Ogni tanto dovremmo interrogarci sull’origine dei nostri stereotipi e magari potremmo scoprire che a volte basta davvero poco per far nascere una tradizione. Ho provato a fare un’indagine veloce sul tema pittorico dell’incontro di Maria Maddalena col Cristo Risorto, un soggetto che ha conosciuto una certa fortuna nelle arti figurative.
Giotto, Cappella degli Scrovegni, Noli me Tangere
Come prevedevo, la quasi totalità degli artisti mette una certa distanza tra Gesù e la donna. A volte la luce tra le due figure è notevole (come nel caso di Giotto), a volte la mano di Maria è più audace e arriva quasi a sfiorarlo (Tiziano). La negazione del tocco risponde bene al tema come fu diffuso nel suo titolo latino: noli me tangere, non mi toccare.
Tiziano, Noli me Tangere, , 1511 – National Gallery, Londra
Ma il punto sta proprio qui, nella traduzione che Gerolamo ha effettuato dal testo greco e che in questo caso non è particolarmente felice. Il testo greco di Gv 20,17 dice me aptou, composto da una negazione (me) e dal verbo aptomai (toccare). Ma ciò che Gerolamo non ha considerato è che l’imperativo presente indica di solito un’azione continuata, non puntuale. Perciò in questo caso Gesù non intende proibire a Maria di toccarlo, ma le comanda di smettere di toccarlo. Per questo la traduzione della CEI (“non mi trattenere”) è sostanzialmente corretta, interpretando il senso dell’ordine di Gesù.
Il contesto, poi, va chiaramente in questa direzione: il fatto che Gesù non sia ancora salito al Padre pare più consono al rifiuto di essere trattenuto che non semplicemente toccato. Ma vorrei aggiungere che qui abbiamo a che fare con una questione che ha anche risvolti teologici. Il divieto del tocco si orienta verso la sottolineatura della trascendenza di Gesù, quasi che nei confronti del corpo risorto siano vietati quei gesti che prima erano concessi. Ammettere, invece, che Maria avesse abbracciato Gesù e che solo il prolungarsi di queste effusioni sia stato giudicato un impedimento da rimuovere è in linea con la difesa di una risurrezione di Gesù col suo vero corpo, ribadita ad esempio dalla scena in cui Gesù chiede di avere del pesce da mangiare per confermare che possiede un corpo reale e non si tratta di un fantasma (Lc 24,41). Gli evangelisti furono sostenitori di una risurrezione reale, non spirituale, perciò anche questi dettagli possono avere la loro importanza.
Bernardette Lopez, “ Avete qui qualche cosa da mangiare“?
Fra le innumerevoli Passioni che riproducono, con maggiore o minor fedeltà, e con un numero più o meno grande di interpolazioni, la narrazione evangelica della Passione di Cristo, quella posta in musica da Nicolò Jommelli merita una citazione per la grande potenza drammatica della scrittura.
Proveniente dalla grande scuola operistica napoletana, che si affermò in tutta Europa nel Settecento grazie alla vivacità dei suoi caratteri ed alla brillantezza delle situazioni, Jommelli seppe tradurre la sua maestria di compositore in un linguaggio potente e vigoroso al servizio del racconto della Passione di Cristo. La sua versione è piena di colore, di immedesimazione; gli “affetti” evocati dalla musica hanno l’obiettivo di muovere il cuore degli ascoltatori, di portarli a chiedere pietà e compassione, di suscitare in loro la devozione e la contrizione. A volte, a questo fine, il linguaggio del libretto e della musica divengono fin troppo evocativi per gli ascoltatori odierni; tuttavia, è innegabile la grande forza emotiva di questa straordinaria composizione.
Bellissimo, in particolare, l’immaginario duetto GIA’ CHE MI TREMI IN SENO (il cui testo è disponibile qui) fra Pietro e Maddalena, entrambi sconvolti dalla presa di coscienza del proprio errore e del proprio peccato, la cui redenzione è plasticamente raffigurata nella sofferenza salvifica di Cristo. Entrambi sono personaggi profondamente innamorati di Gesù e quasi annichiliti dal male commesso; tale realizzazione, tuttavia, non provoca una sterile disperazione, bensì un amore ancora più profondo, rinnovato e purificato, che a sua volta si riverbera sull’ascoltatore, condotto a meditare sul proprio peccato e ad associarsi alla loro richiesta di perdono. L’unione della voce maschile e di quella femminile sembrano perciò rappresentare un equivalente più moderno della coppia dei progenitori, Adamo ed Eva, e porsi come simbolo dell’intera umanità, decaduta e redenta.
