Prima ero cieco e ora ci vedo: «Io credo, Signore!»

Scritto da NORMA ALESSIO.

 

La guarigione di uno o più ciechi operata da Gesù è uno dei miracoli più popolari e diffusi nella storia dell’arte. Nei Vangeli le guarigioni sono raccontate da Marco: il cieco di Betsaida (8,22-26) e il mendicante Bartimeo di Gerico (10,46.52); da Luca: il cieco di Gerico (18,35-43); da Matteo: le versione dei due ciechi (9,27-31 e 20,29-34) e da Giovanni: il cieco dalla nascita (9,1-41). Quest’ultimo episodio, piuttosto complesso, rientra nella liturgia della quarta domenica di Quaresima di quest’anno. Occupa l’intero nono capitolo del vangelo di Giovanni e si sviluppa in otto scene che si concatenano l’una l’altra e si richiamano a vicenda. Giovanni passa in rassegna i vari atteggiamenti che gli uomini possono assumere di fronte a Gesù. Vi è colui che sa di essere cieco e aspira alla guarigione; vi sono coloro che si disinteressano della guarigione perché non vogliono storie; vi sono altri che credono di poter giudicare il mendicante guarito. Le varie opere d’arte che rappresentano la guarigione dei ciechi potrebbero riguardare lo stesso racconto, poiché hanno tutte il cieco o i ciechi e – naturalmente – Gesù, ma l’elemento importante che differenzia i brani dei sinottici da quello di Giovanni è la presenza o meno della vasca; tuttavia anche questo non è frequente nelle rappresentazioni, perchè si concentrano sull’azione centrale di Gesù raccontata nei versetti 6 e 7 “detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: Va’ a lavarti nella piscina di Siloe”. L’evento è sintetizzato nelle due scene: l’intervento di Gesù sugli occhi del cieco e il lavaggio con acqua nella vasca.

Qui sopra vediamo uno degli esempi in cui è presente la vasca: è l’affresco dell’XI secolo nell’Abbazia di Sant’Angelo in Formis a Capua, dove Gesù, accompagnato da Giovanni con la tunica rossa e Pietro con la stola bianca, alza la destra toccando con fango gli occhi del cieco dalla nascita, mentre sul lato destro dell’affresco vediamo il cieco, che giunge ancora con gli occhi coperti di fango, per lavarsi con l’acqua della piscina di Siloe, simbolo del Battesimo. Gesù reca nella mano sinistra il rotolo, chiuso, della Nuova Legge, che rimanda a un’antica tradizione iconografica come nelle rappresentazioni della creazione, in cui Dio plasma l’uomo dalla terra.

 

In entrambe le versioni di mosaici realizzati nel 2012 da padre Marko Ivan Rupnik, sloveno, artista e teologo gesuita. nell’atrio del Centro San Benedetto Menni dell’Ospedale dell’Isola Tiberina a Roma e nel 2013 nel Santuario di San Giovanni Paolo II a Cracovia, il cieco tiene nelle sue mani il fango che Gesù ha preparato, lo offre a Cristo a significare una sua attiva partecipazione all’intervento di Cristo, riconoscendosi una creatura bisognosa dell’intervento divino e accogliendo l’invito a lasciarsi guarire. Gesù ha anche qui in mano il rotolo, ma aperto, vuoto. Il cieco deve compiere dei gesti, collaborare con Gesù: se egli non fosse andato a lavarsi, come comandato da Gesù, se non avesse obbedito, non si sarebbe compiuto il miracolo. La fede del cieco si chiarirà nel corso della vicenda. Nei farisei il segno non produce ammirazione ma discussione; il cieco è posto sotto processo. La folla è il simbolo di tutti coloro che cercano solo ciò che è sensazionale, i farisei sono il simbolo di quelli che capiscono il miracolo, ma non si lasciano interpellare da esso, per non dover cambiare mentalità.

 

I genitori del cieco rappresentano coloro che credono, ma temono di compromettersi. Questi ultimi aspetti sono evidenziati nell’illustrazione del 1896 di James Tissot, pittore francese, che è parte di una serie relativa a episodi del Nuovo Testamento, creata in Palestina dove andò, a seguito di una crisi mistica; nella scena principale, all’interno della sinagoga,  si vedono infatti numerosi gruppi di persone di vario stato, con espressioni e gesti diversi, che si soffermano proprio a discutere sull’accaduto e restano distanti e indifferenti, pronti a scacciare il guarito e rimanere essi stessi ciechi.

 

Triduo pasquale di Cristo nel Matteo pasoliniano

 

 

Scritto da DARIO COPPOLA.

 

Gli inni russi sottolineano il dramma dell’imminente passione di Gesù Cristo. Pasolini punta l’obiettivo su Mt 26, 31 e rappresenta: il dialogo tra Gesù e Pietro;  la preghiera di Gesù nell’orto del Getsemani, con musica bachiana di sottofondo; i primi piani di Gesù che si muove nella notte angosciosa; infine, il dialogo di Gesù col Padre suo (Mt 26, 39-42).

 

 

Dopo il clamore, la musica mozartiana segna l’arrivo di Giuda e dei soldati. Pasolini inscena la corsa di Gesù e, di lui, anticipa il rimprovero a Pietro per aver staccato l’orecchio al servo del sommo sacerdote (Mt 26, 52b), posponendo il saluto di Giuda e limitandolo a poco più di un abbraccio.

Dopo l’inquadratura dei farisei, nel film compare Pietro, come nel testo di Mt 26,58, nella piazza del sinedrio nella quale Giuda si è venduto. Sono gli occhi di Pietro a guidarci: egli segue da lontano, dietro alcune donne, l’interrogatorio (Mt 26, 57-66). Pasolini omette il primo riferimento al Cristo deriso (Mt 26, 67-68) e rappresenta il rinnegamento di Pietro al canto del gallo (Mt 26, 69-75).

