, l’affresco è collocato in corrispondenza di una scala che conduceva al cimitero del monastero; la Morte diviene uno scheletro dai lunghi capelli che ricordano la sua iniziale personificazione femminile, brandisce la spada e la falce e si scaglia sugli uomini cavalcando un destriero bianco sotto al quale giacciono alcuni giovani ridotti a cadaveri, mentre più indietro invece, un gruppo di poveri vecchi chiede invano di morire.

Palermo – Affresco (600x642 cm) 1446 circa di autore ignoto - staccato da Palazzo Sclafani e conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abbatellis
Palermo – Affresco (600×642 cm) 1446 circa , di autore ignoto – staccato da Palazzo Sclafani e conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abbatellis

Di fortissimo impatto emotivo è, intorno alla metà del Quattrocento, l’affresco con il Trionfo della Morte attribuito ad un maestro catalano e dipinto non in una chiesa ma in un luogo laico come  Palazzo Sclafani a Palermo. Il cavaliere è puro scheletro e il cavallo egualmente scheletrito. La Morte è raffigurata  sullo sfondo di una siepe mentre ha appena scoccato una freccia che è andata a colpire il collo di un giovane; essa ha legata sul fianco la falce e reca con sé una faretra. In basso si trovano i cadaveri delle persone già uccise e, a differenza dei precedenti esempi, sono di ogni categoria sociale: imperatori, papi, vescovi, frati (sia francescani che domenicani), poeti, cavalieri e damigelle: è la dimostrazione che la morte è la regolatrice di ogni giustizia.

Madrid –Museo del Prado -PieterBruegel il Vecchio – olio su tavola 1562, circa
Madrid –Museo del Prado -PieterBruegel il Vecchio – olio su tavola 1562, circa

Il Trionfo della Morte di Bruegel  rappresenta uno dei punti di arrivo della ricerca su questo tema: è la condanna più esplicita dei vizi e dei peccati verso i quali gli uomini sono naturalmente protesi; lo interpreta con una descrizione curatissima e di più scene macabre. Al centro la Morte dirompe a cavallo con la falce, guidando la sua armata delle tenebre, costituita dagli scheletri, che si appresta a massacrare una folla con persone di tutti i ceti sociali, soldati, laici e religiosi e che nulla possono con le loro ricchezze e il loro potere.

 

 

Lieti gli abbattuti di vento

Scritto da  MARIA NISII.

 

“Se le cose che Gesù ha detto erano giuste, e in buona parte anche bellissime, che differenza fa se era Dio oppure no? Se Cristo non avesse pronunciato il Discorso della Montagna, con il suo messaggio di misericordia e di pietà, io non vorrei essere un essere umano. Preferirei essere un serpente a sonagli. La vendetta genera vendetta, che genera vendetta, che genera vendetta, formando una catena continua di morte e distruzione che lega le nazioni di oggi alle tribù barbare di migliaia e migliaia di anni fa”.(Kurt Vonnegut, Quando siete felici, fateci caso, Minimum fax, Roma, 2015, p. 31).

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Gesù declama le beatitudini, ovvero quelle che potremmo definire le nuove vie alla felicità, sopra un monte -come già Mosé era salito sul Sinai per ricevere le tavole della Legge.E non a caso Matteo fa salire Gesù su un’altura (in Luca si tratta invece di un “luogo pianeggiante”): ormai ben sappiamo come gli evangelisti raccontino la vicenda di Gesù, anche facendo uso della cassa di risonanza che poteva garantire il richiamo a temi e personaggi dell’Antico Testamento. È il fenomeno della riscrittura, già presente nella Bibbia. Per questa ragione, che Gesù salga su un monte contribuisce a ritrarlo come il nuovo Mosé. E tuttavia nelle beatitudini Gesù non vuole tanto impartire una serie di norme, quanto proporre una scelta radicale:il progetto di Dio a cui l’uomo viene chiamato è il Regno dei cieli, il che implica in un ribaltamento della visione convenzionale e scontata del mondo a favore di un nuovo ordine di valori, una “sovversione delle precedenze in terra” (Erri De Luca, Sottosopra, p. 21).

Nella mentalità corrente l’idea di beatitudine viene associata abitualmente a una situazione di benessere materiale ed economico, alla fama, al potere, alla forza. Ciò che propone Gesù invece va in tutt’altra direzione, perché Egli proclama beati coloro che si trovano in una condizione che sembra smentire la felicità: “Lassù i valori sono rovesciati. La serie successiva delle letizie nuove è messa a contrappunto delle misere gerarchie terrestri. Lieti sono i mansueti, gli affamati, gli assetati di giustizia, i misericordiosi. La novità è uno scardinamento. Queste letizie scottano come un tizzone da afferrare con le mani” (Sottosopra, p. 21).

Erri De Luca traduce “Beati i poveri in spirito” con “Lieti gli abbattuti di vento”, richiamando un’espressione di Isaia che indica qualcuno in tale stato di prostrazione da essere piegato a terra e con il fiato corto. E commenta questa scelta con un passaggio molto intenso: “A tradurre ruah “vento” anziché “spirito”, s’intende meglio un’umiltà: che non è tuo nemmeno il respiro, che è invece un vento venuto da fuori. Penetra nei polmoni, ne esce, per proseguire oltre. Neanche del respiro si è padroni, e l’evidenza sta nell’atto della nascita, comincia nel neonato con un vento che forza gli alveoli chiusi, li spalanca, li asciuga” (Sottosopra, p. 20).

