La latitanza della Bibbia nei programmi scolastici della scuola italiana è una piaga incancrenita che soltanto saltuariamente viene presa in considerazione e diventa oggetto di cure che la possano, se non guarire, almeno ridimensionare. Da questo punto di vista è necessario ricordare il meritorio e lodevole impegno dell’associazione laica Biblia che ha firmato anche nel 2017 un protocollo di intesa col MIUR per “favorire iniziative di informazione e aggiornamento sui temi biblici, in un’ottica di formazione interculturale”.
Sono diversi, comunque, i docenti che si applicano per colmare questa lacuna in ambito culturale ed è ad essi che è dedicata questa recente proposta che prende avvio dal sito del nostro blog e dalla pubblicazione della collana Scrittori di Scrittura.
Nel menù a tendina in alto vedete una nuova voce, RISCRITTORI DI SCRITTURA. Selezionandola troverete le indicazioni per la partecipazione a questo progetto (parlare di “concorso” è un po’ eccessivo, non ci sono ricchi premi in palio…), riservato alle ragazze e ragazzi di scuole medie e medie superiori.
Ci auguriamo che qualche classe recepisca la proposta e di vedere al più presto su questo blog i frutti del loro lavoro. Noi continuiamo a produrre i nostri post, ma siamo ben contenti di lasciare loro spazio: largo ai giovani, qualche volta succede davvero…
Questo testo dedicato alla Trasfigurazione, è stato scritto da David Maria Turoldo per la seconda domenica di Quaresima , il 18 marzo del 1963. E’ tratto da una particolare raccolta di inediti, che le Edizioni Dehoniane di Bologna hanno pubblicato con il titolo «Le stelle in cammino» .
Più che una riflessione , si presenta come una vera e propria riscrittura dell’ episodio del Vangelo: potente e visionaria, mescola insieme prospettive teologiche, esistenziali, profetiche, ecclesiologiche, pastorali e mistiche. E’ scritta nello stile scolpito di Turoldo, con le sue frasi secche, tronche. ribattute, essenziali. Prosciugate fino al massimo della concisione, e sempre pronte a esplodere in un concentrato di significati. Seguendo – nella lettura, specie ad alta voce -la scansione imposta dalla punteggiatura, ci si accorge che siamo davanti a una specie di prosa in versi, o, se vogliamo, a una lirica in prosa.
Quella che segue è una versione liberamente adattata del brano di Turoldo, reimpaginato e “riscritto” nella sua veste di struttura, senza nulla aggiungere o togliere a quanto scritto dall’autore.
“È una domenica da interpretare con quella scorsa.
Cristo tentato, le tenebre, la notte:
oggi è giorno della luce.
Luce – notte: le componenti del cosmo.
Il dramma dell’uno e dell’altra che si cozza nell’uomo.
Cristo : sintesi di questo dramma.
Un corpo che gronda luce.
Il punto massimo della storia del mondo
è raggiungere questa trasfigurazione.
Domenica di verità teologica, e di biologia del mondo.
È il dramma della terra:
aspetta di arrivare alla luce ,
a immergersi,
e diventare luminosa.
Luce: simbolo misterioso della realtà divina.
Il corpo di Cristo
è lo strumento dell’esplosione della luce.
Oggi è il momento della sua terrestrità.
Tutte le cose attendono il rivelarsi di questa luce;
Josquin Des Prez è stato uno dei massimi esponenti della cosiddetta “scuola franco fiamminga”, una sorta di egemonia dell’eccellenza musicale grazie a cui i compositori dei Paesi Bassi crearono, sostennero e fecero fiorire la musica polifonica nei secoli XIII-XVI con risultati ineguagliati.
Fra i suoi contemporanei e conterranei, Josquin spicca per l’assoluta fluidità, morbidezza ed espressività della scrittura: le linee polifoniche si intrecciano con eleganza suprema, con una padronanza totale della tecnica compositiva che si traduce in un’intensa appropriazione emozionale dei testi, esaltati dalla bellezza della musica pur in una grande compostezza e sobrietà, che rifugge dagli estremi e dai facili effetti.
Tutti questi elementi si ritrovano nel toccante Absalon, fili mi, uno struggente mottetto che pone in musica il lamento del Re Davide sulla morte di Assalonne, suo figlio e suo nemico allo stesso tempo. La vicenda di Davide ed Assalonne è profondamente umana, impastata di quei sentimenti e di quelle vicissitudini che hanno costellato il corso della storia e delle storie umane, seppur vissuti in modo estremo ed anche sanguinario: un figlio difficile, che ha le mani sporche del sangue del fratello e tenta di usurpare il trono paterno; un figlio che ha fatto soffrire il padre, nei suoi affetti familiari e nella sua carica regale, ma anche, e soprattutto, uno che rimane sempre figlio amato.