La scena dei capi dei sacerdoti e degli anziani del popolo, seduti in piazza, che ordinano la consegna di Gesù a Pilato è senza commento musicale. Sono gli occhi di Giuda, ora,  a guidarci nella piazza, col sottofondo spiritual. Alla fine egli si impicca in una radura selvaggia (Mt 27, 1-6).

Di seguito, si vede il pianto di Giovanni abbracciato dalla madre di Gesù, mentre questi è portato da Pilato. Pasolini omette la citazione di Geremia di Mt 9. Lo spettatore guarda la scena con gli occhi, in lacrime, di Giovanni in primissimo piano: un Pilato anonimo è liquidato da Pasolini con la domanda per la liberazione di Barabba o Gesù. Giovanni guarda il trasporto di Cristo nel pretorio (Mt 27, 27), luogo con volta a sesto acuto e lucernari, in cui i soldati lo scherniscono.

Gli occhi di Giovanni si alternano a ciò che vedono di Gesù, fino alla sua incoronazione di spine. Egli si muove, accompagnato dal solo Simone di Cirene, a cui viene ordinato di portare la croce sotto la quale Gesù è appena caduto. Giovanni lo segue facendosi strada e abbraccia Maria.

Gesù, tra la folla, procede verso il Calvario, su note mozartiane. Un ladrone è inchiodato alla croce. La musica ha il sopravvento mentre Gesù è crocifisso e Maria, nel correre per raggiungerlo, cade. La croce è issata. Maria, straziata, guarda il figlio, il cui capo punto dalla corona di spine gocciola di sangue. Pasolini colloca qui il testo di Mt 13, 14 che cita Is 6, 9-10: «Voi udrete […] ma non intenderete, vedrete […] ma non comprenderete […] il cuore il questo popolo si è indurito». La scena ritorna a Mt 27,46: «Padre mio, perché mi hai abbandonato?» e due soldati, data una spugna a Gesù, riconoscono l’invocazione a Elia. Pasolini rappresenta il grido di Gesù che muore ed emette lo spirito.

 

Un terremoto colpisce Gerusalemme, su musica di Mozart, fino a un’inquadratura del sole che abbaglia le rovine, contrastante con la successiva del capo reclinato di Gesù senza vita.

 

La deposizione dalla croce evoca il mediometraggio pasoliniano La ricotta (1963). Il gruppo delle tre Marie, di Giovanni e altri due personaggi (fratelli di Gesù? Uno di loro è Giuseppe di Arimatea?) osserva tutto in posa iconica. Giovanni e una delle donne preparano un lenzuolo per avvolgere il corpo nel sepolcro; i canti russi commentano e del corpo di Gesù si intravedono i piedi dal lenzuolo (come in Mantegna o, meglio, nei caravaggeschi, dato il chiaroscuro).

Maria guarda chiudere, in silenzio, il sepolcro.

 

Il cinguettio degli uccelli annuncia il mattino alle guardie. Con fiori arrivano le tre Marie, Pietro, Giovanni e altri astanti: tutti si inginocchiano. All’improvviso gli inni russi sono interrotti liturgicamente dal Gloria della Missa luba: il sepolcro si scoperchia e mostra il lenzuolo senza corpo di Gesù. Riappare l’angelo che dice a Maria e agli altri: «Non temete! So che cercate Gesù, il crocifisso. Egli non è qui […]. Andate  e dite ai suoi discepoli: “è risorto dai morti e vi precede in Galilea […]”» (Mt 28, 5b-7a). Apostoli e discepoli corrono con falci.

 

Fuori campo si ode il Cristo: «Ogni potere è stato dato a me in cielo e sulla terra. Andate […] fate proseliti (traduzione oggi discutibile) tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo». Ricompare Gesù, com’era durante il ministero pubblico, che cita, su musica della Missa luba, l’epilogo di Matteo: «Insegnando loro a osservare tutto quello che vi ho comandato […] io sono qui con voi per sempre fino alla fine del mondo» (Mt 28, 18b-20).

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  • Il film analizzato è ” Il Vangelo secondo Matteo ” , di Pier Paolo Pasolini, 1964.

Il Matteo pasoliniano: dall’annuncio della passione alle parabole sul regno

Scritto da  DARIO COPPOLA.

 

La narrazione pasoliniana del Vangelo secondo Matteo avanza di otto capitoli fino alla professione di fede di Pietro a Cesarea di Filippo, che  il regista chiosa con l’annuncio che Cristo fa della propria sorte (Mt16,13-24). Subito, Pasolini salta al secondo annuncio della passione (Mt 17, 22b); per la prima volta, in assoluto, compare come attore Ninetto Davoli, intento a giocare con un bambino. La trama del regista descrive ora il discorso ecclesiastico, introdotto dalla domanda. «Chi è il più grande nel regno dei cieli?». La scena riprende il Cristo che scende coi discepoli per i sentieri, con una panoramica e poi da varie angolature, senza commento musicale (Mt 18, 1-8).

 

 

Pasolini inserisce, dunque, la parabola della pecorella smarrita (Mt 18, 12-14) e subito, ancora senza sottofondo alcuno, prosegue con l’insegnamento di Gesù sul perdono incondizionato, omettendo la parabola del servo spietato (Mt 18,21b-22). Un altro salto pasoliniano raggiunge Mt20,18: per ragioni sceniche «scendiamo a Gerusalemme» cambia in «saliamo». Quindi Pasolini cita il terzo annuncio della passione (Mt 20, 18-19). Ad accompagnare queste scene è Mozart.