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La sovversione delle beatitudini che dà la precedenza ai “calpestati”, per usare ancora il linguaggio delucano, ha raccolto il favore di molti uomini, anche non credenti, senza escludere neppure i diversamente credenti, il che attribuisce a questo testo una forza normativa straordinaria, capace di superare confini storici, culturali, religiosi. Kurt Vonnegut, nel brano in apertura, vi fonda la dignità umana. Ma persino Gandhi ne è sempre stato profondamente affascinato:

«L’insegnamento del Sermone della Montagna echeggiava in me qualcosa di appreso nell’infanzia, qualcosa che sembrava appartenere al mio essere e che mi pareva di veder attuare nella vita d’ogni giorno, attorno a me (…). Era l’insegnamento della non-ritorsione, o della non-resistenza al male.

(…) non occhio per occhio, dente per dente, ma il prepararsi a ricevere due colpi quando se ne è ricevuto uno e a fare due miglia quando ne è stato richiesto uno (…). Vidi che il Sermone della Montagna sintetizzava l’intero cristianesimo per chi intendesse vivere una vita cristiana. Fu quel sermone a farmi amare Gesù. (Gandhi, Buddismo, Cristianesimo, Islamismo, Newton Compton, Roma 1993, pp. 52-54)

La raccolta dei credits potrebbe essere molto ampia, ma per questa volta ci limitiamo a proporre in chiusura la rilettura di un grande poeta argentino – Borges – che con quelle declamazioni entra in un interessante gioco dialettico. Ma infine questa lunga poesia sembra, curiosamente, recuperare il tono legislativo, come a sostenere che le beatitudini sono legge per eccellenza dell’umano.

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Frammenti di un vangelo apocrifo

  1. Sventurato il povero di spirito,
    perché sotto terra sarà quello che ora è sulla terra.
    4.Sventurato chi piange,
    perché ormai ha l’abitudine miserabile del pianto.
    5. Felici coloro che sanno che la sofferenza non è una corona di gloria.
    6. Non basta essere l’ultimo per essere qualche volta il primo.
    7. Felice chi non insiste per avere ragione,
    perché nessuno la ha o tutti la hanno.
    8. Felice chi perdona gli altri e chi si perdona da solo.
    9. Beati i mansueti,
    perché non accondiscendono alla discordia.
    10. Fortunati quelli che non hanno fame di giustizia,
    perché sanno che la nostra sorte, avversa o benigna,
    è opera del caso, che è inscrutabile.
    11. Beati i misericordiosi,
    perché la loro gioia sta nell’esercizio della misericordia
    e non nella speranza di un premio.
    12. Beati coloro che hanno il cuore puro,
    perché vedono Dio.
    13. Beati coloro che soffrono persecuzioni a causa della giustizia,
    perché ad essi importa più la giustizia che il proprio destino umano.
    14. Nessuno è il sale della terra;
    nessuno, in qualche momento della sua vita, non lo è.
    15. Che la luce di una lampada si accenda,
    anche se nessuno la vede.
    Dio la vedrà.
    16. Non c’è comandamento che non può essere infranto,
    e anche quelli che dico e quelli che i profeti dissero.
    17. Chi uccide per la causa della giustizia,
    o per la causa ch’egli crede giusta, non ha colpa.
    18. Gli atti degli uomini non meritano né il fuoco né i cieli.
    19. Non odiare il tuo nemico, perché se lo fai, sei in qualche modo suo schiavo.
    Il tuo odio mai sarà migliore della tua pace.
    20. Se ti offenderà la tua mano destra, perdonala;
    sei il tuo corpo e sei la tua anima
    ed è arduo, o impossibile, stabilire il confine che li divide.
    24. Non esagerare il culto della verità;
    non c’è uomo che alla fine del giorno,
    non abbia mentito a ragione molte volte.
    25. Non giurare,
    perché ogni giuramento è un’esagerazione.
    26. Resisti al male, però senza paura e senza ira.
    A chi ti colpisse sulla guancia destra, puoi volgere l’altra,
    sempre che non ti muova il timore.
    27. Io non parlo di vendette né di perdoni;
    l’oblio è l’unica vendetta e l’unico perdono.
    28. Fare del bene al tuo nemico può essere opera di giustizia e non è arduo;
    amarlo è impresa di angeli, non di uomini.
    29. Fare del bene al tuo nemico è il miglior modo di compiacere la tua vanità.
    30. Non accumulare oro in terra,
    perché l’oro è padre dell’ozio, e questo della tristezza, del tedio.
    31. Pensa che gli altri sono giusti o lo saranno,
    e se non è così, non è tuo l’errore.
    32. Dio è più generoso degli uomini,
    e li misurerà con altra misura.
    33. Da’ quello che è santo ai cani, getta le tue perle ai porci;
    ciò che importa è dare.
    34. Cerca per il piacere di cercare,
    non per quello di trovare.
    39. La porta è quella che sceglie,
    non l’uomo.
    40. Non giudicare l’albero dai frutti né l’uomo dalle opere;
    possono essere peggiori o migliori.
    41. Nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia,
    però il nostro dovere è edificare come se fosse pietra la sabbia.
    47. Felice il povero senza amarezza e il ricco senza superbia.
    48. Felici i coraggiosi,
    coloro che accettano con uguale animo la sconfitta o le palme.
    49. Felici coloro che conservano nella memoria parole di Virgilio e di Cristo,
    perché queste daranno luce ai loro giorni.
    50. Felici gli amati e gli amanti
    e quelli che possono prescindere dall’amore.
    51. Felici i felici.

(J.L. Borgesda Elogio dell’ombra)