Il lamento intonato da Davide in 2 Sam 18,32-33 è qui amplificato sia nel testo sia nella realizzazione musicale. Come è suo solito, Josquin rifugge dalla spettacolarizzazione del dolore, anche se coglie tutte le occasioni di rendere musicalmente i sentimenti del re. Il nome stesso di Assalonne, “Absalon”, con le sue due “a”, diviene spesso un lamento in se stesso, e la “a” diviene quasi solo il suono del gemito, più che l’elemento di una parola.
La discesa agli inferi, che Davide invoca su di sé, è raffigurata da una musica discendente, che diviene ad un tempo simbolismo grafico sulla partitura, ed eco onomatopeica del sospiro nell’esecuzione musicale. Le flessuose volute armoniche della musica di Josquin si piegano improvvisamente e dolorosamente sulle parole che evocano il pianto, “plorans”, e proprio dalla compostezza trattenuta della raffigurazione musicale il dolore di Davide acquista una forza struggente e sovraindividuale. Il pianto di Davide smette di essere solo suo, e diviene il lamento dell’umanità che piange i suoi figli.
Gesù, dopo che ebbe ricevuto il Battesimo, fu condotto dallo Spirito nel deserto e, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame e in quel momento il tentatore gli si avvicinò e iniziò a fargli le proposte. Il racconto delle tentazioni è in stretto rapporto con quello del Battesimo, tanto che pittori come Gaudenzio Ferrari a Varallo Sesia e Martino Spanzotti a Ivrea, nel Quattrocento, dipingono i due avvenimenti nello stesso riquadro. Matteo e Luca raccontano tre tentazioni, precedute dal momento del digiuno e solitudine nel deserto, e il finale dove gli angeli si avvicinano e lo servono. Nella prima tentazione Satana chiede a Gesù la trasformazione delle pietre in pane, nella seconda di gettarsi dalle alte mura del Tempio e farsi salvare dagli angeli e nella terza gli chiede di adorarlo in cambio dei regni della terra.
Nella maggior parte dei dipinti viene rappresentata solo la prima tentazione, mentre sono poche le opere che descrivono insieme i tre momenti del racconto.
Singolare è la tela eseguita tra il 1515-20, ora al Metropolitan Museum of Art di New York, di Alessandro Bonvicino, detto il Moretto da Brescia, dal titolo “Cristo nel deserto con gli animali selvatici”, che rappresenta Gesù subito dopo il Battesimo: nel deserto, prima della tentazione, mentre stava digiunando per quaranta giorni e “… stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano”, in atteggiamento di meditazione, con una mano sulla guancia che non esprime altri sentimenti.
Moretto da Brescia, Gesù Cristo nel deserto con gli animali selvatici (1540 ca.), olio su tela
A Firenze, nel Convento di San Marco anche Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro detto Beato Angelico, frate-pittore, ci dà un’immagine di Cristo estraneo ai turbamenti prodotti dal male; vede tutto in chiave di redenzione e positività, è come se volesse attrarre più con la bellezza dello spirito che con la minaccia dei tormenti, al punto da non fare percepire (o quasi) il male che sta intorno. La sua arte è una predicazione diretta ai monaci del convento di San Marco, i quali, osservando il dipinto, dovevano essere condotti alla contemplazione, fornendo loro spunti appropriati alla riflessione religiosa. L’affresco della cella 32, del 1492, è costituito da due parti: quella superiore che ha come sfondo il paesaggio ameno della terra vista dall’alto, al cui centro c’è la figura di Gesù ritto sulla sommità del monte dove l’aveva condotto il tentatore con le sembianze di un uomo con artigli da uccello rapace e ali da pipistrello.
Beato Angelico, Affresco della Cella 32, 1492 – Firenze, Convento di San Marco
Nel registro sottostante è raffigurato ai piedi del “monte altissimo” in un bosco, seduto al centro e raccolto in preghiera. Gesù è avvicinato da due angeli recanti cibo e bevande in abbondanza, il seguito cioè della narrazione evangelica: “… ed ecco angeli gli si accostarono e lo servirono”.
Difficile invece distinguere le tre scene delle tentazioni nel dipinto di Alessandro Filipepi, detto Sandro Botticelli, nella Cappella Sistina, realizzato (con aiuti) tra il 1481-82, poiché vi è il tema cosiddetto principale in riferimento al Libro di Mosè (Lv. 14) dal titolo “Purificazione di un lebbroso” e quello funzionale al secondo titolo “Le prove di Cristo”. Per quello che si sa, non si conosce altra scena della purificazione, unita anche solo a una delle tentazioni di Gesù, né in alcuna raffigurazione biblica, né in altro scritto di un padre della Chiesa o di qualche teologo medioevale o di quell’epoca. Singolare la composizione in primo piano in cui è rappresentato un rito di purificazione al tempio, con un sacerdote pronto per il rito e – sul fondo – le tre tentazioni evangeliche.
