Touch

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

Nell’attività guaritrice del ministero di Gesù è importante il contatto fisico con i malati, anche se nelle guarigioni del servo del centurione (Matteo 8,5-13; Luca 7,1-10) e del figlio dell’ufficiale regio (Giovanni 4,43-54) dimostra che può guarire addirittura a distanza. Il miracolo della resurrezione della figlia di Giairo e quello della guarigione di una malata incurabile conosciuta come l’emorroissa, hanno tra gli elementi comuni o complementari, Gesù che prende la mano della ragazzina e il “toccare” il vestito di Gesù da parte della donna. Tutti e tre gli evangelisti sinottici, Matteo (9,18-26), Luca (8,40-56) e Marco (5,21-43) hanno incastrato questi due miracoli in un unico racconto: la resurrezione della figlia di uno dei capi della sinagoga di nome Giairo è spezzata a metà dall’episodio dell’emorroissa. La donna è immersa nella folla, come riportano Marco e Luca, e spinge per avvicinarsi a lui e si vergogna a farsi vedere a causa della sua malattia. Gesù, trascinato dalla folla, sta andando al capezzale della figlia di Giairo passa, e lei da dietro gli tocca – quasi furtivamente – la frangia del mantello.

Questi due miracoli, “la guarigione della figlia di Giairo” e “l’emorroissa, hanno avuto limitato riscontro iconografico in un unico racconto, tuttalpiù compare solo la figura di Giairo che accompagna Gesù dalla figlia, come lo si può riconoscere nella tavoletta di ambito veneto (diocesi di Padova tra il 1590-1599), di autore sconosciuto, appartenente al ciclo della vita di Cristo.

 

Le raffigurazioni pittoriche di quest’ultimo evento risalgono alla prima metà del III secolo, giungendo fino all’intero IV secolo e le troviamo soprattutto nelle catacombe come arte funeraria cristiana, oppure nei mosaici degli edifici paleocristiani. Diviene anche un tema ricorrente nei bassorilievi che ornavano i sarcofagi cristiani consacrati al Gesù “taumaturgo”, una figura che, diversamente da Gesù della Passione, era immediatamente accessibile ai pagani. L’iconografia utilizzata per l’emorroissa, nel primo periodo dell’arte cristiana fa pressoché riferimento al vangelo di Matteo dove il racconto è estremamente sintetico: non si parla di folla che fa ressa e non c’è il dialogo tra Gesù e i discepoli, ma un Gesù consapevole di quanto sta avvenendo; sa chi l’ha toccato e ne conosce la fede. Lo scopo di questa immagine in tale contesto non è tanto il tema del miracolo, ma la salvezza che Gesù opera nella donna dicendole «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (Mc 5,34). e la troviamo nella lunetta sulla parete di fondo del cubicolo 65, detto di Nicerus, delle Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro a Roma. In quest’ultima, per sottolineare il contatto tra la malata e il mantello, è da notare la graduale torsione del Cristo e il pietoso sguardo dell’emorroissa, come la linea del suolo, che pare una “base erbosa”, e l’espediente pittorico che allunga il lembo del pallio di Gesù con una sorta di “prolunga”.

 

 

Nella traduzione figurata di questa guarigione non sempre è stato dato un preciso schema iconografico, per cui talvolta nei racconti in cui è protagonista una donna è stato confuso con altri episodi, come la resurrezione di Lazzaro, riferendosi alle sorelle dell’amico di Cristo che baciano le sue mani e sono ai suoi piedi; oppure nel caso della guarigione del figlio della vedova di Naim, nel dipinto del 1570 circa di Paolo Veronese, conservato a Vienna, nel Kunsthistorisches Museum, dove Gesù che si rivolge alla donna inginocchiata, scosta il lembo del mantello ed è come se gridasse “Chi ha toccato il mio mantello?”

 

o ancora nel mosaico di Ravenna in S. Apollinare Nuovo, sec. VI, in cui la donna a terra, forse l’adultera, può essere identificata erroneamente nell’emorroissa, oppure potrebbe essere riferita al momento successivo del tocco, quando la donna si fa riconoscere da Gesù.

 

 

Un giovane artista urbinate, Elvis Spadoni,  ha ripreso lo schema dell’arte delle catacombe nella sua opera contemporanea, l’Emorroissa, dove la veste di Gesù e il gesto della donna ci fanno intuire che siamo alla presenza del Signore. Egli stende la sua mano verso la donna in un potente gesto creatore. L’autore stesso spiega la sua opera «- parla di una partenza – e questa donna ha attraversato, simbolicamente, tutto il silenzio della tela, alla ricerca della Parola che salva. Troppe e troppo rumorose parole l’avevano raggiunta, ma nessuna di queste l’aveva guarita. Il panno intriso di umiliazione ora è abbandonato alle sue spalle, perché una nuova vita è iniziata».

 

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  • In copertina, MICHELANGELO BUONARROTI, particolare da La Creazione, Cappella Sistina, Roma

 

Pietà

Scritto da  MARIA NISII.

«Amo questo momento. L’abbraccio di mia madre è di una dolcezza estrema, ci ritroviamo per l’ultima volta, sento le sue carezze e il suo amore, le madri a cui muore un bambino hanno bisogno del corpo del figlio scomparso, proprio perché così, ai loro occhi scomparso non sia. Tanto avevo detestato incontrare mia madre dopo la prima caduta sotto il peso della croce, quanto adesso amo stare un’ultima volta tra le sue braccia. Non piange, quasi percepisce il mio benessere, mi dice parole adorabili, mio piccolino, mio passerotto, mio agnello da latte, mi bacia sulla fronte e sulle guance, l’emozione mi fa trasalire, e stranamente non ho dubbi sul fatto che lei se ne accorga. Non sembra triste, al contrario. Ciò che chiamano la mia morte l’ha ringiovanita di trentatré anni, com’è bella la mia mamma adolescente!…

Nella Pietà all’entrata della basilica di san Pietro Maria sembra avere sedici anni. Potrei essere suo padre. Il rapporto tra noi è talmente invertito che mia madre è diventata la mia orfana. Comunque sia, le rappresentazioni della mater dolorosa sono sempre inni all’amore. La madre riceve il corpo di suo figlio con tanto più trasporto sapendo che quella sarà l’ultima volta» (AmélieNothomb, Sete, p. 89-91).