Nicolò Jommelli , Vi sento o Dio Vi sento, da “La Passione del Nostro Signor Gesù Cristo”
Di fronte a un capolavoro ciascuno di noi sosta in contemplazione, un critico profonde in dettagliate spiegazioni, un poeta si lascia toccare e poi talvolta traduce quelle impressioni in versi. È quello che ha fatto Margherita Guidacci che al polittico di Grünewald ha dedicato un testo intensissimo.
A questo crocevia di tenebre
Davanti a noi sorgi tremendo,
albero secco, stadera
che reggi il gran corpo inerte.
Lo sfondo buio della tela diventa “crocevia di tenebre”. La croce è invece descritta nelle tradizionali immagini di albero e bilancia. Il “corpo inerte” sembra ritrarre i corpi dei malati dell’ospedale vicino al monastero degli Antoniti a Isenheim, per i quali il pittore aveva realizzato l’opera.
Un nudo legno trasversale
Taglia lo spazio
E un nudo legno verticale
Svetta oltre il tempo:
assi cartesiane
della vita e della morte,
intorno a cui si schiude
ora il nero quadrifoglio.
I legni della croce compongono gli “assi cartesiani” entro i quali si muove l’uomo: l’asse trasversale attraversa lo spazio, quello verticale va oltre il tempo – ovvero la vita e la morte, ora racchiuse nel mistero del Dio-uomo.
Nei lobi in alto, il vuoto e il terrore
Come al grido “Mio Dio
Perché mi hai abbandonato?”.
In basso, fatto roccia in tre figure,
tutto il dolore umano.
“In alto” le mani di Cristo, nell’irrigidimento causato dal dolore, richiamano “il vuoto e il terrore” che quella morte spalanca – il “crocevia di tenebre” appunto, che il grido a Dio sulla croce rafforza. Le “tre figure” in basso allora partecipano a quel dolore: Maddalena supplicante, Maria dall’anima trafitta come profetizzato da Simeone (Lc 2,35), Giovanni che accompagna quel dolore cingendo la madre.
Ma ecco avanza l’Agnello vittorioso
Verso la sua piagata controparte.
E un profeta ci addita, perentorio,
salvezza nella metafora!
Infine Giovanni Battista e l’Agnello immolato e vittorioso. Immolato perché dal petto sgorga il sangue che si raccoglie nella coppa, e vittorioso perché quella morte l’ha già vinta. Il Battista indica Cristo, come vuole la tradizione che lo ha perlopiù ritratto richiamando il versetto di Gv 1,29 – sebbene qui la scritta in rossa riporti invece i versetti di Gv 3,30: “Egli deve crescere e io invece diminuire”.
Alla crocifissione di Isenheim, Paul Hindemith ha dedicato MathisderMaler(1934):
https://www.youtube.com/watch?v=TsyOuyNh6oQ
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“Polittico di Grünewald” : polittico di Sant’Antonio di Issenheim , dipinto, eseguito tra il 1512-1516, ad olio su tavola, dal pittore tedesco Mathis Neithardt Gothart detto Matthias Grünewald (1480 ca. – 1528), proveniente dal Monastero di Sant’Antonio Abate sotto il Monte di Issenheim , ora conservato nel Musée d’Unterlinden di Colmar, Francia.
In occasione della visita di papa Francesco nei ” luoghi di” don Tonino Bello per l’anniversario numero venticinque della sua morte, ricordiamo questo profeta di speranza, come è stato definito, nella sua veste di scrittore: anzi, di riscrittore.
Don Tonino , in tutta la sua abbondante produzione letteraria, ha frequentemente riletto – e talvolta ” riscritto” – figure, pagine e temi della storia sacra, nel tentativo appassionato – secondo la sua indole e il suo stile – di attualizzarle . Farcele scoprire in modo nuovo, farne risuonare armonie inattese, rendercele sorprendentemente vicine e nostre. Non tutti, va da sé, lo hanno apprezzato in questo: qualcuno ci ha visto anche un certo compiacimento e una qualche forzatura. Sta di fatto che la riscrittura di don Tonino è perfettamente omogenea e coerente con tutto il suo modo di vivere e proporre il cristianesimo: incarnato nella dimensione quotidiana , per forza di cose tuffato nella concretezza delle nostre storie. Attualizzato perché sempre, continuamente, attuale: trattandosi di fede viva, cioè di vita vera.
Come ha ricordato efficacemente un’amica qualche giorno fa: se non attualizziamo, mettiamo in formalina.
Buona lettura.