Sandro Botticelli e aiuti, Le prove di Cristo, Roma, Cappella Sistina, 1481-1482
La prima (1) è in alto a sinistra, in una selva molto oscura, invece del deserto del racconto biblico: vi è il diavolo che indossa un saio con artigli e ali di pipistrello, appoggiato a un bastone, che sta esortando Gesù, debilitato dallo snervante digiuno, a trasformare le pietre in pane per nutrirsi.
(1) Sandro Botticelli. particolare da Le prove di Cristo
Quindi la scena in alto al centro (2) , dove sempre il diavolo gli propone di gettarsi dalla parte più alta del Tempio di Gerusalemme.
(2) Sandro Botticelli, particolare da Le prove di Cristo
Nella scena che segue, dopo che Gesù respinge l’offerta dei regni del mondo, si vede il diavolo che inizia a cadere dall’alto dirupo, mentre gli angeli – dietro Gesù- si preparano ad apparecchiare la mensa (3); infine sempre Gesù, più in basso, raffigurato a sinistra del dipinto dopo il superamento di queste prove, “assiste” alla purificazione del lebbroso guarito.
(3) Sandro Botticelli, particolare da Le prove di Cristo
Un’opera che tralascia ogni iconografia conosciuta e che non ha più nulla del racconto evangelico, ma ha lo scopo di risvegliare la coscienza religiosa del popolo, è “Tentazione”, della fine del XIX secolo, esposta alla Galleria Tret’ Yakov di Mosca, di Ivan Nikolaevič Kramskoj, un pittore russo che affermava di essere ateo, legato a doppio filo con la tradizione e le attese di riscatto del suo popolo. Egli mette nei suoi quadri un mondo interiore pieno di compassione, di pietà. Utilizza un linguaggio realistico per evidenziare l’aspetto psicologico di Gesù uomo, tentato. La figura di Gesù, con una tunica rossa e un mantello scuro, copre una grande porzione del quadro, ha le mani nervosamente congiunte, ad esprimere la fatica di una tentazione lunga e vera. Il dolore e la fatica di Gesù provato sono raffigurati sotto forma di profonde e lunghe rughe, con un’espressione di stanchezza e di disperazione, seduto su una roccia, immerso in un paesaggio arido, desolato. In “Gesù tentato” il senso di trascendenza viene suggerito anche dall’utilizzo di una veduta panoramica dall’alto, trasmettendo così la sensazione di trovarsi su una montagna. Il suo sguardo è assorto: sembra guardare nel vuoto, pare la personificazione dello stesso desolato paesaggio che lo circonda; ma sullo sfondo, nell’orizzonte illimitato, la luce dell’alba è espressione della prospettiva di fede pasquale.
Ivan Nikolaevič Kramskoj, TENTAZIONE , fine ottocento, Galleria Tret’ Yakov di Mosca
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In copertina : Kramskoj, Tentazione , particolare del volto
Riscrivere la Scrittura non è solo un atto di ri-creazione (ludica ed eterea o seria e attenta) ma anche un’azione con la quale si dà voce e compimento alla davar (parola) ebraica. Una Parola che tramite la penna dell’ adam si mostra con un senso nuovo, anela a un significato, protende verso il limite. E poi si fa trovare. Si fa trovare dal cercare dell’uomo che si pone in ascolto e la indaga per mettersi in relazione con essa e con chi la pronuncia. Così una possibile declinazione della riscrittura è la preghiera, ovvero uno shahár Dio o la divinità. Si può parlare di “divinità”, “infinito” o “limite” perchè chiunque può operare questa ricerca, sia un credente che un non credente. E si può riscrivere la Parola parlando di preghiera perchè la Bibbia è anche l’anello di congiunzione fra Dio e l’uomo e la preghiera è essa stessa quel trait d’union fra l’Infinito e il finito.