L’arrivo a Gerusalemme è rappresentato da bambini che corrono gridando con con rami d’ulivo in mano, ed è citato il discorso diretto di Mt 21, 2-3. L’inquadratura è una panoramica su Matera (alias Gerusalemme). Mentre viene presa l’asina dagli apostoli, risuona la Missa luba. La carrellata sulle donne che dicono: «È Gesù, il figlio di Davide» annuncia l’ingresso del Cristo sull’asina, tra la folla festante che dispone i mantelli per farlo passare sopra di essi col corteo popolare.

 

 

Salito alla porta della città, Gesù vede i mercanti al tempio e butta all’aria i loro banchi. Osservato dai farisei, egli si rivolge a loro: «Sta scritto: “La mia casa sarà una casa di preghiera” (Is 56, 7). Ma voi ne fate “una spelonca di ladri ” (Ger 7, 11)» (Mt 21, 13): nell’inquadratura successiva, su sottofondo mozartiano, compare Pasolini mimetizzato dal mantello che, dalla testa in giù, lo cela ma anche lo rivela tra storpi e ciechi che seguono Gesù; il coro mozartiano aumenta d’intensità: festosi, i bambini coi ramoscelli raggiungono in gruppo una posa per far festa al Cristo.

 

 

Nella scena seguente, su sottofondo bachiano, Gesù alzatosi dal letto, prega mentre i discepoli dormono, a parte Giuda. Questi raggiunge Gesù che, recatosi presso un fico, non riesce a prenderne frutti e lo fa seccare. Pasolini prefigura nel correlativo oggettivo del legno arboreo la sorte di Giuda, legandola a quella di Gesù: proprio Giuda, nel film, pone la domanda: «Come mai si è seccato in un istante?» che in Matteo è indistintamente attribuita ai discepoli.

 

La scena si conclude con la discesa dall’altura (Mt 21, 18-21). I farisei, da un’alta monofora, gridano a Gesù: «Con quale autorità fai queste cose?». La risposta di Gesù è riportata letteralmente fino alla disputa coi capi dei sacerdoti e degli anziani (Mt 21, 23-27). La trama filmica cita poi la parabola dei due figli nella vigna (Mt 21,28-32) sottolineando l’enfasi della risposta «L’ultimo» data dal sacerdote alla domanda di Gesù: «Quale dei due fece la volontà del Padre?». La traduzione, utilizzata da Pasolini, segue il Codice Vaticano (manoscritto B) che inverte i due figli rispetto all’originale greco, nel quale compariva come risposta «Il primo» anziché «L’ultimo». Ecco, per la seconda volta (la prima era Mt 6, 25-34), citata la rara espressione di Matteo (anziché quella sua tipica «regno dei cieli»  che compare sempre, per 32 volte) «regno di Dio» (Mt 21, 31).Oltre a queste due, essa compare nel testo di Matteo solo quattro volte e quindi anche in Mt 12, 28e in Mt 19, 24, passi però non citati da Pasolini.

Segue la parabola dei vignaioli omicidi, con inquadrature evocative la ritrattistica dell’umanesimo rinascimentale (Mt 21, 33-44). Così Pasolini passa al detto di Mt 22, 14: «Molti sono i chiamati e pochi gli eletti».

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  • Contributo in video : Dal “Vangelo secondo Matteo ” di Pierpaolo Pasolini,  Ingresso in Gerusalemme.

https://www.youtube.com/watch?v=Sb_-irx160c

Vangelo Style

Scritto da MARIKA BONONI.

 

Barbon Style, può accadere che a Torino… scritto da Enrico Chierici (Neos Edizioni, 2017) è un libro ambientato in parte su un tram.

Due ragazzi, Marco e Fiore, si conoscono e viaggiano insieme, condividendo rotaie e vita. A un certo punto lui regala a lei due libri, uno di questi è il Vangelo. Non si tratta di una riscrittura nel vero senso del termine (il racconto procede oltre questo episodio, lo supera e continua nella sua corsa verso il finale) tuttavia è interessante la chiave interpretativa che il diciannovenne propone alla sedicenne Fiore, insieme alla reazione della ragazza e alla sua rilettura. Il Vangelo nelle parole di Marco (il personaggio di Chierici) è “un fiume pieno di sorprese […] non è né lento né ombroso” e “normalmente ci si può fare del bel rafting” (p.81), una descrizione accattivante anche se lei reagisce seccata, col tono di chi è appena cascata nella rete del solito predicatore. Decide però di raccogliere la sfida, lo legge e l’autore – grazie al suo personaggio – ha la possibilità di tratteggiare alcuni protagonisti del testo sacro usando uno slang adolescenziale.

Maria, nelle riflessioni di Fiore, lungi dall’essere la “solita figura velata di azzurro”, assume le sembianze di una “giovane squaw” (p.85) simile alla sua amica Marghe per l’aspetto e a se stessa per la condizione sociale, dimostrando con ciò di aver colto una vicinanza che supera i luoghi e il tempo. L’attualizzazione così fantasiosa non le impedisce di cogliere “qualcosa di importante” che non viene esplicitato e in questo modo l’autore  rispetta non solo la psicologia del giovane personaggio, ma anche e soprattutto il mistero che rimane appena evocato.

Poi arriva Zaccaria, un potentissimo Jimi Hendrix privo di droghe, capace di parlare di sole e pace, luce e tenebre, con la stessa potenza della sua chitarra elettrica. Giovanni Battista: “magro e barbuto […] i capelli rasta pieni di fumo e sterpi secche” (p.86), un novello street-artist che con le sue profezie visionarie oggi avrebbe cambiato il volto della sua città, il “Leone del deserto” tradotto in lingua corrente e caratterizzato da uno degli aspetti centrali della sua narrazione: la radicalità della scelta di vita.