“Dimmi, Giuseppe, quand’è che hai conosciuto Maria? Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio con l’anfora sul capo e con la mano sul fianco, snello come lo stelo di un fiordaliso? O forse un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazaret conversava in disparte, sotto l’arco della sinagoga? O forse un meriggio d’estate, in un campo di grano, mentre abbassando gli occhi splendidi, per non rivelare il pudore della povertà, si adattava all’umiliante mestiere di spigolatrice? Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il capo con la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e tu non lo sapevi; e poi tu la notte hai intriso il cuscino con lacrime di felicità? Ti scriveva lettere d’amore? Forse sì; e il sorriso con cui accompagni il cenno degli occhi verso l’armadio delle tinte e delle vernici mi fa capire che in uno di quei barattoli vuoti, che ormai non si aprono più, ne conservi ancora qualcuna.
Poi una notte hai preso il coraggio a due mani, sei andato sotto la sua finestra, profumata di basilico e di menta e le hai cantato sommessamente le strofe del Cantico dei Cantici: «Alzati amica mia, mia bella e vieni! Perché ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata. I fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato, e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati amica mia, mia bella e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave e il tuo viso è leggiadro» (Ct 2,10-14). E la tua amica, la tua bella, la tua colomba si è alzata davvero. È venuta sulla strada, facendoti trasalire. Ti ha preso la mano nella sua e mentre il cuore ti scoppiava nel petto, ti ha confidato lì, sotto le stelle, un grande segreto. Solo tu, il sognatore, potevi capirla. Ti ha parlato di Jahvè. Di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande dell’universo e più alto del firmamento che vi sovrastava. Poi ti ha chiesto di uscire dalla sua vita, di dirle addio e di dimenticarla per sempre.
Fu allora che la stringesti per la prima volta al cuore e le dicesti tremando: «Per me, rinuncio volentieri ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria. Purché mi faccia stare con te». Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente. […] Io penso che hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto sull’onnipotenza del Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura. Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speranza. La carità ha fatto il resto, in te e in lei. “
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Tratto da : Lettera a San Giuseppe in “Il vangelo del coraggio. Riflessioni sull’impegno cristiano nel servizio sociale e nella politica” di Antonio Bello, San Paolo Edizioni.
“Ed eccoci qua, infine. Così si compie tutto” (G. Culicchia, Padre mio, perché mi hai abbandonato?,p. 23)
Un incipit dai toni biblici apre l’ultimo racconto del progetto “Scrittori di Scrittura” – per quella congiunzione iniziale, che segnala il collegamento con quanto precede e per quell’intenzione di compimento che più di tutto richiama le ultime parole di Gesù sulla croce nella versione dell’evangelista Giovanni.
Velasquez, Cristo crucificado
Un altro vangelo allora, che sembra idealmente voler continuare una storia precedente rimasta fuori dalla pagina scritta. E dunque da cercare altrove – nelle letture personali di ciascuno, che ogni volta il lettore è chiamato a comporre. Anche nelle riscritture.
“Sono un soldato, io. Non un boia. Marte mi è testimone”: un vangelo secondo il centurione romano, che sotto la croce riconosce in quell’uomo la figliolanza divina (nella versione di Marco e Matteo, mentre in Luca si limita a riconoscerne la giustizia). Usare come centro di focalizzazione un personaggio minore è sempre una tecnica narrativa interessante – non solo perché sposta il punto di vista tradizionale a cui si è abituati, ma anche perché offre tridimensionalità a un personaggio piatto, di quelli che esistono sulla scena per una sola battuta o un unico gesto. Il campo di manovra del riscrittore è in questo caso ben più ampio: se di lui si sa poco, gli si può offrire la caratterizzazione più adatta alle proprie intenzioni.
Il centurione emerge qui in primo piano, sebbene non esca dall’anonimato. Di sé ci offre brevi squarci di un passato familiare e ricordi più e meno lontani delle tante violenze subite e perpetrate sui fronti militari. “Ma questa è una cosa diversa. Questa cosa mi ripugna” (26): se proprio deve pronunciare quella fatidica frase al momento della morte, a questa bisogna preparare il terreno, perché è indubbio che l’ellitticità dei vangeli la fa risultare un po’ enigmatica – solo appena più giustificabile nella versione di Matteo.
Il centurione romano osserva e racconta quanto ci è già noto dai testi canonici, componendo una sorta di diatessaron[1] della passione. La narrazione mette cioè insieme le versioni dei quattro vangeli come fossero un unico racconto. Niente di strano d’altronde, specie nel mondo delle riscritture – a partire dalla composizione delle sette parole di Cristo sulla croce nella versione musicale di Joseph Haydn, Septem verba Christi in Cruce ( puoi ascoltarle qui – https://www.youtube.com/watch?v=ecNmELbr9x4&feature=youtu.be– ) a sua volta già spunto di meditazione per il tempo di quaresima, in cui appunto si riuniscono le frasi che i quattro vangeli riportano in un continuum esegeticamente indistinto.