Erri De Luca lo ha fatto e si è servito del Testo Sacro, libro con il quale inaugura ogni giornata:
“Ogni giorno mi alzo assai presto, sfoglio per mia usanza l’ebraico dell’Antico Testamento che è la mia ostinazione e la mia intimità. Così imparo. Sento che ogni giorno i pezzi che perdo nel vivere vengono risarciti da una parola che lentamente viene incontro alla mia immobilità e mi conforta con un’intelligenza.” (Ora prima, p. 7)
La Bibbia è intimità, parola che sul dizionario appare come la sfera dei sentimenti e degli affetti più gelosamente custodita, indica confidenza e familiarità. La preghiera può essere un atto comunitario ma è nell’intimo dell’animo umano che esprime la sua spinta più forte verso l’alto. Sacra Scrittura e preghiera sono quindi strettamente interconnesse:
“Chi crede dà il tu a Dio, gli si rivolge riuscendo a trovare dentro di sé il verso, l’urlo o il bisbiglio, il luogo, chiesa o casa o aria aperta, l’ora, per distogliersi da se stesso e disporsi verso il proprio oriente.” (Ora prima, p.10)
Con queste parole lo scrittore napoletano illustra il motivo per cui lui non ha fede e lo fa ricorrendo a Giobbe. Per De Luca un credente autentico è colui che riesce a colmare la distanza fra creatura e creatore con un tu, e il patriarca idumeo, al contrario dei tre amici che si erano offerti di aiutarlo, è il solo ad averlo fatto. Per questo motivo Dio lo ascolta ed esaudisce le sue preghiere, rivolgendoglisi direttamente. Gli altri personaggi parlano di Dio come avvocati difensori di un loro cliente, rimangono freddi e indifferenti nella loro terza persona, di fronte al dolore mai si rivolgono a Dio perché soccorra, ma sempre difendono la pena e la tortura inflitta all’amico. E Dio rende ragione a Giobbe, proprio a lui che in preda alla disperazione e alla collera ha persino dubitato della sua bontà ( È forse bene per te opprimermi, disprezzare l’opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi? Gb 10,5). Il tu della preghiera diviene così l’escamotage per decifrare, con una rinarrazione, l’annosa vicenda del personaggio biblico che da sempre pone il lettore di fronte all’eterna domanda sulla teodicea: come conciliare la presenza del male nel mondo, con l’esistenza di un Dio buono? E poi shahàr: cercare. De Luca in Penultime notizie circa Ieshu/Gesù richiama il Salmo 63 e immagina Davide che prega nel deserto:
O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco,
Di te ha sete l’anima mia,
A te anela la mia carne,
Come terra deserta, arida, senz’acqua
Davide, perseguitato dai bravi di re Saul; Davide, che nel deserto conosce il prezioso sollievo del sole i cui primi raggi riscaldano le ossa intirizzite dal freddo della notte. Un corpo assetato e stanco, provato dalla fatica e dall’affanno; un verbo che è manifestazione e apice della davar ebraica: shahàr. De Luca traduce: “Ha sete di te il mio fiato, si strugge di te la mia carne in terra di aridità e assetata senz’acqua” (p.39) e conclude con “Ti cercherò” nella sua duplice accezione, perché shahár vuol dire anche aurora. Lo scrittore napoletano rimarca la forza espressiva della lingua biblica ponendo l’accento su questa assonanza che vuole significare, spiega, un’urgenza fisica oltre che spirituale. Un’impellenza del corpo ma anche del fiato (declinazione non credente di anima) che si manifesta nella pronuncia stessa della parola: ashaharèca, un soffio che esprime stanchezza e anelito. “Cerca la divinità come si cerca aurora nella notte” scrive De Luca. E conclude così: “A tutti quelli costretti in un’angustia, quelli per cui il mondo si è rinchiuso a sacco sulla testa, auguro la spinta sfrenata di Davide a cercare con forza l’avvento dell’aurora.” (p.41)
Shahàr Dio o shahár consolazione, pace, sollievo? Ciò che conta è mettersi in viaggio.
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Opere citate – Erri De Luca :
Ora prima, Qiqajon, Magnano (BI) 1997.
Penultime notizie circa Ieshu / Gesù, Ed. Messaggero Padova 2009.
Ho pensato di iniziare la mia collaborazione con il blog di Scrittori di Scrittura con un brano del compositore inglese barocco Henry Purcell, che pone in musica alcuni versi del salmo 119 (118), iniziando da Thy word is a lantern, “La tua Parola è lampada ai miei passi”. Con questa “riscrittura” musicale della Bibbia ho infatti voluto sottolineare il ruolo che la Parola stessa ha nella vita del credente, e il modo in cui anche la musica può farsene tramite. Se brilla di luce propria il Verbo di Dio, la musica, in qualche modo, può potenziarne l’efficacia, toccando, con la sua forza simbolica, razionale ed affettiva, quelle zone del cuore umano che a volte sono più refrattarie alle sole parole.
La Parola non ha bisogno della musica; ma il Logos di Dio è Parola nel senso più ampio, comprendendo in sé tutti i linguaggi umani e trascendendoli nel contempo. Anche la musica, perciò, non solo può essere al servizio della parola e della Parola, ma può essa stessa essere Parola, quando sgorga dalla contemplazione della bellezza e della verità e quando si abbevera ad un’ispirazione che non è solo umana, pur radicandosi nell’umano e ponendolo in dialogo col trascendente.
Propongo questa versione del Salmo nella musica davvero luminosa e gioiosa di Purcell, che coniuga la chiarezza di intelligibilità delle parole tipica della musica anglicana con l’eleganza e il fascino dello stile italiano, che piaceva molto agli inglesi dell’epoca barocca. Il reciproco rispondersi e farsi eco delle voci è quasi un’allusione alla forza con cui la Parola si diffonde, come luce e come suono ripetuto e moltiplicato.