Infine il “folle tra le folle”, Gesù, un ribelle che se fosse vissuto oggi avrebbe avuto molti like sulla sua pagina, ma pochi followers (p.86). Sì perché sono proprio gli adolescenti post-moderni coloro che colgono l’enorme portata “sovversiva” del suo messaggio, insieme alla difficoltà di tradurlo in azione fintanto che si rimane ancorati a ideali stereotipati e a valori preconfezionati. Invece, anche se a Fiore Maria ricorda la sua amica Marghe, Giovanni Battista una sorta di guru rasta e Gesù è un Gesù bellissimo dal sorriso degno di un attore del calibro di Brad Pitt, quella sera in lei la paura lascia spazio alla speranza e il dolore alla pace: “Il mio giogo giova. Il mio peso non pesa” (p.87) scrive nel suo taccuino dopo aver letto il “Discorso della montagna”.

Barbon Style, due giovani vite agli antipodi condividono all’improvviso un tratto di adolescenza che pare azzerare di colpo le distanze. Il libro che cela al suo interno un piccolo tesoro: un “Vangelo style”.

L’unzione e la bellezza

Scritto da  MARIA NISII.

 

Nel primo libro di Samuele, dopo la riprovazione di Saul, primo re d’Israele, il profeta è chiamato a compiere una nuova unzione, che significa investitura divina per una missione, ovvero un compito e una responsabilità per chi la riceve. «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re» (1Sam 16,1): Samuele esegue le indicazioni del Signore e si reca nella casa di Iesse a ungere il nuovo eletto. Ma a partire dal figlio maggiore nessuno dei giovani presenti nella casa sembra adatto: «Non guardare al suo aspetto né alla sua statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (v. 7). I commentatori fanno notare come l’elezione chieda di non guardare all’aspetto fisico, di cui il primogenito pare dotato (come già lo era Saul – cfr 1Sam 9,2); la scelta di Davide poteva dunque limitarsi a indicare la rettitudine del cuore. Invece anche di Davide si sottolinea l’avvenenza («Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto», 1Sam 16,12), forse anticipando quello che sarà l’ascendente esercitato su uomini e su donne oppure rimarcando la bellezza (e il potenziale di grandezza) presente negli ultimi e negli emarginati.

 

 

«Il fiume di tempo fluito da quel giorno non ha sfibrato il ricordo smagliante del forte pastore, muscoli, impeto, che mi sorprese, mi cadde addosso, mentre sul monte pascevo le pecore di mio padre, non lontano da Betlemme, estate piena, l’afa bruciava l’erba, avevo undici anni, era mezzogiorno» , racconta il Davide di Carlo Coccioli ( “Davide”, p. 20) in un romanzo che sposta il punto di vista dalla narrazione biblica onnisciente al racconto in prima persona del protagonista. E non è un cambiamento da poco. Nei due libri di Samuele, Davide è soprattutto raccontato, descritto come soggetto d’azione e interlocutore in dialogo con gli altri personaggi – dei suoi pensieri non si sa quasi nulla fino all’età matura e dopo la crisi per l’adulterio con Betsabea e l’omicidio di Uria. Nel romanzo il discorso appare rovesciato: sono gli altri a essere osservati da Davide e da lui raccontati. E il Davide narratore qui concede ampio spazio a quell’evento originario che è l’unzione, ritornandovi più volte, come se non si potesse mai esaurirne il senso (non è così anche per il racconto di vocazione sulla via di Damasco?).

Alla seconda rinarrazione l’episodio è riportato dalla voce del profeta Samuele, che successivamente riferisce a Davide la paura avuta di non ben comprendere. «E, quando ti vidi, ti riconobbi all’istante. Sì, ti riconobbi all’istante, Davide, ma come, perché ti riconobbi?, e ora te lo dico: ti riconobbi dalla ferita che ti divideva in due: il tuo essere doppio, e il dialogo interminabile tra i tuoi due abitanti» (p. 39): con queste parole Samuele intende quella dualità con cui Davide stesso si racconta – quasi una versione narrativa della complessità del personaggio, utile a mostrare la contraddittorietà umana. Davide infatti è uno dei personaggi biblici più elaborati, vero e proprio personaggio letterario e insieme figura dell’uomo di fede in tutte le sue contraddizioni.

 

Michelangelo,David (1504)

 

Più avanti nel racconto il protagonista torna ancora sulla sua investitura, soffermandosi sulla percezione sensoriale: «Un liquido tiepido mi bagnò la fronte, i capelli. E le mani di Samuele mi toccarono, appesantendosi sul mio corpo. Poi restò fermo davanti a me dandomi l’impressione di un’immensa lassitudine» (p. 47). Ma subito dopo sente il bisogno di fuggire: una reazione di rifiuto tipica dei racconti di vocazione – da Giona che cambia strada a Geremia che dice di essere giovane e non saper parlare.

I successivi accenni all’unzione sono invece offerti in forma di domanda: «ero stato l’oggetto di una scelta di cui ignoravo i criteri» (p. 53); la sua elezione ha infatti rappresentato la reiezione di Saul e la conseguente afflizione del re, che Davide subirà in termini di persecuzione e costrizione all’esilio. Infine, ripensando alla risposta che a suo tempo aveva dato il giovane Samuele [1] e alle parole dello shemà [2] – Davide comprende: è nell’ascolto e nell’abbandono che è chiamato a vivere (ma sempre insieme alla tentazione di fuggire!). E conclude: «Siamo liberi; ognuno risponde secondo la propria anima» (p. 94).