 

In una riscrittura è sempre un azzardo dare la parola a Gesù di Nazareth. Quale voce sarà credibile o quantomeno in grado di rendere un personaggio che nei testi originari è raggiunto solo dallo sguardo di altri? In questo recente libro di Nothomb, autrice belgo-nipponica di grande successo, Gesù parla da un tempo successivo (come visto, conosce le opere d’arte riprodotte nei secoli), sebbene appaia ancora vincolato al presente raccontato. Per l’interesse di questo breve pezzo, soffermiamo la nostra attenzione sulla scena della Pietà ritratta in numerose varianti dagli artisti, ma esemplarmente celebre nella versione di Michelangelo. Anche il Gesù di Nothomb la ricorda, evidenziando il volto di una madre ringiovanita, che diventa «figlia», figlia del suo Figlio appunto come nel Paradiso di Dante (canto XXXIII). La Maria ritratta è di nuovo la giovanissima madre che ha stretto tra le braccia il suo piccolo – per questo il suo volto non è distrutto dal dolore ma possiede un’insolita dolcezza.

 

 

L’immagine della madre che tiene tra le braccia il corpo del figlio ha suscitato una serie di interpretazioni che sembrano rimandare l’una all’altra. Ne vediamo qualcuna. A proposito del ringiovanimento di Maria, ci sembra acuta la lettura che ne dà Massimo Cacciari in Generare dio, quando sostiene che l’incarnazione del figlio «disincarni» la madre, che sin dal parto è già subito la mater dolorosa della croce: «nel momento stesso in cui lo stringe a sé dolcemente, ne prova anche pietà, e insieme pietà per se stessa, poiché avverte di doverlo perdere. Vorrebbe trattenerlo, ed ecco è come già le fosse strappato. Appena partorito è già come deposto sul suo grembo» (p. 100). È così che il filosofo vede una corrispondenza tra alcune rappresentazioni delle Madonne con bambino e le Pietà, dove il corpo senza vita ritorna nel grembo della madre.

Adesso la mia sventura si fa piena, indicibilmente

mi fa colma. Sto rigida come lo è

nell’intimo una pietra…

Ora giaci attraverso, sul mio grembo,

ora te non posso più

io partorire.

(Rainer Maria Rilke, Pietà da Vita di Maria)

 

Nel suo poemetto dedicato a Maria, Rilke ritrae a sua volta questa dimensione richiamando il grembo e il parto. Ma nella rigidità del dolore vi è già la «pietra», ovvero il richiamo alla fissità marmorea che meglio d’altri mezzisembra riuscire a esprimere la materialità del dolore, che blocca, irrigidisce, impietrisce. Qualcosa di analogo compare anche nel romanzo Lei, che Mariapia Veladiano ha dedicato alla storia evangelica dal punto di vista della madre: «io e lui un filo, un cordone di sangue di nuovo fra noi… Poi lo hanno deposto fra le mie braccia e di colpo la danza si è fatta roccia. Solo poco ho trattenuto il suo calore, poi è diventato freddo, già marmo pronto per le pietà. Ho respirato, ancora respirato, al posto suo» (Mariapia Veladiano, Lei, p. 156-7). Il cordone, il legame di sangue e sotto il segno del sangue. Poi la danza – il movimento che ha condotto la madre fino al Golgota – si interrompe, in un passaggio dal fermo immagine alla statua.

La riscrittura romanzata e poetica sembra in questo caso più debitrice dell’opera michelangiolesca che dei vangeli, in cui – come noto – questa scena non esiste. L’arte ha infatti ampliato l’immaginario tradizionale della passione con una serie di raffigurazioni divenute «canoniche», quali la deposizione dalla croce, il compianto sul Cristo morto o l’abbraccio iconico «non piangere, madre mia» (vedi sotto).Nel Messia di Roberto Rossellini, pellicola del 1975, Maria segue il figlio durante la vita pubblica, insegnando a sua volta – come gli stessi discepoli – alcuni dei detti evangelici di Gesù. Questa madre ha lo stesso volto consapevole del figlio e dunque non teme durante la passione, né piange alla sua morte, a differenza delle altre donne. Ma soprattutto questa Maria non invecchia e resta giovane fino alla fine quando, sotto la croce è inquadrata in primissimo piano. La scena successiva [2.10.50] ritrae quindi la «pietà», mostrandola donna nell’atto di ripulire il (poco) sangue da una mano di Gesù, per poi accostarsela alla guancia. Un’immagine quasi statica inevitabilmente mirata a riprodurre la celebre icona.

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In copertina:

Michelangelo, Pietà (1499)

 

Il mio nemico

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

 

La figura dell’antagonista svolge un ruolo cruciale nelle saghe dei supereroi. L’Uomo Ragno ha una caterva di avversari, tra i quali spicca l’acerrimo nemico Goblin, alias Norman Osborn. Per non parlare della sfilza di personaggi con cui se la deve vedere Batman, figure apparentemente di secondo piano rispetto al protagonista, ma che possono salire in primo piano, come è avvenuto con Joker. L’antieroe è il contrario dell’eroe, quindi per certi aspetti rappresenta il suo alter ego. A non è B. A è A proprio in quanto non è B.

 

 

Neppure gli eroi delle saghe bibliche sfuggono a questa regola e se prendiamo uno dei personaggi più carismatici della Scrittura, Davide, ci accorgiamo che il suo carattere è costruito in antitesi al rivale Saul. Emblematici in questo senso sono tre capitoli del primo libro di Samuele, quelli che vanno dal 24 al 26. Questa sezione è incorniciata da due episodi molto simili in cui Davide risparmia la vita di Saul che finisce inconsapevolmente nelle sue mani. Davide potrebbe vendicarsi di colui che gli sta dando la caccia ingiustamente, ma rifiuta di stendere la mano contro il consacrato del Signore. Si mostra misericordioso, qualsiasi cosa voglia dire questo atteggiamento di non rivalsa in un contesto in cui le sue motivazioni non sono poi così cristalline. In mezzo a questi due episodi, Davide sta per cedere a sua volta allo stesso furore che anima Saul e medita di uccidere un certo Nabal che si è rifiutato di pagare la sua protezione non richiesta. Sarà la moglie di costui a evitare la strage, ma Davide in ogni caso riesce a non cedere a quell’istinto omicida che lo avrebbe assimilato al suo persecutore. Per dirla con un linguaggio cinematografico, non cede al lato oscuro della Forza. Davide merita di regnare perché non è Saul.