*Chiara Bertoglioè una giovane concertista di pianoforte, musicologa, scrittrice e docente italiana. Laureata e dottore di ricerca in musicologia, ha scritto diversi libri e numerosi saggi per riviste specialistiche italiane ed internazionali. Svolge intensa attività didattica privatamente ed in importanti istituzioni italiane ed estere, sia come docente di pianoforte sia come musicologa.
La Domenica delle Palme in molte chiese si approfitta della possibilità di leggere il Passio nella forma drammatizzata che distribuisce il testo tra vari lettori. È una di quelle occasioni in cui il testo biblico diventa una questione di performance e l’intonazione di un lettore o una lettrice può davvero fare la differenza e offrire un significato diverso ad una battuta. Un caso classico, per me, è la risposta di Gesù alla domanda del sommo sacerdote che gli chiede se sia lui il Cristo, il Figlio di Dio. Mt 26,64 riporta laconicamente la risposta: “Tu l’hai detto”.
Il problema è che a seconda dell’intonazione questa frase può voler dire una cosa e il suo contrario. Pronunciata con una certa enfasi diventa un’asserzione esplicita: “È proprio così, perbacco!”. Ma basta aggiungere una lieve flessione nella voce e diventa una dubbia insinuazione: “Sei tu a dirlo, non io”. Al povero diacono o sacerdote cui è affidata la lettura di questa battuta spetta l’ingrato compito di dover decidere se Gesù nega o accetta questo addebito, una questione su cui persino gli studiosi sono in grande imbarazzo, figurarsi se poi se la trova tra capo e collo senza essersi preparato prima…
Giambattista Piazzetta (Venezia, 1683 – 1754), San Tommaso, olio su tela,
Un altro dubbio imbarazzante riguarda l’esclamazione di Tommaso dopo che Gesù ha deciso di tornare in Giudea per salvare il suo amico Lazzaro, una scelta che lo espone a parecchi rischi perché poco prima i Giudei avevano tentato di toglierlo di mezzo. Tommaso commenta in maniera sibillina: “Andiamo anche noi a morire con lui” (Gv 11,16). È il lamento rassegnato di un don Abbondio che teme di dover soccombere accanto al suo maestro o il grido entusiasta di un fanatico? Anche qui è difficile decidere. Spesso il giudizio viene condizionato dagli altri due passaggi in cui Tommaso prende la parola (Gv 14,5-7 e 20,24-29), dove l’apostolo ha delle uscite scomposte, per desumere che anche in questo caso dica qualcosa di riprovevole. Ma, in mancanza di prove evidenti in senso contrario, dovremmo presumere la buona fede di un discepolo. Tommaso sembra davvero convinto di voler intraprendere quel destino con Gesù e, come avverrà alla fine del vangelo, pare viaggiare controcorrente rispetto agli altri discepoli. E tuttavia in questa affermazione non manca una certa dose di ironia da parte dell’autore del vangelo: come ben sanno i lettori, nessuno dei discepoli, né lui né altri, andrà a morire con Gesù, ma verrà loro risparmiata questa prova.
All’approssimarsi del giorno della memoria, sarebbero tanti i testi adatti a parlare di Bibbia, di letteratura e di shoah. Scegliamo uno dei testi di Paul Celan, poeta rumeno di origine ebraica, segnato dagli eventi della seconda guerra mondiale: la sua famiglia viene sterminata e lui si salva dalla deportazione sottoponendosi a diversi campi di lavoro.
Nonostante il successivo riconoscimento – Todesfuge, Fuga di morte, viene pubblicata nelle antologie tedesche – e una vita intensa dal punto di vista affettivo e delle relazioni artistiche, è attanagliato dall’angoscia tanto da arrivare al suicidio. Il suo impegno poetico sembra in gran parte rispondere alla domanda di T. Adorno se sia ancora possibile scrivere poesia dopo Auschwitz. Data la sua copiosa produzione la risposta sembra affermativa, e tuttavia la parola poetica non può essere più la stessa, come emerge in questo Salmo. Infine non è irrilevante ricordare come Celan sia autore di lingua tedesca, da lui mai rinnegata.
Nessuno c’impasta di nuovo, da terra e fango,
nessuno insuffla la vita alla nostra polvere.
Nessuno.
Che tu sia lodato. Nessuno.
È per amor tuo
che vogliamo fiorire.
Incontro a
Te.
Noi un Nulla
fummo, siamo,
resteremo, fiorendo:
la rosa del Nulla,
la rosa di Nessuno.
Con
lo stimma anima-chiara,
lo stame ciel-deserto,
la corona rossa
per la parola di porpora
che noi cantammo al di sopra,
ben al di sopra
della spina.