Sul bell’aspetto e il fascino di Davide, che accompagna il racconto d’investitura del futuro re d’Israele, il biblista Paul Beauchamp offre un’accattivante esegesi seguendo una linea estetica, nella quale evidenzia come questo elemento rispecchi l’essere a immagine di Dio. In perfetta continuità con tale interpretazione si pone la versione romanzata: «Siamo differenti dagli Altri anche perché siamo belli. La malevolenza delle nazioni ci circonda anche a causa della nostra bellezza, e della consapevolezza che ne abbiamo. Non ci perdonano, insomma, la Tua immagine in noi» (p. 32).

Ma questo Davide coccioliano non è solo bello, egli ama la bellezza che traduce in versi e canti, secondo la tradizione che lo vuole autore di diversi salmi biblici: «Tu sei il più bello dei figli di Adamo, sulle tue labbra è sparsa la leggiadria… mirra e aloè e cassia profumano le tue vesti, in palazzi di avorio ti rallegrano gli strumenti a corda» (p. 21 – cfr Sal 44).

 

Marc Chagall, Il re Davide (1951)

 

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  • In copertina: Samuele unge David (Dura Europos, Siria, III secolo)

[1]                    «Parla, perchè il tuo servo ti ascolta!» (1Sam 3,10)

[2]                    «Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio…»: si tratta della preghiera che ogni ebreo recita quotidianamente al mattino e alla sera.

… vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome (GV 2,23)

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

Questo è il primo articolo di una piccola serie sulle rappresentazioni nell’arte dei miracoli di Gesù e riguarderà in particolare le guarigioni che ha compiuto; visto il periodo di “contagi” e di paura della malattia che stiamo vivendo in questo momento, possono indurci a riflettere proprio nel tempo liturgico di quaresima.

Le opere d’arte che ci parlano dei miracoli di Gesù rispettano i contesti descritti nei vangeli. Gli evangelisti hanno collocato i vari miracoli in momenti diversi del racconto della vita pubblica di Gesù. Non erano solo dei gesti straordinari per la salvezza fisica terrena, dovevano anche indurre alla fede i miracolati, i pagani e soprattutto i discepoli, e agire sulla salvezza dal peccato e dalla morte. Ulteriori aspetti che emergono quali conseguenze di queste manifestazioni di Gesù sono i complotti per ammazzarlo o le obiezioni, le diffidenze e anche le reazioni e le proteste dei farisei e dei dottori della legge, suscitate da questo “lavoro” in giorno di sabato; ricordiamo infatti che molte guarigioni sono avvenute proprio in questo giorno. Nei capitoli 8 e 9, Matteo riunisce una serie di dieci miracoli che si trovano sparsi in contesti diversi in Marco e Luca, mentre Giovanni ne riporta sette. I più popolari e conosciuti sono quelli della guarigione del paralitico, del cieco a cui è donata la vista, della moltiplicazione dei pani e dei pesci, delle nozze di Cana, della resurrezione di Lazzaro. Il limite delle immagini su questi temi è che non possiamo percepire quelle che sono le parole che vengono dette dai protagonisti, perché è associando la conoscenza delle scritture alla simbologia o all’iconografia che viene adottata dall’artista che riusciamo a comprendere il significato profondo del miracolo rappresentato. Diverse sono le guarigioni operate da Gesù: le malattie di lebbrosi, di ciechi, sordomuti, di paralitici, della donna emorroissa. Gesù compie il miracolo, o “segno” come lo definisce Giovanni, in modi diversi, a volte semplicemente dicendo alcune parole, altre volte imponendo le mani, altre ancora facendo gesti particolari.

Propongo per introdurre l’argomento due opere che sono di carattere generale: la prima è l’affresco di Giusto de’ Menabuoi tra il 1376 e 1378 nel Battistero di Padova (adattato negli anni ’70 del XIV secolo a mausoleo della famiglia Da Carrara)

 

 

L’affresco, su una parete, raffigura “I miracoli di Cristo” e vi  troviamo l’immagine di Gesù che guarisce da ogni tipo di malattia, come è descritto in Matteo (15, 29-31):  “Allontanatosi di là, Gesù giunse presso il mare di Galilea e, salito sul monte, si fermò là. Attorno a lui si radunò molta folla recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi, ed egli li guarì. E la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi raddrizzati, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano. E glorificava il Dio di Israele”. Qui il racconto è attualizzato in un’ambientazione storica del periodo in cui vive il pittore: Gesù è davanti al pronao dell’antica cattedrale di Padova e alla loggia che sovrastava la costruzione romanica, circondato da persone con diverse malattie che invocano il suo intervento miracoloso e – in primo piano – riconosciamo l’uomo con la mano destra secca come raccontano tutti e tre gli evangelisti sinottici. Assistono alla scena tutti i membri della famiglia da Carrara (a sinistra) – che sono  i committenti dell’opera , e una delle famiglie più importanti di Padova – insieme all’amico e, sembra, ispiratore della tessitura teologica e biblica degli affreschi, Francesco Petrarca come testimone diretto della divinità di Gesù (visibile in corrispondenza del primo pilastro bianco a sinistra) ritratto tra Francesco il Vecchio da Carrara e la moglie Fina Buzzaccarini.