 

 

 

Ma questo non significa che gli antagonisti abbiano solo una funzione negativa di comparazione. Tra gli avversari di Davide c’è anche uno dei suoi fratelli, che si chiama Eliab. Di lui non sappiamo molto, se non che doveva essere un ragazzone palestrato che Samuele era pronto a consacrare come rimpiazzo di Saul e che invece deve essere scartato perché, dice il Signore, non bisogna guardare all’aspetto né alla statura (1Sam 16,7). Meglio un ragazzotto come Davide, che non riesce ad indossare l’armatura di Saul perché ci balla dentro.

Dunque ancora una logica di confronto negativo? Sì e no. Perché Eliab torna in scena nel capitolo successivo, quando Davide si reca al campo di battaglia dove il fratellone sta fronteggiando con gli spauriti commilitoni israeliti il temibile esercito filisteo che vanta la presenza del gigantesco Golia. Eliab non è affatto contento di rivedere il fratellino e lo apostrofa duramente, rimproverandolo di avere abbandonato il gregge che gli era stato affidato per venire a vedere lo spettacolo della battaglia. Quindi lo giudica in maniera sprezzante: “Conosco la tua boria e la malizia del tuo cuore” (1Sam 17,28). Siccome siamo tutti dei followers di Davide, la sentenza dello sconosciuto Eliab ci appare semplicemente come lo sfogo di un frustrato assai lontano dal vero.

 

 

Ma l’autore biblico la pensa allo stesso modo? A volte i personaggi dicono più di quello che intendono esprimere. E qui Eliab sembra incarnare una voce profetica che descrive bene Davide. Non questo Davide giovane e sbarazzino, ma quello che, una volta insediato al potere, dovrà confrontarsi con i propri limiti e le proprie ambiguità. Quello disposto a sacrificare la vita di uno dei suoi fedeli generali per coprire il suo adulterio. Quello che attira la peste sull’accampamento israelita perché ha voluto fare un censimento arrogante. Succede, allora, che i nemici possano essere inconsapevolmente portatori di verità e diventa importante ascoltare quello che dicono perché si può imparare da tutti, anche da quelli che vorrebbero farci del male e invece finiscono per farci un favore mettendoci in guardia da noi stessi.

 

 

 

L’uomo che cammina

Scritto da  MARIA NISII.

 

«Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato» (Christian Bobin, L’uomo che cammina, p. 9).

Una narrazione a piccoli brani, quasi frammenti, compone il libretto di Christian Bobin L’uomo che cammina (Qiqajon, 2012). Ogni volta in poche frasi racchiude un episodio, un personaggio, una questione (biblica, teologica, antropologica). Non è identificabile in un genere questo, come gli altri suoi testi, e come il suo stesso autore. Bobin scrive in forma narrativa e poetica, e i suoi lavori sono generalmente di piccolo formato; lo spessore è nella qualità e nella profondità. La sua cifra stilistica è la leggerezza, il tono poetico, anche quando scrive in prosa: «Quello che si sa di lui lo si deve a un libro. Se avessimo un orecchio un po’ più fine, potremmo fare a meno di quel libro e ricevere notizie di lui ascoltando il canto dei granelli di sabbia, sollevati dai suoi piedi nudi. Nulla si riprende dal suo passaggio e il suo passaggio non conosce fine […] Duemila anni dopo di lui è come sessanta. È appena passato e i giardini di Israele fremono ancora per il suo passaggio, come dopo una bomba, onde infuocate di un soffio» (L’uomo p. 9-11). Il frammento in cui elabora il pensiero è parte della sua personale poetica, della sua idea di scrittura: «ciò che fugge dal mondo è la poesia. La poesia non è un genere letterario, è l’esperienza spirituale della vita, la più alta densità di precisione, l’intuizione accecante che la vita più fragile è una vita senza fine» (Bobin: ‘scrivere è sfiorare il silenzio’ di Fulvio Panzeri in Avvenire, 31 gennaio 2015).

Il lavoro di Bobin è leggibile come una ricerca personale, esistenziale, spirituale che si deposita e traduce in parole. Gli spazi vuoti tra i brani vogliono invece segnalare i silenzi, una presenza indispensabile – anche visivamente – perché la parola sedimenti, riacquisti tutta la sua forza e la sua carica di significato. La lingua poetico-narrativa di questo autore francese è lieve come una carezza, come il vento, ma in tale levità rivela la potenza del sacro: «Se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine» (L’uomo, p. 11). Come in altri autori, la scrittura per Bobin è vissuta come un dono e un compito. E la consapevolezza di chi vive come un dovere il dono della parola, comprende l’assunzione del limite, nell’ambiguità costitutiva del linguaggio, nella sua provvisorietà.

 

 

«Lui parla solo della vita, con parole a lei proprie: coglie dei pezzi di terra, li raduna nella sua parola e il cielo appare, un cielo con alberi che volano, agnelli che danzano e pesci che ardono, un cielo impraticabile, popolato di prostitute, di folli e di festaioli, di bambini che scoppiano in risate e di donne che non tornano più a casa: tutto un mondo dimenticato dal mondo e festeggiato là, subito, adesso, sulla terra come in cielo» (L’uomo 14-5). L’uomo che cammina si esprime in parole che sembrano riprodurre i mondi fantastici di Marc Chagall, popolati da figure volanti, animali e oggetti coloratissimi, gioiosi e nostalgici. A cercare, si trova magari qualche immagine dei vangeli (citati in apertura: «Sono dapprima in quattro a scrivere su di lui…» L’uomo, p. 10). Ma quello che Bobin fissa ha a che vedere con l’acuta e attenta osservazione di quel «passaggio che non conosce fine», ancora oggi accessibile a chi ha «un orecchio fine», dunque all’occhio e all’orecchio del poeta.