(Paul Celan, Salmo)
Come un salmo, questo poema leva la propria voce al Creatore. Che tu sia lodato – ma qui non si tratta di una lode, tradizionalmente intesa, quanto piuttosto di un grido, un lamento, perché non c’è più un Creatore ora a modellare quel pupazzo d’uomo impastandolo da terra e fango, per poi dargli vita insufflandone il soffio vitale nelle narici (Gen 2,7). Questa lode non ha contenuto, motivazione (“Cantate al Signore un canto nuovo perché ha compiuto meraviglie” – Sal 97 (98)) e l’amore non ha destinatario – per amor tuo, Nessuno.
Se il creatore è Nessuno, l’assente, l’uomo è Nulla, un niente, irrilevante per l’assenza di quell’Alterità che gli darebbe dignità d’essere – la fioritura.
A Nessuno (Niemand) dunque corrisponde il Nulla (Nichts) nella terra della desolazione che è anti-creazione. Solo terra, fango, polvere. Senza soffio vitale. Cenere.
Eppure resta il desiderio dell’incontro, la tensione dell’anima verso il cielo – sebbene deserto per l’assenza del Creatore. L’apertura alla fecondità, che l’anima attende dal cielo (stimma e stame), si fa parola di porpora, decoro e orgoglio, rivestimento regale, che leva il suo canto oltre il dolore inscritto nel proprio essere (la spina della rosa). Il canto desolato resta canto, elegia, ‘salmo’ – parola testimone dell’immemorabile. E la creazione non scompare di fronte alla propria negazione, ma si fa parola oltre la parola. La parola poetica dopo Auschwitz.
Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!».(Gv 1, 35-36).
Giovanni il Battista, con questa esclamazione non si inventa nulla di nuovo: ri-scrive, per dir così, Isaia, e le parole della sua profezia: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello” (Isaia, 53,7). Così, questa espressione ci richiama immediatamente l’idea del Messia Salvatore da un lato, e del suo sacrificio per la nostra salvezza dall’altro.
Nel 1996, un cantatutore italiano completamente laico e non solito frequentare tematiche religiose come Francesco De Gregori, scrive a sorpresa una canzone proprio partendo da questo versetto , e così la intitola. In apparenza, una scelta soprattutto provocatoria e di rottura, dal momento che nel suo brano l’appellativo di “Agnello di Dio” viene in realtà riferito a figure negative e di perdizione. Non mancarono infatti, e da subito, polemiche e accuse in questo senso nei suoi confronti
Eccone il testo.
“Ecco l’agnello di Dio
chi toglie peccati del mondo.”
Disse la ragazza slava
venuta allo sprofondo.
Disse la ragazza africana sul raccordo anulare.
Ecco l’agnello di Dio
che viene a pascolare.
E scende dall’automobile
per contrattare.
Ecco l’agnello di Dio
all’uscita dalla scuola.
Ha gli occhi come due monete,
il sorriso come una tagliola.
Ti dice che cosa ti costa,
ti dice che cosa ti piace.
Prima ancora della tua risposta ti dà un segno di pace.
E intanto due poliziotti
fanno finta di non vedere.
Oh, aiutami a fare come si può,
prenditi tutto quello che ho.
Insegnami le cose che ancora non so, non so.
E dimmi quanto maschere avrai
e quanto maschere avrò.
Ecco l’agnello di Dio
vestito da soldato,
con le gambe fracassate,
con il naso insaguinato.
Si nasconde dentro la terra,
tra le mani ha la testa di un uomo.
Ecco l’agnello di Dio
venuto a chiedere perdono.
Si ferma ad annusare il vento
ma nel vento sente odore di piombo.
Percosso e benedetto
ai piedi di una montagna.
Chiuso dentro una prigione,
braccato per la campagna.
Nascosto dentro a un treno,
legato sopra un altare.
Ecco l’agnello che nessuno lo può salvare.
Perduto nel deserto,
che nessuno lo può trovare.
Ecco l’agnello di Dio senza un posto dove stare.
Ecco l’agnello di Dio senza un posto dove stare.
Oh, aiutami a stare dove si può
e prenditi tutto quello che ho.
Insegnami le cose che ancora non so, non so.
E dimmi quanto maschere avrai,
regalami i trucchi che fai,
insegnami ad andare dovunque sarai, sarò.
E dimmi quanto maschere avrò.
Se mi riconoscerai,
dovunque sarò,
sarai.”
In realtà, anche De Gregori sembra parlarci di “salvezza”, “salvatori”, e sacrificio. Lo fa con le minuscole e con le virgolette che la visione da non credente comporta, e consapevole di quante volte questi concetti siano nella realtà drammaticamente confusi e ambigui: proprio le persone che in certi casi ci sembrano di aiuto e decisive, si rivelano nei fatti i nostri veri oppressori e carnefici.