 

La seconda è una stampa da un’incisione del 1649, di Rembrandt Harmenszoon van Rijn dal titolo ”Cristo guarisce gli infermi”, esposta allo Zorn Museum a Mora, in Svezia; l’artista dedicò un anno intero della sua vita a comporre quest’opera, correggendo e ricorreggendo, per raggiungere la perfezione formale, la monumentalità e l’universalità dei soggetti. In quest’opera è rappresentata una vera e propria “corte dei miracoli”: in un antro, non esattamente sul monte, Gesù guarisce i malati, attorniato da un pubblico di curiosi, farisei, ma anche convinti fedeli, fra i quali – a sinistra – il teologo, umanista e filosofo olandese Erasmo da Rotterdam. La scena è di grande impatto emotivo: vi si avverte un senso di pietà che insieme è tenerezza per gli infelici, per i sofferenti e per gli umili, i quali affollano il mondo: una donna è stesa su un materasso; un uomo invalido è portato su una carriola; un cieco è guidato dalla vecchia moglie e sul fondo un etiope con un cammello, che non è un semplice accessorio pittoresco, ma fa riferimento a Marco quando parla di gente venuta da lontano (Mc 3,7-12).

 

 

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  • In copertina: scena dal ” Gesù di Nazaret ” di Franco Zeffirelli (1977)

Parole e gesti di Cristo nel Matteo pasoliniano

Scritto da  DARIO COPPOLA.

 

Concluso il discorso apostolico, Pasolini non passa ancora a quello parabolico, ma inserisce prima il risanamento di uno storpio, modificando l’episodio della guarigione della mano inaridita (Mt 12, 9-14). L’espressione «Tendi la tua mano» è sostituita con «Getta le tue stampelle», che richiama Mt11, 5; la scena è accompagnata da uno spiritual e, dopo la guarigione, dalla musica mozartiana. La trama ritorna a Mt 12, che cita un canto del Servo di YHWH (Is 42), e si conclude con la dichiarazione dei farisei di voler far morire Gesù.

Pasolini, contrappuntando le immagini con Bach, cita la moltiplicazione, in riva al mare, di pani e pesci (Mt 14, 15-21).

 

 

Gesù annuncia poi di andare sull’altra riva, in disparte, a pregare (Mt 15, 22) e gli apostoli lo vedono camminare sulle acque; Pietro dubita ed è sorretto da Gesù (Mt 14, 22-31). La scena successiva ritorna all’inizio di Mt 11 per citare quasi tutto il capitolo (eccetto Sodoma), in cui Giovanni Battista, prigioniero, si domanda: «È lui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?»: Pasolini opera un suggestivo collegamento con la precedente scena nella quale Gesù, camminando sulle acque, appariva come un fantasma.

 

 

La statica inquadratura di Giovanni Battista è incorniciata in un cortile aperto del palazzo di Erode Antipa (Forte di Macheronte), dove echeggiano un flauto e un tamburello;  i discepoli, mandati da Giovanni Battista, si recano da Gesù a chiedere se devono aspettare uin altro o se è lui  «colui  che deve venire» (Mt 11, 1-23).

La parte finale del capitolo era già stata citata, perciò il regista si aggancia a Mt 12, 23 e, omettendo il riferimento alla guarigione di un indemoniato, di un cieco e di un muto, riporta la domanda: «Che non sia questi il figlio di Davide?», con la risposta dei farisei: «Costui non scaccia i demoni se non per mezzo di Beelzebul». In quest’ultima scena si può notare l’oxymeron (ossimoro: qui inteso in senso ampio, come principale tecnica narrativa pasoliniana) nell’accostare una musica dall’andamento calmo a un rimprovero di Gesù.

Così Pasolini passa a Mt 12, 30: «Chi non è con me è contro di me e chi non raccoglie con me disperde». Le soggettive asimmetriche, tipiche pasoliniane, riproducono primi piani di Gesù ed elementi architettonici. Viene citato da Gesù il peccato che non sarà perdonato: la bestemmia contro lo Spirito Santo. Quindi Pasolini salta al v. 38, in cui Matteo cita Giona, la regina del Mezzogiorno e Salomone. Il regista, interrompendo la citazione letterale dei passaggi matteani, anticipa Mt 12,47: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». La musica di Bach ne commenta la risposta e – per la prima volta – appare sulla scena Susanna Pasolini, madre del regista, nel ruolo di Maria.

 

 

Questo significa che l’alter Christus è presente anche in questo film: è Pier Paolo Pasolini stesso che con la cinepresa riprende sempre il Cristo che cammina, seguendolo come un discepolo. Ecco la scena in cui Cristo entra a Nazaret (Mt13, 53).  Pasolini riporta il detto Nemo propheta in patria; sorvola per ora sul discorso parabolico e su quello ecclesiastico e approda a Mt 19 per rappresentare il giovane notabile ricco (scena da Matteo ambientata non in Galilea ma in Giudea).

Quindi, nel film, alcune donne si rivolgono a Gesù, dicendo: «Cristo, benedici i figli nostri»: si noti l’identificazione cristologica di Pasolini nella richiesta, interpretando il telling del testo matteano con uno showing.

 

 

Alcuni bambini, con fiori in mano, vengono rimproverati da Pietro (Mt 19, 13-15). La trama del film ritorna su Giovanni Battista nella prigione mentre, nel cortile di Erode Antipa, Salomè danza e lo ammalia.

 

 

La scena è un capolavoro estetico (Mt 14, 6-10). Pasolini non mostra la testa del Battista e passa a Mt 14, 13 per ritornare subito a Mt 8, 18, passo sullo scriba che dice di voler seguire Gesù, la cui risposta è: «Le volpi hanno le loro tane […] ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». Pasolini inverte l’intervento del discepolo, che chiede di seppellire il padre, con quello dello scriba (Mt 8, 21-22). Viene poi citato Isaia: «Urla, o porta; grida […] Palestina tutta […] ognuno si cingerà di sacchi per le sue strade […] struggendosi di pianto» (Is14, 31-32).

 

 

Se la cronaca riscrive la Quaresima

Scritto da LORENZO CUFFINI.