 

 

 

 

 

In questo primo libretto di tema esplicitamente religioso, il racconto su Gesù – sebbene mai nominato – è reso attraverso l’immagine dell’uomo che cammina, una fotografia che coglie un lato meno sfruttato ma profondamente evangelico: l’uomo che non stava mai fermo per incontrare gli altri uomini, l’uomo sulla strada di Emmaus, l’uomo che sempre e ancora cammina accanto all’altro uomo. Non un nome allora, ma il suo carattere dinamico è ciò che lo identifica. Per quel suo moto inarrestabile, Bobin lo associa alla figura dell’ebreo errante: «È ebreo da parte di madre, ebreo da parte di padre, eternamente ebreo per quel suo modo di andare ovunque senza trovare da nessuna parte un rifugio» (L’uomo,13-4). E in quello stesso incessante movimento vi è il suo darsi, la grandezza dell’umano che risuona del divino: «Non fa dell’indifferenza una virtù. Un giorno grida, un altro piange. Percorre l’intero registro dell’umano, l’ampia gamma emotiva, così radicalmente uomo da raggiungere dio attraverso le radici» (L’uomo, p. 18). Il suo movimento senza posa è duro da sostenere per chi lo segue, a sua volta chiamato a «camminare», fino al momento in cui egli preannuncia di stare per andare in un luogo dovenessuno potrà seguirlo, se non un giorno, in cui ciascuno lo farà in solitudine: «’Là dove va’ non potremo andarci diversamente da lui: solo – come a un appuntamento» (L’uomo p. 28).

 

 

Ancora in poche battute e brevi frasi sintetizza la provenienza del suo protagonista (una famiglia in cui si lavora il legno), l’invito alla sequela (Alcuni si associano al suo lavoro. Con fatica li forma ai principi di una nuova economia), un miracolo (distingue nettamente il fruscio di una sola mano su un lembo del suo mantello… La ladra – sì, naturalmente è una donna), l’insegnamento sul Padre (Il padre ha una reputazione da temporale, il figlio viene a calmarlo, ad addomesticarlo) e le parabole che lo raccontano (Dice: vedete, mio padre è come un uomo che aveva due figli, uno tranquillo e uno matto… Il padre beveva, cantava, rideva. Quei rimproveri non li ha neanche sentiti. Era un tipo d’uomo particolare: sentiva solo la gioia; per il resto, era sordo). Non mancano veloci richiami alla madre, l’adolescente che gli ha dato la vita e la sensibilità che l’ha fatto uomo, e che infine ha assistito alla sua morte (Nulla di peggio può capitare a una madre. Non ci sono parole per un dolore simile). Il dopo morte è invece raccontato come uno spartiacque tra chi ne farà un sapiente e chi lo seguirà ridotto al silenzio: «perché tutto ciò che si potrebbe dire è allora inudibile e folle. Inudibile perché folle. L’uomo che cammina è quel folle che pensa che si possa assaporare una vita così abbondante da inghiottire perfino la morte […] Forse non abbiamo mai avuto altra scelta che tra una parola folle e una parola vana» (L’uomo p. 30). La fede qui non è più annuncio, quella corsa nella mattina di Pasqua, ma si fa silenzio prima di diventare parola, parola folle.

 

Con o senza … Maria

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

Nel giorno di Pentecoste, anniversario del dono della Legge al Sinai (Es 19), che ricorda l’antichissima festa giudaica della mietitura, a Gerusalemme ci fu un avvenimento inaudito … “si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi di vento che si abbatté impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo …” (Atti 2,1-4).

Nell’arte abbiamo numerose opere che raffigurano questo momento; hanno tutte la stessa impostazione, ma una è la differenza sostanziale: in alcune è presente Maria, in altre no. Andrea Dall’Asta architetto e gesuita va oltre la pura corrispondenza alle Sacre Scritture e interpreta la presenza di Maria come “simbolo della Chiesa che accoglie lo Spirito di Dio,  la nuova sposa di Dio, la nuova comunità dei credenti, l’amata del Cantico dei Cantici.”

 

 

Prendiamo come esempio interessante l’affresco nella Cappella degli Scrovegni a Padova, dipinto tra 1303 e il 1305 da Giotto e aiuti. La scena si svolge all’interno di una stanza dove ci sono dodici apostoli seduti, e la luce sovrannaturale rossa che, irradiandosi dal soffitto, investe i convenuti. L’interpretazione data pare fedele al racconto di Luca negli Atti degli apostoli dove non è menzionata Maria, ma al capitolo 1, versetto 14, leggiamo anche che “Maria, la madre di Gesù”, con altre donne e i fratelli del Signore facevano parte del primitivo nucleo della comunità ecclesiale. Il racconto dell’effusione dello Spirito Santo non nomina né Maria né altri, ma inizia affermando che “Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. “Tutti” può significare quindi che, insieme agli apostoli ad alcune donne e ai fratelli di Gesù, ci doveva essere anche Maria.

 

 

Così, dal Medioevo in poi gli artisti collocheranno la Vergine al centro del gruppo degli apostoli, come nel dipinto (un pannello dell’armadio degli argenti) del 1450 circa, del Beato Angelico, pittore domenicano, che troviamo nel Museo di San Marco a Firenze. Nella parte alta, al centro, corrispondente alla stanza al piano superiore dove erano soliti riunirsi gli apostoli, c’è Maria, frontale, in preghiera, in piedi. Gli apostoli sono numerosi e sulle aureole le fiammelle della potenza dello Spirito. In corrispondenza di Maria, nella parte inferiore, c’è una porta chiusa e ai lati uomini che provengono da diversi ambienti etnico-culturali, in abiti contemporanei, riconoscibili soprattutto dai vari tipi di copricapo orientali, che, stupiti e perplessi, come ci riferiscono gli Atti degli Apostoli, (2, 7-8) dicevano: “Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? …”.