Nella canzone infatti, per rapidi tratti, si accennano storie di vittime sacrificate. Si parte con due prostitute. Sono due ragazze straniere, venute da posti lontani, finite sullo stradone per antonomasia, il raccordo anulare di Roma , che vedono arrivare un possibile cliente che accosta e scende a contrattare il prezzo. Vittime certamente le due donne, per le quali l’uomo rappresenta la momentanea via d’uscita dallo squallore e dal freddo dell’attesa sull’asfalto; vittima in qualche misura anche il cliente, che se ne è andato fin lì a “ pascolare” : a ricercare un cibo che in quel momento gli sembrerà risolutivo e che invece non risolverà nessun fame.
Si passa poi davanti a una scuola, dove , con aspetto sorridente e rassicurante, uno spacciatore sa avvicinarsi dicendo le cose giuste per essere ascoltato e, prima ancora di avere risposta, lascia scivolare quel che desidera , con una stretta di mano, regalando evidentemente della droga. Anche qui dunque vittime “innocenti” – fino a un certo punto, però – come gli studenti sottintesi- e falsi salvatori: il pusher finto amichevole, e gli stessi poliziotti che dovrebbero essere portatori di sicurezza e che, al contrario, fingono di non vedere.
La terza scena ci porta in guerra: qui la vittima è un soldato, ferito e massacrato, costretto a nascondersi in una buca; ma anche lui, con un semplice cambio di verso, rivela il suo essere ed essere stato contemporaneamente carnefice, dal momento che in mano stringe la testa di un altro uomo, verosimilmente appena ammazzato. Dunque vittima, ma bisognoso di perdono, colto in un attimo di pausa che diventa consapevolezza di quel che ha fatto e che gli è successo, e , soprattutto, della violenza generale in cui è immerso completamente.
Da questi tre quadri, De Gregori passa a una carrellata di situazioni in cui ogni vittima puo’ trovarsi ed essere trovata. Sono situazioni opposte, di contraddizione e di confuso impasto tra il bene e il male. Percosso e benedetto, ai piedi di una montagna, chiuso dentro una prigione, braccato per la campagna. Nascosto dentro a un treno, legato sopra un altare. Ecco l’agnello di Dio che nessuno lo può salvare. Perduto nel deserto, che nessuno lo può trovare. Ecco l’agnello di Dio senza un posto dove stare.
Un lungo elenco drammatico, scandito in musica da un ritmo incalzante, che ci fa prendere coscienza della pervasività e della ineluttabilità del male. E il credente trova nell’ultimo di questi versi una altra eco inaspettata, perché quel “ senza un posto dove stare” gli richiama direttamente alla memoria il passo di Vangelo in cui Gesù afferma “Il figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo” ( Lc 9,58).
Tra le tre storie della canzone, si apre come la parentesi di una preghiera, o di qualcosa che molto da vicino la ricorda. Aiutami a fare come si può, è un riconoscimento di inadeguatezza e una dichiarazione di impotenza a cambiare le cose, prenditi tutto quello che ho è un consegnare se stessi a qualcun altro, insegnami le cose che ancora non so, una richiesta di aiuto a comprendere, mentre dimmi quante maschere avrai e quante maschere avrò suona come una preghiera per saper vedere oltre le apparenze e la semplificazione troppo facile delle cose.
Dunque, una rilettura senz’altro spiazzante e del tutto laica del versetto del Vangelo, ma molto più impregnata di quanto possa sembrare all’apparenza (tema che ritorna, come si vede) di humus evangelico: il degrado morale,la violenza e la sopraffazione, rendono difficile separare bene e male, buoni e cattivi, con un colpo di accetta netto, ed è necessario volere e sapere andare oltre la maschera dell’apparenza, prima di agire e di operare con i giudizi.
Per la cronaca, come accennato, il brano di De Gregori suscitò polemiche non di poco conto in ambito cattolico. L’ Osservatore Romano, accomunando nella critica anche altri cantautori italiani, protestò per lo sfruttamento della immagine di Dio nei loro pezzi a fini di provocazione commerciale .L’artista si difese affermando “Gesù patì non in compagnia di sant’uomini, ma di due ladroni che portò con sé in Paradiso. Al posto dei ladroni in questa canzone ci sono puttane, spacciatori, il soldato che decapita il nemico… Non è certamente una canzone pacificatoria. Ma dov’è lo scandalo?”.(https://it.wikipedia.org/wiki/Prendere_e_lasciare). La querelle si concluse con un faccia a faccia tra il cantante e il cardinal Tonini in uno studio televisivo* e con De Gregori che, due anni dopo, durante un concerto, proprio al cardinale dedicò la canzone.
Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo. Egli si alzò nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: dall’Egitto ho chiamato mio figlio” (Mt 2,13-15).