Quest’anno la cronaca,  in modo inatteso, ha interferito sostanzialmente sull’inizio della Quaresima. Non possiamo far finta di nulla: siamo al termine della  settimana di sconquasso in cui è esplosa, letteralmente, nel nostro quotidiano, la questione del coronavirus, fino a qualche giorno fa considerata come un fatto vagamente inquietante ma sufficientemente remoto .

Invece, bum! Dalla sera alla mattina, letteralmente, ci siam trovati proiettati in uno scenario da film, con il grosso guaio di esserne noi, questa volta, i protagonisti. Sono stati sette giorni di informazione in fibrillazione, di dibattito continuo, di provvedimenti  senza precedenti, i quali hanno che hanno coinvolto direttamente anche la  Chiesa Cattolica, cogliendola proprio nella settimana di inizio del tempo forte per eccellenza.

Moltissime parole sono state dette e scritte: a partire dai vescovi  e giu’ discendendo. Ma a noi, qui, interessa il racconto che se ne è dato. Noi ci occupiamo di narrazioni, e di ri-narrazioni. E in questi giorni, abbiamo assistito a una narrazione che, direttamente o indirettamente, ha finito con  il diventare per motivi di calendario , anche una vera e propria “ riscrittura” della Quaresima. Nei giorni della grande paura ( e della grande psicosi); con un suo titolo già bello pronto : la quaresima ai tempi del coronavirus.

Qua ci limitiamo  a una piccola galleria delle immagini  che maggiormente si sono rincorse in rete, rimbalzando da una condivisione all’altra. Le proponiamo così, nude e crude, senza commento. Perché ogni commento, a questo punto, sarebbe superfluo, essendo già stato detto di tutto e il suo contrario. Perché le immagini, assai più della parola, hanno una potenza comunicativa tutta loro, capace di colpire attenzione e immaginazione di chi le vede e le guarda assai più di qualunque articolato discorso. Perché la stessa immagine è in grado di suscitare, in chi la guarda emozioni  diverse e risposte anche dissonanti.

Perché, infine, siamo sicuri che  nessuno di noi, guardandole, sia comunque restato indifferente.

 

 

 

 

 

 

Pasolini e gli apostoli in Matteo

Scritto da  DARIO COPPOLA.

 

 

Gesù, in riva al mare, chiama due coppie di fratelli: Pietro e Andrea; Giacomo e Giovanni di Zebedeo, questi ultimi già visti ascoltare il Battista. Qui Pasolini cambia il testo di Matteo – in cui vi sono cinque ampi discorsi: evangelico, detto “della montagna” (cc. 5-7); apostolico (c. 10); parabolico (c. 13); ecclesiastico (c. 18); escatologico (cc. 24-25) – e salta al discorso apostolico (o missionario) di Mt 10, completando l’elenco dei dodici apostoli, ripetendo redazionalmente i primi quattro loro nomi e aggiungendo, in ordine diverso da Matteo, la presentazione che Gesù fa di Filippo, Tommaso, Simone, Bartolomeo, Taddeo, Giacomo di Alfeo, Matteo, Giuda Iscariota (*)

 

Questo elenco è anticipato dal finale del c. 9: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate […] il padrone della messe affinché invii nuovi operai alla sua raccolta» (Mt 9, 37b-38). Pasolini elimina il riferimento al potere taumaturgico dato agli apostoli, ricordando loro il solo ruolo di operai della messe. La trama salta direttamente a: «Ecco io vi mando agnelli in mezzo ai lupi» (Mt 10, 16); senza riferimento al prender la propria croce, Pasolini cita: «Chi avrà tenuto per sé la propria vita la perderà e chi avrà perduto la propria vita per causa mia la troverà» (Mt 10, 38); quindi torna a Mt 8 accompagnando il passaggio prima in silenzio e poi con la musica di Bacalov finché, focalizzatasi la scena sul lebbroso, appena è mondato, in modo liturgico risuona il Gloria della Missa luba africana. Il lebbroso trasgredisce all’ordine di tenere il segreto. Qui Pasolini colloca Mt 5, con cui inizia il discorso evangelico.

 

 

Le beatitudini sono proclamate di getto, senza commento musicale, fuori campo e si vedono i discepoli salire al monte. Pasolini cita letteralmente fino a Mt 5, 12 e salta a Mt 7, 9, concludendo con la cosiddetta “regola d’oro” «Fate dunque agli altri quello che volete che gli altri facciano a voi; perché questa è la Legge dei Profeti [evidente errore, anziché: Legge e i Profeti. La Legge, i Profeti e gli Scritti costituiscono la Bibbia ebraica, la TaNaK, ndr]». Il regista ritorna a Mt 5, 17 per ricollegarsi al filo narrativo interrotto: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti» e torna subito a «sale della terra […] luce del mondo» (Mt 5, 13-15). Seguono l’invito di Gesù a non accumulare tesori sulla terra (Mt 6, 19-20) e a non servire due padroni (Mt 6, 24), ritornando alle indicazioni sull’elemosina (Mt 6, 2-3).

 

A ritroso, Pasolini cita le cosiddette antitesi: «Vi è stato detto “occhio per occhio e dente per dente” ma io vi dico» (Mt 5, 38);  e passa a: «Udiste che fu detto “Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico” ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5, 43-46). quindi è citato Mt 7, 1-3: «Non giudicate se non volete essere giudicati» collegato a Mt 6, 5-13, che contiene il Padre nostro (Mt 6, 9-13). Subito, Pasolini avanza al v. 25: «Non preoccupatevi per la vostra vita […] guardate gli uccelli del cielo […] i gigli del campo» (Mt 6, 25-34), comprendendo in una prima citazione (ce ne sarà un’altra) anche l’espressione «regno di Dio», che in Matteo compare solo quattro volte.