La versione di Culicchia ci invita a guardare all’uomo in croce da una nuova prospettiva – il che aiuta sempre a non cadere nell’assuefazione del già noto. E tuttavia il racconto non è soltanto inquadrato da una diversa angolatura, in quanto questo sguardo ci rivela qualche novità e un colpo di scena finale. Un fuori testo dunque, ma non esente di una sua plausibilità interna.Il centurione dà da bere al crocifisso e da lui si sente guardato – a dispetto del buio pesto calato all’improvviso sul Golgota. Quella pietà per i crocifissori, che percepisce nello sguardo di Gesù, a dispetto della sofferenza inaudita che sta patendo, lo tocca dentro. E per la prima volta nella sua vita, trasgredisce agli ordini.
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[1]Il Diatessaron è stato il primo tentativo della storia del cristianesimo, con cui si siano armonizzate in un’unica narrazione le versioni dei quattro vangeli. Composto verso il 170 da Taziano il Siro, ha inoltre incluso fonti esterne ai vangeli canonici. Il testo ha goduto di grande popolarità e per due secoli è stato il vangelo delle chiese di lingua siriaca. La sua esistenza ricorda come molto presto la diversità delle versioni sia stata percepita come problematica.
Il tema del sacrificio di Isacco è stato forse trattato altrettanto frequentemente dai musicisti quanto dagli artisti figurativi: si tratta di uno dei momenti più struggenti, sconvolgenti, ma anche potentemente drammatici e di grande impatto quasi scenico sugli osservatori e sugli ascoltatori.
Il poeta italiano Pietro Metastasio, forse il più grande autore di poesia per musica nella storia, scrisse un “libretto” dal significativo titolo Isacco, figura del Redentore, che evidenzia una lettura tipologica dell’Antico Testamento in cui il sacrificio di Isacco diventa prefigurazione della croce di Cristo.
Caravaggio, “Sacrificio di Isacco” , Princeton ( circa 1603)
Fra i tanti compositori che rivestirono di musica il testo di Metastasio, Nicola Conti – vissuto a cavallo tra Seicento e Settecento – non è uno dei più noti; tuttavia, il recitativo ed aria che abbiamo selezionato dalla sua versione dell’Oratorio sono di grande lirismo ed intensità espressiva.
Al punto dell’oratorio in cui si colloca questo brano, Abramo sta cercando di consolare una Sara distrutta dal dolore ed angosciata al pensiero della sorte che attende il figlio. Il testo di Metastasio è emozionante e profondo al tempo stesso (chi lo volesse seguire integralmente lo troverà qui
“Datti pace, e più serena / A ubbidir l’alma prepara; / Che d’ogni altra a Dio più cara / Questa vittima sarà”.
Senza negare o minimizzare la sofferenza della moglie, Abramo la guida – anche nel recitativo precedente – a fidarsi di Dio e della sua grazia.
La musica di Conti, con le sue frasi spiegate e rassicuranti al tempo stesso, ci restituisce un Abramo sposo premuroso e padre affettuoso, animato da una fede tanto forte da renderlo sereno persino davanti ad una manifestazione della volontà di Dio apparentemente inspiegabile e dolorosa. Nella fede, suggerisce la musica, Abramo presagisce con il suo canto che la bontà di Dio non può volere la morte né può abbandonare il credente.
L’inizio del film sembra un déjà vu: una donna sprofonda in acque oscure in una visione che per intensità ricorda alcune sequenze del film premio Oscar 2018 LA FORMA DELL’ACQUA. Ovviamente una pura coincidenza così come il pensiero che il film sulla figura di Maria Maddalena (la donna tra le acque) abbia l’intento di accompagnare il movimento di liberazione femminile attivo internazionalmente in questi mesi (non si scordi che un film si realizza almeno un anno prima della sua uscita nei cinema). Inoltre il tema della Maddalena bandiera per nuovi costumi è probabilmente una delle poche pecche del film in quanto risulta trattato in modo troppo convenzionale e scontato per la sua programmaticità (esemplare una scena finale di donne rapite e pronte a seguire sognanti la loro eroina).
Il film convince molto di più nell’esaltazione di Maddalena come mediatrice tra Gesù e gli apostoli, testimone migliore della rivoluzione non violenta per un regno tutto ultraterreno. Originale appare il ritratto di Giuda traditore non per vil denaro come un personaggio da opera lirica che trama nell’ombra ma che agisce per debolezza e ingenuità nella sua cattiva interpretazione del messaggio di Gesù e del regno promesso.