La Fuga in Egitto, è nota scena evangelica del periodo di Natale, riportata solo nel Vangelo di Matteo, dove è narrata con un linguaggio essenziale e povero di particolari descrittivi, con l’ordine dell’angelo a Giuseppe di scappare in Egitto di notte, con Maria e il Bambino, fino alla morte di Erode.
Numerose sono le opere che fin dai primi secoli hanno illustrato questo tema. Generalmente nelle immagini è rappresentato Giuseppe vecchio, che tiene sulle spalle un fagotto e conduce l’asino su cui siede la Vergine col figlio. La famiglia si dirige verso l’Egitto, come nel racconto evangelico, perché già in tempi lontani, da Abramo a Giuseppe e a Mosè, è stato rifugio abituale degli Ebrei.
Partendo da questi elementi fissi, gli artisti hanno dato libero sfogo sia al loro senso del simbolico sia all’amore per il realismo.
Prendendo come esempio un autore contemporaneo si ha la possibilità di sapere attraverso le sue interviste o testi scritti, cosa ha voluto trasmettere nella sua opera.
Renato Guttuso – Fuga in Egitto
Renato Guttuso, noto per non essere un pittore di chiese, né un iconografo del trascendente, ma conosciuto per le sue tematiche sempre legate alla realtà e al presente, dipinge La fuga in Egitto nella grande parete esterna di una delle tre cappelle del Sacro Monte di Varese, su commissione di Monsignor Pasquale Macchi, durante una massiccia campagna di restauri e di valorizzazione del Sacro Monte, coprendo quello che rimaneva del precedente affresco seicentesco con medesimo soggetto, del pittore lombardo Carlo Francesco Nuvolone. Guttuso si trova a dipingere all’aperto “in diretta” davanti alla gente che visita il Sacro Monte e immagina la scena incarnata nell’oggi e ambientata in un paesaggio arido e povero, dove regna la natura selvaggia e brulla, con la famiglia che avanza verso l’ignoto, rappresentata realmente ebrea e palestinese allo stesso tempo, come quella evangelica. Il volto di Giuseppe infatti, chiaramente ebreo, esprime la dolorosa fierezza del perseguitato. I colori sono forti, di una luce vivida e solare. La Vergine stringe al petto il figlio che dorme, e lo protegge, cavalca l’asino insieme a Giuseppe caricato delle povere masserizie domestiche e gli attrezzi del suo lavoro e una capretta che potrà dare latte e sostentamento nell’esilio. I temi dell’esodo, la migrazione obbligatoria, l’uomo la donna il bambino costretti ad abbandonare la casa, la città il lavoro, a causa di un eterno erode che li minaccia nella persona e nelle cose sono purtroppo ancora attuali. Sebbene la scena sia attualizzata e realistica, non manca di simboli come il ramarro che distrae la capretta, amico dell’uomo e che lo avverte quando “la serpe” si sta avvicinando, e la colomba segno di pace e dello Spirito Santo posta a guida verso la nuova meta della famiglia profuga.
“Il racconto evangelico – ricordava Guttuso – si ripete ai nostri giorni. Ho fatto un dipinto mio vedendo il tema della Fuga non secondo schemi manieristici ma nella contemporaneità. Ai nostri giorni, infatti, l’esodo dalla propria terra per scampare da una oppressione è spesso presente … Io sono fiero di aver fatto un dipinto efficace, comprensibile, attraente, di immediato contatto, senza stupidi intellettualismi, modernismi, complicate operazioni linguistiche” (Questo dipinto è stato concepito per il luogo dove si trova, “La prealpina” 1° agosto 1984)
E ancora racconterà: ” Si sono molto stupiti che un pittore comunista abbia dipinto una scena di carattere così religioso. Ma, anche se comunista, io ho un senso religioso della vita … Del resto, ritengo di essere un pittore “civile”; e l’aderire agli ideali civili contiene sempre un elemento religioso” (Non dirò mai che sono ateo, Intervista rilasciata a E. Ferri 1985-1986, Panorama n.1085, 1° febbraio 1987, 13/47).
Diceva Guttuso: “la pittura è il mio mestiere. Cioè, è il mio modo di avere il rapporto con il mondo. Vorrei riuscire a testimoniare del mio tempo che è come dire delle mie passioni, senza essere costretto a falsarne i significati. Vorrei parlare chiaro e sembrare ovvio, senza essere ovvio e anzi dicendo cose totalmente nuove. Vorrei essere appassionato e audace, senza essere esagerato e anzi rimanendo semplice. Vorrei arrivare alla totale libertà in arte: libertà che, così come nella vita, consiste nella verità.” (La pittura è il mio mestiere, Risposta all’Inchiesta di T. Sauvage 1957 “Galleria” n. 1-5/1971, 201).
*I testi sono stati tratti dal libro di Crispino VALENZANO “Guttuso…Credeva di non credere…, Libreria editrice vaticana, 2013
In copertina : Renato Guttuso fotografato mentre dipinge Fuga In Egitto
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