 

 

A seguire, il regista riporta Mt 7, 13: «Entrate per la porta stretta» ed ex abrupto giunge a Mt 11, 25: «Ogni cosa mi è stata data dal Padre mio e nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Venite a me […] io vi darò riposo […] il mio carico è leggero» (Mt 11, 25-30).

 

 

Mentre parla, Gesù prende in braccio un bimbo, con commento bachiano; primi piani di Gesù che parla si alternano alla discesa dal monte degli apostoli che lo seguono. Giuda prende simbolicamente denari per acquistare olive (nel testo matteano sono invece raccolte spighe) che distribuisce agli apostoli; Pietro e gli altri ne mangiano. Intanto, i farisei che passano a piedi coi cavalli si fermano e, rivolgendosi a Gesù, rimproverano i suoi discepoli per aver violato il sabato (Mt 12).

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(*) Ordine del testo di Matteo: Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo, Giacomo di Alfeo e Taddeo, Simone e Giuda Iscariota (Mt 10,3).

Inizio del vangelo secondo Matteo riscritto da Pasolini

Scritto da DARIO  COPPOLA.

 

Nel 1964 Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini esce al cinema. Il film è in bianco e nero e dura 142’.

 

 

Le musiche, scelte con la scrittrice Elsa Morante (che compare anche nel film Accattone), sono di Johann Sebastian Bach, Wolfgang Amadeus Mozart, Sergei Prokof’ev, Anton Webern.

Inoltre compaiono:  Negro spirituals,

 

Canti rivoluzionari russi, scelti da Luis Bacalov,

 

 

Missa luba congolese, poi portata al Concilio Vaticano II dal cardinal Rugambwa (*)

 

Il film è dedicato «Alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII» da poco scomparso.

Ne ripercorreremo qui, sequenza per sequenza, tutta la trama. Oltre che un’analisi, il nostro percorso sarà una vera meditazione, perché l’opera pasoliniana è una citazione quasi letterale del testo di Matteo, non scevra di suggestivi momenti di creatività artistica.

Vangelo dell’infanzia (**)

La prima sequenza, omessa la genealogia iniziale, è un primissimo piano di Maria, seguito da quello di Giuseppe, ispirato a Masaccio:

è l’annunciazione, nella quale appare l’arcangelo Gabriele, ma nel film si sente Giovanni Battista pronunciare la profezia di Is 7, 14: «Ecco la Vergine concepirà e darà alla luce un figlio, e a lui sarà dato il nome di Emmanuele» (Mt 1, 23).

 

 

Il silenzio sovrasta le inquadrature: Maria e Giuseppe non parlano. L’arrivo dei magi, commentato da uno spiritual, e la corte di Erode, sono interpretati da attori italiani non professionisti, dal marcato accento calabrese: il regista, attento alla questione della lingua, esalta le parlate locali italiane nei suoi film. Bambini vocianti corrono in molte scene, alternandosi a momenti contemplativi.

Pasolini sostituisce al sogno descritto da Matteo l’apparizione dell’angelo ai magi, il quale li invita a cambiar strada; la scena è avvolta dal silenzio.

Viene descritta la fuga in Egitto, su sottofondo mozartiano, con partenza all’alba, non di notte come nel testo di Matteo. La citazione di Os 11 «Dall’Egitto ho chiamato il Figlio mio» (Mt 2, 15b) è pronunciata dalla voce fuori campo di Giovanni Battista.

I soldati di Erode, con armature medievali, attuano la strage degli innocenti; le scene violente sono rese in modo farsesco, come muti affreschi del Trecento e del Quattrocento, sulla musica di Prokof’ev tratta dall’Aleksandr Nevskij.

 

 

Erode, morto, è ripreso dal fondo del letto, come Ettore Garofolo in Mamma Roma. L’angelo riappare a Giuseppe, sulla musica di Bach; poi si vede Gesù bambino, in braccio a Giuseppe.

Dal battesimo al ministero pubblico

Trent’anni dopo, Giovanni Battista battezza, su sottofondo spiritual: si riconosce ora la voce di chi ha annunciato i brani profetici citati da Matteo. Tra gli ascoltatori del Battista, Pasolini inserisce Giovanni e Giacomo di Zebedeo.

 

 

I farisei passano osservando dall’alto. Essi indossano abiti ispirati a Piero della Francesca, Storie della vera croce, Arezzo (1447-1466) (***)

Per la prima volta, sul commento mozartiano, compare Gesù adulto, interpretato da Enrique Irazoqui e doppiato nella versione italiana da Enrico Maria Salerno. Gesù dice a Giovanni Battista: «Lascia fare, per ora è conveniente a noi che adempiamo ogni giustizia» (Mt 3, 15b).

 

Seguono le tre tentazioni, introdotte dalla musica di Bach: il diavolo è interpretato da un uomo che, fallito il suo tentativo, se ne va. La scena successiva inquadra il Battista imprigionato, mentre si sente la sua voce, fuori campo, citare Is 9,1: «Il popolo che giace nella tenebra ha veduto una grande luce» (Mt 4, 16a). Inizia così il ministero pubblico di Gesù che lascia Nazaret per Cafarnao: significativo è il commento degli inni rivoluzionari russi ai passi di Gesù tra i campi mietuti dai contadini. Guardandoli, Gesù dice, nel testo della Pro Civitate: «Ravvedetevi [Convertitevi, ndr] perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4, 17b).

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(*) Bongioanni M., Pasolini e i suoi film, Centro Studi Cinematografici, Torino 1964, p.32.

(**)  Ivi, p. 29.

(***) Ivi, p.22.