 

 

 

Altro dipinto è quello di Tiziano Vecellio, eseguito tra il 1545 e 1546 a Venezia, ora in Santa Maria della Salute, dove Maria, fulcro visivo della composizione, si trova direttamente sotto lo Spirito Santo e solleva le mani in un atteggiamento di adorazione, di estasi e di preghiera, mentre contempla la luce che scende dall’alto. Agli esterni alcune donne e gli apostoli agitati e gesticolanti che sembrano uomini che “si sono ubriacati di mosto”(Atti 2,13).  Alcuni hanno lo sguardo sollevato verso l’alto e tra questi, in primo piano, in ginocchio, Pietro a braccia aperte, identificato dalla chiave che tiene nella mano, sembra parlare; un altro sembra interrogarsi su quanto sta accadendo pettinandosi la barba; un altro ancora, sulla destra, tiene un libro sottobraccio per cercare la conferma dell’evento nelle Sacre Scritture; altri sembrano conversare tra loro e un ultimo sullo sfondo sta con il volto abbassato, abbagliato dalla luce ricevuta. Qui, oltre ai raggi di luce abbiamo la colomba simbolo dello Spirito Santo, la stessa che discende su Gesù nel momento del battesimo come riportato nei vangeli sinottici e in Giovanni (1,32) che, nelle parole di testimonianza di Giovanni Battista, dice “Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui”.

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In copertina Maia Morgenstern , che interpreta Maria nel film “The Passion” di Mel Gibson.

Vuoi guarire?

 

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

 

Le opere artistiche che illustrano la “guarigione del paralitico” sono numerose fin dalle pitture catacombali, ma per riconoscere a quali dei vari racconti degli evangelisti si riferiscono, dobbiamo analizzare gli elementi principali dei singoli brani. I sinottici riportano in maniera essenzialmente simile la guarigione di un paralitico, con Gesù che perdona anche i suoi peccati, con indicazioni diverse circa il luogo: Matteo 9,1-8 indica che “va nella sua città”; Marco 2,1-12 precisa a Cafarnao; Luca 5,17-26 non specifica. La scena principale ripetuta è quella del paralitico quando si allontana e porta con sé il lettuccio su cui era disteso. Il paralitico di Marco e Luca si distingue dagli altri perché, per avvicinarlo a Gesù, è calato dal tetto da degli uomini, in numero di 4 secondo Marco, mentre Matteo non specifica chi lo porta vicino a Gesù; in tutti però Gesù si rivolge ai portatori e alla loro fede per guarire il paralitico.

Ecco che abbiamo molte versioni dagli artisti di varie epoche, sulle tipologie dei lettini e dei tetti e sulle modalità della calata del paralitico dall’alto. Qui ne riporto solo due esempi. A Ravenna, nel mosaico del V-VI secolo della basilica di Sant’Apollinare Nuovo, la scena è essenziale: compaiono solo i personaggi principali, Gesù e il suo discepolo, e due dei quattro uomini menzionati da Marco. Le braccia dell’uomo paralizzato e la mano del discepolo accanto a Gesù, convergono tutte verso la mano benedicente di Gesù.

 

 

 

In una delle cappelle del Sacro Monte di Varallo (1615-1622) dedicata alla guarigione del paralitico  (ad opera di Giovanni D’Enrico le sculture e di Cristoforo Martinolio lo sfondo affrescato) abbiamo un’interpetazione estremamente dinamica del racconto in forma tridimensionale. Qui ci sono i personaggi e la folla, con le espressioni di tutti i sentimenti come in una rappresentazione teatrale che coinvolge il pellegrino, che doveva pensare di essere al tempo e nel luogo dove si svolse il fatto.

 

 

Giovanni, invece, nei versetti dall’1 al 18 del capitolo 5, narra la guarigione del paralitico della cosiddetta “piscina Probatica” (dal greco probaton: pecora) testo anche della liturgia domenicale della IV settimana di quaresima (ciclo A): “Ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà,con cinque portici, sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. (Un angelo, infatti in certi momenti discendeva nella piscina e agitava l’acqua: il primo ad entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua guariva da qualsiasi malattia fosse affetto). Si trovava là un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». Gesù gli disse: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina». E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare. Quel giorno però era un sabato. Dissero dunque i Giudei all’uomo che era stato guarito: «È sabato e non ti è lecito portare la tua barella». Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: “Prendi la tua barella e cammina”». Gli domandarono allora: «Chi è l’uomo che ti ha detto: “Prendi e cammina?”». Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato perché vi era folla in quel luogo. Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco:sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio». Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato.”

 

Curiosa è la rappresentazione che ne abbiamo nel Leggendario Sforza-Savoia, uno dei più preziosi codici miniati del Rinascimento italiano, realizzato nel 1476 per il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza e la consorte Bona di Savoia. Il codice è una raccolta di storie o leggende, da cui il nome Leggendario, tratte dai Vangeli Apocrifi e dal Nuovo Testamento, ed è conservato nella Biblioteca Reale di Torino. Più di trecento grandi scene miniate accompagnano il testo, dando vita a uno straordinario racconto per immagini. Le miniature si devono a Cristoforo de Predis, artista milanese, sordomuto, al servizio di importanti famiglie quali gli Este e i Borromeo. Franco Cosimo Panini Editore ha pubblicato un volume facsimile, riproducendo il manoscritto integralmente e in ogni dettaglio, con particolare riguardo alla fedeltà cromatica delle illustrazioni e delle dorature. In quattro riquadri è suddiviso l’episodio, come in una sequenza cinematografica muta dell’intero racconto, come una vera sceneggiatura, riprodotto con fantasia, ma con efficace forza narrativa, creando una vivace illusione del movimento e degli atteggiamenti, da far rivivere l’episodio anche con qualche punta di ironia (come gli infermi che si buttano con gambe all’aria nella piscina,e il paralitico con le braccia conserte che sta aspettando qualcuno che lo aiuti ad entrare).

 

 

Altra impostazione, sempre molto sintetica, in cui le azioni che compongono il racconto hanno una sequenza tipica del teatro rinascimentale dove in un’unica scena si svolgono i tre tempi, è il dipinto su tela di Jacopo del Sellaio, della seconda metà secolo XV, proveniente dalla Chiesa di S. Agostino, ora nei musei di Castiglion Fiorentino.

 

 

Osservando le scene si vede a sinistra l’incontro di Gesù con il paralitico, al centro il paralitico guarito che riferisce ai giudei di essere stato guarito da un uomo che non conosce, a destra l’incontro nel tempio del paralitico guarito con Gesù e sullo sfondo l’angelo che scende sulla vasca esagonale e, toccando l’acqua, la rende terapeutica, taumaturgica.