Ai ritratti individuali la regia di Garth Davis affianca un’attenzione alla natura splendido contrappunto ai disagi esistenziali degli apostoli agitati davanti alle acque burrascose di Tiberiade, in missione tra campi e sentieri desolati e confusi in grotte montane simili a prigioni.
Molto intenso il Gesù di Joaquin Phoenix, lontano da ogni sentimentalismo di tanti film biblici e dai tormenti del Dafoe scorsesiano nella sua evoluzione di un rapporto spirituale con Maddalena (Rooney Mara) che la porterà alla piena consapevolezza per risalire alla fine rinata dalle acque profonde di Tiberiade.
Ci avviciniamo alla Settimana Santa, unico momento dell’anno liturgico in cui i Vangeli danno spazio a Giuda, uno dei Dodici, ma anche l’emblema del tradimento operato verso Gesù. Le riscritture possono offrirci interessanti spunti di meditazione su quest’uomo che incarna la difficoltà di scelta tra il bene e il male, opzione dialogica tutt’altro che netta.
Secondo lo scrittore Andrea Tarabbia è stata la letteratura moderna a salvare Giuda: la sua discussa figura avrebbe infatti suscitato la curiosità di molti autori contemporanei e li avrebbe spinti a tentate di colmare il vuoto lasciato dalle redazioni evangeliche che risultano essere scarne e spesso contraddittorie quando prendono in esame il traditore per eccellenza. Una delle opere più interessanti è La Gloria, di Giuseppe Berto.
Il romanzo può essere letto come una grandiosa arringa difensiva dell’Iscariota e, al tempo stesso, come il racconto di un amore non corrisposto. L’opera ripercorre tutto il percorso di vita del Nazareno, rinarrandolo attraverso la voce di Giuda che, a fatti ormai compiuti, tenta di spiegare in primo luogo a se stesso, e poi al lettore, quale complessità e profondità abbia raggiunto il suo rapporto con Gesù e quanto egli lo abbia amato.
La gloria a cui il titolo allude è il tema sotteso a tutta la narrazione. Il giovane Giuda è alla ricerca della gloria di Dio e della propria gloria; percorre la terra d’Israele in attesa di un segno che possa rivelargli la missione a cui è destinato, perché si sente un prescelto, un re perché appartenente alla stirpe di Davide. Ma è al contempo tormentato dai dubbi e dalle domande, non riesce a comprendere quale sia il disegno dell’Eterno in un’epoca di sottomissione e violenza politica e ipocrisia religiosa: “M’interrogavo, interrogando l’Eterno, e l’Eterno tacendo, dovevo concedere ch’io trovassi una sorta di gloria in tutto il mio penare, forse perversa. Orgogliose privazioni, ardite preghiere, nutrivano sconfinate ambizioni. Ero forte e coraggioso al pari di un re: non dovevo perdermi”.
Giuda non è un uomo pieno di sé, non cerca la gloria per apparire davanti agli altri ma la desidera piuttosto per compiere la missione a cui Dio lo ha destinato e, dopo l’incontro con Gesù al Giordano, il dover constatare di aver peccato per vanagloria, credendo di poter essere lui l’Unto del Signore, lo rattrista profondamente. Potrebbe provare odio e invidia per quell’uomo della sua stessa età, senza alcunché che lo renda differente e che pure è segnato da qualcosa di straordinario ed invece, paradossalmente, se ne innamora e lo segue, pensando, a quel punto, che accanto a lui sia forse possibile trovare quella gloria che tanto brama per sé: Allora, era tanto ignobile fantasticare d’un posto accanto a te sul trono della gloria? Dovevo forse immaginare che spettasse a Giovanni? O a Pietro? Chi tra noi si era dato più profondamente?
L’elemento più innovativo e toccante del romanzo risulta essere il sentimento d’amore che l’Iscariota nutre verso Gesù e che lo lega al maestro in maniera unica, rendendolo oggetto di invidia da parte degli altri discepoli pur facendolo sentire al contempo sempre in parte rifiutato.
Ero stato accolto, dunque, per quanto non lietamente. Riprese a camminare, e io al suo fianco, con rabbia, esultanza e ancora impazienza; perché le vie del Signore dovevano essere tanto tortuose? Perché questo rabbi tanto chiuso e distante? « Seguimi un po’ discosto» mi disse, senza nemmeno guardarmi. «Amo pensare camminando.» M’aveva sottomesso.
The Passion, Mel Gibson ( Jim Cazeviel e Luca Lionello)
Come un innamorato tenuto in sospeso Giuda accoglie le concessioni del maestro con doloroso entusiasmo, ne è conquistato e ammaliato al punto da non poterne fare a meno, anche se si rende perfettamente conto di non essere trattato alla stregua degli altri discepoli, che Gesù chiama espressamente e guarda negli occhi. Eppure c’è qualcosa di unico e speciale nel legame che li unisce, c’è un patto di dono totale tra loro e quando sarà il momento, Giuda sarà pronto a donare la vita per quell’enigmatico rabbi; così, se pur con dolore, accetta di sentirsi diverso dal gruppo, in disparte, trascurato da Gesù, ricordato solo nel momento in cui il maestro fa riferimento al patto di dono totale che li unirà nella morte. Ricorda con rimpianto i momenti in cui era l’unico seguace del Nazareno, il primo tra gli apostoli, e non doveva dividerne le attenzioni con nessuno, in particolare con Giovanni, che odia sempre di più. Perché se è di un innamoramento che stiamo parlando, nulla può ferire di più che vedere l’oggetto del tuo sentimento tra le braccia di qualcun altro, e al giovane Giovanni era concesso questo atto di tenerezza: “Lo odiavo sempre di più Giovanni, come lui odiava me, tuttavia entrambi eravamo consapevoli che quando si odia non si odia uno qualsiasi, e che l’odio è un torbido miscuglio del quale fa parte anche l’amore. Era lui, il Rabbi, che in qualche modo ci teneva insieme”. E’ proprio quest’odio reciproco, secondo l’Iscariota, a motivare le accuse che l’evangelista scriverà contro lui nel suo Vangelo.
Ma qualcosa nel piano di Gesù non funziona, constata amaramente Berto per bocca di Giuda, il male non è sconfitto, il dubbio non è svelato, il dolore e l’ingiustizia non sono definitivamente placati:
Io sono la tenebra, Gesù. Ma a Te, che sei la luce, dagli abissi della mia oscurità continuo a chiedere: nella storia della tua morte, che sarebbe dovuta essere gloria e vittoria sulla morte, io, Giuda, da Te segnato come figlio di perdizione, sono stato semplicemente strumento affinché si adempisse una scrittura, cioè fosse la misteriosa volontà dell’Eterno? O piuttosto: c’era qualcosa che ci accomunava, qualcosa che visto come sono andate le cose, non s’è adempiuto, se non nella conclusione minore che siamo morti tutti e due quasi insieme? Forse, rabbi, a mete più modeste era destinata la nostra grandezza. ma una volta deciso che il punto d’arrivo doveva essere la gloria, non fui io a mancare.
Jesus Christ Superstar, Norman Jewison, ( Carl Anderson)
La gloria tanto attesa non viene, infine, raggiunta, il male continua ad affliggere il mondo, Giuda permane nella propria dannazione e ipotizza che il maestro abbia puntato ad un obbiettivo troppo alto da raggiungere, mettendo in dubbio ancora una volta la divinità dell’uomo amato al punto da voler condividere con lui anche l’intimità della morte. E’ un messia fallimentare quello narrato da Berto, incapace di portare a compimento quanto annunciato:
La mia dedizione era stata fin dal principio senza limiti: se Tu davi la Tua vita per gli altri, perché non avrei dovuto io dare per Te la vita mia, o qualsiasi altra cosa mi fosse stata richiesta? Avevi preteso tutto, e tutto Ti era stato dato, ma poi, al momento di raggiungere lo scopo, sembravi non saper che farne.
L’opera di Berto, pubblicata pochi mesi prima della sua morte, sembra essere una sintesi degli interrogativi che ne hanno afflitto la vita: è possibile essere riscattati da una scelta politica risultata fallimentare? C’è spazio di riabilitazione anche per i vinti? Giuda è specchio di ogni uomo che vive al limite le proprie passioni, accettando per questo di essere messo ai margini, di essere considerato falso e traditore, disposto ad ogni sofferenza pur di non cedere all’incoerenza. L’Iscariota è dunque riabilitato all’interno di una storia in cui, al contrario, tutti gli altri sono condannati; la morte non è più dovuta alla disperazione, ma alla conquista della pace. Si assiste in questo scritto all’estrema vittoria del vinto per eccellenza, in una rilettura che colmando gli spazi bianchi lasciati dalla narrazione evangelica fa acquisire un nuovo significato all’intera vicenda del Nazareno, privandolo delle caratteristiche divine, evidenziandone le fragilità ma anche il grande carisma, e riabilitando l’Iscariota.
Giorgio Vasari, Giuda,1542
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.In copertina: Caravaggio, Cattura di Cristo ,1602 ( particolare)
L’ingresso trionfale a Gerusalemme è uno degli avvenimenti chiave della vita di Gesù. Ecco il Messia in mezzo al suo popolo, l’inviato da Dio in mezzo agli uomini, e dappertutto si leva l’acclamazione gioiosa.