In queste immagini emerge il contrasto tra le guarigioni superstiziose che si cercavano in quella piscina, e quella offerta da Gesù alla salvezza, ottenuta con la fede

IMMAGINAZIONE

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

 

Al maestro di spiritualità Ignazio di Loyola siamo debitori di molte pregevoli intuizioni, tra le quali spicca la compositio loci, ovvero la capacità di ricostruire nella nostra mente le ambientazioni degli eventi descritti dalla Scrittura. Al suo tempo si poteva contare sull’ausilio dei dipinti, delle statue e delle vetrate delle chiese, oggi abbiamo a disposizione anche le diverse fiction che ripropongono le vicende dei personaggi biblici, talvolta con bizzarra inventiva e talvolta con ricostruzioni abbastanza meticolose. Tutto ciò non è comunque bastato a purificare la nostra immaginazione da evidenti incongruenze con l’ambiente mediterraneo antico e i vari Gesù biondi con occhi azzurri e le Madonne dall’incarnato pallido sono un esempio sotto gli occhi di tutti. Ma questo è un problema  minore.

 

Jeffrey Hunter nel ruolo di Gesù in  Il re dei re (King of Kings) , diretto da Nicholas Ray nel 1961

 

 

Ci sono poi dei limiti ricostruttivi che incidono sulla reale comprensione della dinamica secondo cui si svolge una scena nel racconto dell’autore sacro. Prendo come riferimento l’episodio dell’incontro tra Filippo e l’eunuco di Atti 8,26-40. A parte una serie di informazioni storiche per inquadrare la scena (cos’è un eunuco? Va inteso solo come sinonimo di dignitario o si trattava davvero di un evirato? Dove si trova il regno di Etiopia di Candace? ecc. ecc.) ci sono anche dei presupposti culturali che vanno tenuti presente per capire come si articola la scena. Filippo è a piedi eppure va più veloce del carro. Possibile? Sì, un carro dell’epoca non ha niente a che vedere con le carrozze dei nobili o con i carri del Far West ed è un mezzo di locomozione molto lento, che però dà la possibilità di viaggiare più comodi e di poter portare con sé bagagli e vettovaglie in abbondanza.

 

 

Luca parla solo di Filippo e dell’eunuco: dobbiamo presumere che viaggiasse da solo? La cosa è praticamente impossibile, il rischio di briganti era elevatissimo e l’uomo (benestante) doveva contare su una scorta armata e su dei servi confacenti alla sua dignità, tra i quali almeno un autista per il carro. E poi c’è la curiosa menzione del libro che l’uomo sta leggendo, un rotolo del profeta Isaia. Conosceva l’ebraico? Ciò è molto improbabile, doveva trattarsi di una traduzione in aramaico o in greco, lingue più diffuse e quindi a portata di un uomo colto del tempo. E come fa Filippo a sapere che l’eunuco sta leggendo proprio Isaia? Certo non poteva scorgere un’etichetta sul rotolo! È chiaro che l’uomo sta leggendo ad alta voce, come era prassi nel mondo antico (Agostino ancora nel quarto secolo si stupirà che Ambrogio legga in silenzio, un comportamento ritenuto anomalo).

Dunque l’immaginazione è importante per “vivere la Bibbia”, ma è un po’ come la coscienza: va alimentata ed educata, altrimenti si atrofizza o cresce storta.

Manierismo pasoliniano nel vangelo: déjà-vu di poeti, scrittori e pittori

 

 

Scritto da  DARIO COPPOLA.

 

Una panoramica sulla folla riporta l’attenzione su sacerdoti e anziani. Un erodiano,  rappresentato alla maniera del fiammingo Jan van Eyck in Ritratto di uomo con turbante rosso (1433), pone la questione del tributo a Cesare (Mt 22, 16-21).

Poi interviene un sadduceo, con cappello nero, che interroga Gesù su un tema giuridico inerente al matrimonio: per la legge del levirato, in morte del marito di una donna senza figli, il primo fratello doveva sposarla; la successiva morte, a catena, di sette fratelli e della donna stessa pone il caso di chi sia il di lei marito nel Regno dei cieli (Mt 22, 24-33).

 

 

 

Giuda viene inquadrato mentre ascolta.

 

 

Prende, da ultimo, la parola il fariseo e chiede quale sia il più grande comandamento (Mt 22, 34-39).

I canti della Rivoluzione russa (La Chanson de Martyrs diretta da Boris Alexandrov) introducono il capitolo successivo: una fiumana popolare segue su un’altura Gesù, e accorre a lui da ogni dove; nel mentre, passano i soldati con armature medievali.

Suggestiva è la scena in cui il Cristo predica al popolo disposto su vari livelli, come in un dipinto trecentesco senza prospettiva: vertice iconico del film, in cui Pasolini raggiunge piena concordia col testo (Mt 23, 2-39).

Le immagini sottolineano i soldati (Mt 23, 24) che arrestano chi segue Gesù. Al v. 34 si vedono gli apostoli la cui sorte Gesù descrive interpretati, fra gli altri, da veri intellettuali:

il poeta Alfonso Gatto è Andrea;

lo scrittore Enzo Siciliano è Simone;

il filosofo Giorgio Agamben è Filippo.

 

Gli intellettuali sono destinati a soffrire come gli apostoli stessi. Già abbiamo visto:

il poeta Mario Socrate nel ruolo di Giovanni Battista;

lo scrittore Francesco Leonetti in quello di Erode Antipa;

la stessa Susanna Colussi Pasolini, nel film madre di Gesù, è stata nella vita una scrittrice.

Il discorso si conclude con un’inquadratura del Cristo davanti a un arco con timpano. In una scena Pasolini riassume solo l’inizio del discorso escatologico (saltato integralmente), dove mostra Gesù scendere con sguardo duro verso Gerusalemme (Mt 24, 2).

Il regista ci porta così a Mt 26: con uno stacco passa dal capo dei farisei al fico seccato e si conclude il canto russo diretto da Alexandrov.

Da una porta antica presso un pergolato, sull’eco di un flauto, Maria di Betania – interpretata da Natalia Ginzburg – unge il capo di Gesù, suscitando la gelosia di Giuda. Pasolini, ancora una volta,  pone sulla di lui bocca quanto Matteo attribuisce ai discepoli (Mt 26, 6-13). Con un sorriso la donna esce di scena e Giuda corre dai sacerdoti (Mt 26, 14-16).