Questo racconto è narrato da tutti gli evangelisti, ma si differenzia per alcuni particolari che hanno riscontro nelle interpretazioni date dagli artisti. La versione di Matteo parla di due giumenti, un’asina e un puledro (su cui nessuno è ancora salito), mentre Marco, (11,1-10), Luca (19,29-40) e Giovanni (12,12-15) parlano di un solo piccolo asino. Nei dipinti dobbiamo quindi porre l’attenzione sulla cavalcatura di Gesù, come lui siede -se a cavalcioni o su un fianco,come su un trono- sul numero di animali, sulle persone che tagliano i rami che per Matteo (21,8) sono di alberi; mentre per Giovanni (12,13) sono di palme (la grande folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui). Sono da osservare anche le azioni delle persone presenti alla scena poiché ”molti stendevano i propri mantelli sulla strada” e l’orientamento del percorso della folla, se avanza da sinistra a destra o al contrario.
Nell’affresco di Gaudenzio Ferrari, nel ciclo della passione, firmata alla sua conclusione nel 1513 sulla parete-tramezzo della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Varallo (Vercelli), l’artista risolve la questione di Gesù che deve cavalcare due animali contemporaneamente inserendo altre quattro zampe all’animale in primo piano[1].
Gaudenzio Ferrari (1513)- Chiesa di Santa Maria delle Grazie – Varallo, VC
Diversamente Giovanni Canavesio, nel santuario di Notre Dame des Fontaines a La Brigue nel 1492, raffigura l’asino e il puledro distintamente.Chi è fedele alla descrizione fatta dagli altri evangelisti è Martino Spanzotti, che nella parete tramezzo in San Bernardino di Ivrea del 1457, nella scena dipinge solamente un asino.
Martino Spanzotti, (1457) – San Bernardino – Ivrea, TO
Gaudenzio Ferrari, Giovanni Canavesio e Martino Spanzotti accentuano l’aspetto riportato da Matteo, mentre nessuno di essi raffigura le palme. Curiosa la stessa scena dipinta da Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova tra il 1303 e 1305 dove inserisce l’azione dubbia di un personaggio che può sembrare che stia per spogliarsi del mantello per stenderlo sulla strada per il passaggio di Gesù, oppure che nasconda la testa proprio sotto di esso all’arrivo di Gesù.
Giotto (tra il 1303 e 1305 )- Cappella degli Scrovegni – Padova
Un esempio del rinnovamento dei contenuti religiosi lo vediamo in un’interpretazione moderna (1920) della medesima scena, del tutto soggettiva e apparentemente senza riscontro nel Vangelo: quella di Stanley Spenser, artista britannico, che ha dipinto un quadro – ora esposto al Leeds Museums & Galleries – che non rientra tra le scene del racconto della Passione di Gesú, ma ne attualizza il contenuto e descrive la reazione degli abitanti della città. Qui la scena è ambientata tra le case di un quartiere, Gesù avanza in groppa all’asino e la folla agitata si allontana come spaventata perché non sa chi sia; infatti il versetto 10 di Matteo al capitolo 21 racconta “mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva – chi é costui? – e nel versetto 11 – questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea -; in questo modo l’artista sembra ribaltare anche a noi questa domanda: vogliamo riconoscere Cristo il figlio di Dio? E davvero da Lui che dipende la salvezza di tutto il mondo?
Stanley Spenser (1920) – Leeds Museums & Galleries –
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[1] dal 24 marzo 2018 si potrà ammirare da vicino la parete gaudenziana utilizzando il ponteggio, in occasione delle mostre sul Rinascimento di Gaudenzio Ferrari fino al 16 settembre 2018
Sequel di Blade Runner diretto da Ridley Scott nel 1982, Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve è uscito nelle sale cinematografiche italiane il 5 ottobre 2017. Entrambe le pellicole appartengono al genere fantascientifico e se il primo episodio è liberamente ispirato al romanzo del 1968 Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick, il secondo prende in prestito dal libro solo più i personaggi. Alla stessa maniera, se il primo episodio non sembra avere alcun riferimento a eventi o personaggi della Sacra Scrittura, è nel sequel che una battuta in particolare (quella di Niander Wallace, direttore della Wallace Industries) rivela il filo rosso che unisce il personaggio di Rachel a Rachele, la moglie di Giacobbe.
Nel primo episodio (diffuso in Italia nel 1982) in una Los Angeles post nucleare, gli esseri umani popolano la città insieme agli androidi, in tutto uguali agli uomini a parte la diversa percezione delle emozioni e la maggiore forza fisica, oltre alla ridotta longevità (quattro anni). I replicanti vengono utilizzati come forza lavoro nell’extra mondo, pianeti colonizzati a causa dell’invivibilità della Terra. Quest’ultima è avvolta costantemente da una coltre fumosa e funestata da continue piogge radioattive, le quali hanno gradualmente causato l’estinzione di ogni forma di vita animale e vegetale. La storia ruota intorno a sei replicanti che fuggono dalla colonia per introdursi nella Tyrell Corporation (l’azienda che li ha prodotti) nella speranza di riuscire a ottenere una vita più lunga. Verranno così trovati e “ritirati” dall’agente dell’unità speciale “Blade Runner” Rick Deckard, interpretato da un giovane Harrison Ford. Nel finale lo struggente monologo di Roy Betty (il capo dei fuggiaschi) che sotto una pioggia battente esala il suo ultimo respiro (Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…
Se Blade Runner si conclude con un inno alla vita, in Blade Runner 2049 la vita trionfa. Infatti Rachel, l’unica replicante che Deckard nel primo episodio non “ritira” (in quanto i due si innamorano) nel sequel si scopre aver dato alla luce un figlio. La straordinarietà dell’evento è riconducibile al fatto che gli androidi non potevano riprodursi . Rachel, anche se non era sopravvissuta al parto, aveva comunque superato l’ultima inviolabile barriera che li separava dagli esseri umani. Ciò che era impossibile assume ora i toni del prodigio: “non avete mai visto un miracolo” dice Sapper Morton (il medico replicante che si era occupato di lei) poco prima di essere “ritirato” dall’agente K, il “Blade Runner” incaricato di eliminare i restanti modelli ribelli Nexus 8, ormai obsoleti e superati (in termini di prestazioni e longevità) dai più recenti di nuova generazione.
“Dio si ricordò anche di Rachele; Dio la esaudì e la rese feconda”. Niander Wallace, direttore dell’azienda produttrice dei nuovi replicanti, usa le stesse parole di Genesi 30,22 dinanzi a Deckard suo prigioniero. Una citazione biblica esplicita: sterile come la moglie di Giacobbe, Rachel partorisce e come Rachele muore dando alla luce suo figlio. Non sappiamo se gli sceneggiatori (HamptonFancher e Michael Green) siano credenti, quel che è certo è che non ci saranno altri riferimenti alle Sacre Scritture. Tuttavia è su questa assonanza che verte l’intera storia del lungometraggio e le implicazioni sono evidenti, a partire dal legame inscindibile fra la vita e la morte. In Genesi Rachele morendo chiama suo figlio Ben-‘onî che in ebraico vuol dire “figlio della mia doglia”: si tratta di un grido disperato dettato dal dolore, ma anche e soprattutto di un richiamo alla speranza, poiché dalla sofferenza e dalla morte nasce la vita, il dono più prezioso che Dio ha concesso agli esseri umani. Umani appunto, capaci di provare emozioni, empatia, sentimenti, creati per la relazione e per rinnovare all’infinito quel dono della creazione che tecnicamente appartiene solo a Dio. È questo il miracolo di Rachel. A un mondo al culmine del suo abbrutimento ha consegnato, con la sua morte, il dono della speranza. Attesa che si concretizza nella nascita del movimento ribelle (guidato dalla replicante Freyda) in lotta per l’uguaglianza fra umani e replicanti che chiedono a gran voce il diritto alla vita, negato dagli uomini in forza della loro “presunta” superiorità.
“Così Rachele morì e fu sepolta lungo la strada verso Efrata, cioè Betlemme. Giacobbe eresse sulla sua tomba una stele. Questa stele della tomba di Rachele esiste fino ad oggi.”(Gn 35,19-20).
Ed è così, quasi a voler dire al pellegrino o viandante la giustezza, lo scopo, la scìa di imprescindibile speranza che si è portata dietro. Ed è così anche per Sapper Morton il quale aveva custodito le spoglie mortali di Rachel sotto ciò che rimaneva dell’ultimo albero sopravvissuto alla decadenza del genere umano, a perenne memoria di un miracolo il cui senso trasuda in ogni battito di ciak.
Giacobbe ha accolto il messaggio di Rachele trasformando il nome del figlio in Beniamino (“figlio della fortuna” in ebraico) e Geremia coglierà il senso profondo della vicenda facendo diventare la matriarca il simbolo degli ebrei oppressi (31,15). In Blade Runner 2049 ritroviamo tutto: forza e fermezza, temerarietà e eroismo, tenerezza e amore incondizionato, dignità e vita, lotta e speranza. Perché questa è la Bibbia. Superando la barriera del tempo unisce il passato, il presente e… il futuro. Sia nella finzione che nella realtà.
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