Infine, Pasolini introduce l’Ultima cena con l’espressione «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà» (Mt 26,20-29).

 

Siamo tutti sulla stessa arca!

Scritto da  ELETTRA FERRIGNO. 

 

Siamo tutti Noè: tutti sulla stessa arca!  Ora tutto il pianeta ha la forma di una stanza, di un’arca, di una cesta. «E’ il tempo che il sasso acconsenta a fiorire, che l’ansia abbia un cuore che batte, è tempo che sia tempo» (Paul Celan su POESIA n.102). E’ il tempo del Risveglio.

«Finché durerà la terra,
seme e mèsse,
freddo e caldo,
estate e inverno
giorno e notte 
non cesseranno» (cfr. Gn 8, 22)

Poi la bonaccia sul mare: «Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si abbassarono. Nel decimo mese, nel primo giorno del mese, apparvero le cime dei monti» (cfr. Gn 8,1; 5). Un corvo che se ne va, la fogliuzza che non tremola più, il vapore che sale dritto dalle narici dei bufali, i loro occhi tranquilli: anche per gli animali era tutto finito. La cessazione: un suono secco di frutto caduto, il palmo di una mano che si chiude nel palmo dell’altra, il ritorno di una colomba bianca con un ramoscello di ulivo nel becco, dopo essere andata raminga per le acque del diluvio e per le aure delle ansie amorose, senza appigli cui posare le sue zampe. L’anima ritorna felice al petto del suo amato a ricordare che misericordia e pace, certo, si baceranno (cfr. Sal 84).

Si può fare, si può tornare indietro e riparare. L’acqua sa perdonare, è una maestra allegra. Il cielo sopra il mondo smette di esplodere e fa posto ad un arcobaleno, un precipizio di grazia che si tende lì, da parte a parte, sulle nubi che abbracciano la madre terra e i suoi abitanti. Le braccia da cantiere che avevano costruito l’arca, appena fuori, trovarono la più alta applicazione nella costruzione di un altare, che recava inciso il grazie, unico olocausto gradito alla divinità quando l’uomo ne riconosce il primato e l’opera di salvezza: «Il Signore ne odorò il profumo gradito». Quelle braccia vengono dall’ordine divino di ripopolare la terra, sono il mondo numero due.

«E Dio disse:  
“Questo è il segno dell’alleanza,
che io pongo tra me e voi 
e ogni essere vivente che è con voi, 
per tutte le generazioni future. 
Pongo il mio arco sulle nubi,
perchè sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. 
Quando ammasserò le nubi sulla terra 
e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza 
che è tra me e voi. 
L’arco sarà sulle nubi, e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna 
tra Dio e ogni essere 
che vive in ogni carne che è sulla terra”»

(cfr. Gn 9,22).

Dire fa avvenire le cose, è premessa obbligata del fare. E disse: con questo verbo la divinità crea e disfa, benedice, annulla, ricrea. Fa cieli nuovi e terre nuove, il suo dire contiene la novità dentro ad ogni cosa. Pittore è Dio, che dipinge un arcobaleno nel cielo per rammentare a se stesso, prima che all’uomo, un amore a prima vista che la creazione primordiale aveva fatto scoccare e che l’aveva innamorato follemente e irreversibilmente. Berît è l’allenza che fa seguire all’arcobaleno: un impegno incondizionato, un amore gratuito dichiarato a colpi di colori pastello nel cielo. Una raggiera di fasci luminosi per abbracciare in un colpo solo tutti, l’universo creato e quello di ogni uomo sono la sua eredità. Ecco l’arcobaleno, arco teso sulle nubi pronto a farci scagliare nuove frecce di speranza nel cielo terso e ripulito della nostra condizione umana. Quello spettro, che irradia allegrezza, si è ampliato fino a noi. Il suo fremito è una cupola che copre l’inclinazione al male fin dall’adolescenza del cuore umano, e oggi incita i bambini a disegnare arcobaleni, e i grandi con loro, e riempie ogni casa e i balconi in ogni strada.

Ora sappiamo che il bene è un filo invisibile, violentato e tenuto nascosto spesso nei diagrammi del giorno, confuso e svenduto a poco prezzo, un rovesciarsi attorcigliato di vite in un vicolo poco frequentato.

Andrà tutto bene” (all shall will be well), disse la voce del Signore e che trovò accoglienza nel cuore di Giuliana di Norwirch, una mistica inglese del ’300, quando la Chiesa era lacerata dalla sofferenza durante lo scisma e il ritorno del Papa da Avignone a Roma.

Ora è anche il leit motiv di questi giorni, che affonda le radici nei racconti della scrittura sacra e nella speranza cristiana. E’ il motto non di chi si illude che tutto tornerà come prima, ma di chi sta integrando la sofferenza e sta rinnovando la sua fede sconfiggendo sordità e cecità per aprirsi alla consolazione.

Andrà tutto bene” è frase di chi ha in mente un mondo nuovo. E lo farà.

 

Quale Messiah? Una fiction in tempi di coronavirus

 

Scritto da MARIA NISII.

 

In questo periodo di clausura forzata, si trova il tempo di fare cose a cui normalmente non si sceglie di dedicarsi. Così, una sera dopo l’altra, sono passati anche i dieci episodi della serie Messiah di Netflix. Una mia studentessa mi aveva invitata a guardarli, perché potessi dirle la mia. Loro in famiglia ne hanno tutti un parere diverso, mi spiega. Ho iniziato il primo episodio con scetticismo, ma poi la curiosità e il piacere di rompere le abitudini mi hanno spinta a continuare. Scrivo questo pezzo per capire anch’io che effetto mi abbia fatto e fissare qualche idea – chi lo desidera, può commentare nello spazio dedicato a fondo pagina.

L’idea di partenza è buona: un personaggio misterioso che tutti chiamano Al-Massih compare a Damasco durante l’attacco di Daesh. L’uomo vestito di giallo (come, si dice, prevedano le profezie musulmane) invita gli uomini a non perdere la speranza: Dio interverrà a salvarli. Mentre ancora sta parlando, una violenta bufera di sabbia realizza le sue parole. Chi lo ha ascoltato, compreso il giovane Jibril con cui si apre il racconto, crede in lui come nel profeta degli ultimi tempi e si mette a seguirlo. L’uomo guida i tanti che ora credono in lui fino ai confini con Israele, dove naturalmente sono tutti fermati e lui arrestato.

Dal Medio Oriente la scena passa negli Usa, dove Al-Massih ricompare misteriosamente durante un uragano che colpisce un paesino del Texas, salvando la giovane figlia di un pastore e l’unica chiesa lì presente, a cui poco prima il pastore stava per dare fuoco. Alla fine sarà l’unico edificio a restare in piedi, quasi segno di una nuova speranza. Questi primi elementi, abilmente distribuiti da una narrazione anche efficace, creano una certa attesa che, da un episodio all’altro, rimane tuttavia insoddisfatta. Eppure… Il lato spettacolare e apocalittico, immaginario tradizionale da tempi ultimi, torna a dispiegarsi sulle coste della Florida con un’inondazione, che non si manca di definire “diluvio”, preceduta dalla visione di una distesa di pesci spiaggiati. Inoltre, il personaggio di Al-Massih possiede il giusto equilibrio di fascino e ambiguità, efficace a suscitare la domanda sulla sua identità. L’uso del dispositivo miracolistico risulta stucchevole solo nel caso della camminata sulle acquea Washington, diversamente non se ne abusa. I discepoli (oggi naturalmente definiti “followers”) si moltiplicano, ma è soprattutto nell’incontro personale che Al-Massih rivela le sue arti retoriche, la capacità di scrutare dentro, di suggerire una via nuova. E l’altro non può non uscirne turbato, cambiato, talvolta persino “convertito”.

 

La “riscrittura” di Cristo in questo personaggio non dimentica alcuni dei tratti noti e più o meno facilmente riconoscibili. Gli stessi titoli degli episodi riprendono parole di Gesù o citazioni bibliche: “Chi ha orecchio” (Mc 4,9), “Pur vedendo non vedono” (Mt 13,13), “Il dito di Dio” (frequente antropomorfismo usato in tutta la Bibbia), “Io creerò come parlo” (richiamo al primo racconto della creazione, Gen 1, in cui Dio crea con la Parola). Nel corso della vicenda riconosciamo una serie di riferimenti biblici, tra i quali l’attraversamento del deserto con i seguaci siriani verso Israele (qui il richiamo è a Mosè e all’esodo del popolo ebraico uscito dall’Egitto, in cammino verso la Terra Promessa). Gli altri invece sono perlopiù evangelici e tra questi: la resurrezione del bambino, colpito da un proiettile sulla spianata delle moschee a Gerusalemme (vago richiamo alla resurrezione del figlio della vedova in Lc 7,11-17); il fratello intervistato che ne rivela un passato da illusionista (ricorda la famiglia di Gesù che lo ritiene “fuori di sé” in Mc 3,21); l’epilettica Rebecca, figlia del pastore, che parla al posto di Al-Massih (possibile richiamo a Mc 5,20, laddove l’indemoniato di Gerasa si mette a predicare quanto ha sperimentato – nei vangeli gli epilettici sono ritenuti indemoniati, cfr Mt 17,15); la richiesta di guarigione della figlia malata di cancro (possibile richiamo all’episodio della cananea di Mc 7,24-30 e alle varie altre richieste di guarigione); la prostituta, mandata a sedurlo e che ne esce cambiata (immagine di Maddalena, tradizionalmente associata alla prostituta di Lc 7); infine ovunque sembra aleggiare la domanda: Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? (Lc 18,8).

 

Che Cristo torni sulla terra, sia immediatamente riconosciuto dagli uomini, circondato da gente che gli chiede miracoli e subito arrestato dalle autorità è già stato oggetto di quel classico della letteratura che è La leggenda del grande inquisitore di Dostoevskij. Il tema quindi è già battuto, segno del suo interesse, messa alla prova della fede del proprio tempo e rivisitazione in chiave contemporanea dei vangeli. Non è quello che si pensa e ci si chiede, in fondo, leggendo oggi quei testi: saremmo noi in grado di riconoscerlo?

Tutte queste piste promettenti si fermano qui. Il peso della narrazione si sposta infatti sull’indagine della Cia, perché inevitabilmente il suo diventa un caso internazionale, che vede coinvolto da un lato un devoto Presidente Usa e uno spietato capo di gabinetto e dall’altro i delicati e precari equilibri di area palestinese. Ma sul fronte religioso si sprecano gli stereotipi, esibendo un mondo in crisi che sopravvive con la violenza (oriente) o con il denaro (occidente). Gli imam sono quindi fondamentalisti che educano futuri terroristi. Ma i pastori protestanti non fanno una figura migliore, mostrando la difficoltà del credere (Felix, pastore del paesino del Texas colpito dall’uragano, vuole distruggere la sua chiesa per crisi personale e di fede) e l’ambizione al successo (il suocero di Felix, pastore miliardario e noto telepredicatore, pensa solo a sfruttare la situazione per il proprio canale). Infine i tanti discepoli (sul fronte islamico come su quello cristiano) mostrano una fede superstiziosa (ricerca del miracolo, della guarigione) e fondamentalistica. E dunque sensazionalistica. Come la fiction, che vuole raccontare la possibilità di una venuta del Messia ai nostri tempi, ma non può farlo senza condirla di giallo, violenza, sesso.

Al-Massih è un personaggio divisivo che non offre risposte, ma solleva domande. Alcuni riscoprono qualcosa di perduto in se stessi. Altri, che magari attendevano una prova dell’esistenza di Dio, restano delusi (fortunatamente!) e trovano altre soluzioni all’enigma della sua identità. Ma la domanda su che cosa sia la fede è posta con troppa superficialità. Evidentemente inadatta per il circuito che ne ha promosso la realizzazione. Per chi fosse interessato, meglio tornare al Grande inquisitore, che tra l’altro offre una importante riflessione sull’episodio delle tentazioni con il quale si è aperta la Quaresima. Quello che si può salvare di questoMessiahè piuttosto un’altra domanda: come fare i conti con queste rappresentazioni del religioso, inadeguate, ma in molti casi le uniche attingibili dai più? Seppur stereotipate, le immagini di fondamentalismo (nella forma violenta o nell’arroccamento a una fede vecchia e stantia) sono davvero lontane dal contemporaneo mondo delle religioni?