Loda!

Scritto da MARIA NISII.

 

loda il ritmo di spazi ricurvi

percorsi dagli astri nel cosmo

loda i precipizi oscuri di mari

miraggio dei monti lunari

loda il sabato solare

della festa cosmica

 

Kurt Marti, pastore svizzero e poeta, pubblica un libretto dal titolo curioso “La passione della parola DIO” (Claudiana spiritualità, 2014), in cui raccoglie una serie di testi che il lettore è invitato a leggere seguendo la traccia indicata. La parola DIO (e non solo quella parola fatta carne che è Gesù) ha vissuto e vive una sua “passione”, a ragione dell’uso e abuso riservatole –anche a dispetto del secondo comandamento che richiedeva di “non nominare il nome di Dio invano”. Già Martin Buber, filosofo e teologo ebreo, aveva scritto in proposito: “Dio è la parola più vilipesa di tutte le parole umane. Nessuna è stata tanto disonorata, tanto mutilata […] Le generazioni umane hanno riversato su questa parola il peso della loro vita tormentata fino a schiacciarla contro il suolo. Giace nella polvere e ne sostiene il peso. Le generazioni umane, con i loro patriottismi religiosi, hanno lacerato questa parola. Hanno ucciso e si sono fatte uccidere per essa. Questa parola porta le loro impronte digitali e il loro sangue. Gli uomini disegnano un fantoccio e ci scrivono sotto la parola ‘Dio’. Si assassinano gli uni gli altri e dicono ‘lo facciamo in nome di Dio’. Dobbiamo rispettare quelli che proibiscono questa parola, perché si ribellano contro l’ingiustizia e gli eccessi che con tanta facilità si commettono con una presunta autorizzazione da parte di Dio”.

Se Buber si richiama al dettato giudaico che mantiene un profondo riserbo sul nome di Dio, Kurt Marti invece, pur denunciandone la “passione”,non rinuncia a nominarlo e lo fa da poeta, esplorando le possibilità del linguaggio in quanto spesso, anche su Dio, occorre trovare parole nuove che sappiano ridestare l’attenzione. Il tema scelto per i suoi testi è il legame tra la parola Dio e l’esperienza umana – rivelazione e incarnazione. È così che allora leggiamo questi versi di lode, con i quali ci suggerisce di guardare al cosmo – astri, mari, sole – con riconoscenza, pregando.

 

loda la serietà mortale

che torna a casa nel gioco divino

 

Con il “gioco divino”, il pastore poeta richiama l’immagine del Deus ludens, del Dio creatore che gioca nella misura in cui la creazione è riconosciuta come atto non necessario – da qui discende pure il Gesù Bambino raffigurato, nell’arte medioevale, a reggere il globo tra le mani come si trattasse di un balocco.

 

Pinturicchio, Gesù Bambino delle mani

 

loda mohammed e marx

a colloquio un giorno a mensa gioiosa

loda buddha e einstein

il violino sull’albero la risata serale

 

Sono naturalmente parte dell’esperienza umana anche i non credenti e i diversamente credenti– qui rappresentati dalle figure di uomini notevoli, radunati in un dialogo felice nella condivisione della mensa. Ma citati questi, si torna alle persone qualunque, quelle che noi siamo.

 

loda delle vegliarde il cordiale coraggio

le audaci rivolte di speranza divina

 loda le eresie dell’amore

e la loro risurrezione dalla morte

 

Quasi prese casualmente nel mazzo delle possibilità, in questi versi si loda e dunque si prega per la vecchiaia – il cui coraggio è segno di speranza divina – e per l’amore – persino quello eccessivo e sbagliato, capace di infondere vita laddove non c’era che morte.

 

loda il dio nel ventre della fanciulla

il santo embrione del nostro futuro

loda il giorno in cui caldo e come estate

natale eromperà sulla terra

 loda la notte in cui il fratello di nazareth danza

nel mezzo di una società finalmente senza signori

 

In mezzo all’ordinario dell’umano vivere irrompe lo straordinario di Dio che si fa embrione nel ventre di una fanciulla, in un giorno caldo – forse perché l’estate è epoca di raccolto. Ma non si tratta del Natale del primo Avvento, che non mancava di “signori”. Una società senza potere mondano sta invece in un orizzonte da fine dei tempi, quelli del secondo Avvento. E in quella notte “il fratello di nazareth danza”…

Danza come la sapienza divina, fanciulla che si diletta danzando e giocando dinanzi a Dio creatore, deliziandolo ogni giorno con la sua presenza (Pr 8,30-31).

 

Chagall, La danza di Myriam

 

Danza come il grande re Davide, che non disdegna di saltare davanti all’arca dell’alleanza (2Sam 6,21).

Chagall, Re David in blu

 

Danza come la Trinità, che si muove in una danza nuziale –detta pericoresi in linguaggio teologico – che dice il “girare attorno”, in cui l’Uno si muove verso l’Altro (come nell’icona di Rublev), in un’armonia d’amore che si apre all’uomo.

 

Rublev, La Santa Trinità

 

In mancanza di parole che sappiano dire Dio, ma non potendo tacerlo, Marti ci consegna immagini da visualizzare e per le quali riconoscere il segno di un Dio che si è fatto embrione e che ha attraversato tante di queste nostre storie. Alcune le ha toccate, da altre si è lasciato a sua volta toccare – altrettante ragioni per alzare la nostra lode gioiosa. E danzare.

 

Perché cercarmi tanto?

Scritto da NORMA ALESSIO.

I personaggi che animano dipinti e sculture comunicano “parlando” attraverso il linguaggio del corpo. Le parole non pronunciate sono efficacemente sostituite da gesti, pose, espressioni. I gesti espressivi, che includono i movimenti e le posture di mani, braccia, piedi e gambe, nelle opere artistiche connotano per lo più stati interiori, sentimenti, emozioni, che letti nella loro globalità possono servire a rivelare il ruolo del personaggio. In particolare le mani svolgono spesso una funzione importante nella comunicazione dei significati, che vanno a completare l’espressione del volto, la postura della figura, la sua posizione nel contesto figurativo e tutti gli elementi che costituiscono la struttura dell’immagine.

Negli esempi seguenti, dove già il racconto stesso riporta alcuni sentimenti dei personaggi, invito a porre particolare attenzione proprio a questi aspetti. L’episodio evangelico che prendo in considerazione è quello narrato nel secondo capitolo di Luca sulla permanenza di Gesù al tempio di Gerusalemme all’insaputa dei genitori :

Dopo un giorno di cammino, si misero a cercarlo tra parenti e conoscenti. Non riuscendo a trovarlo, ritornarono a cercarlo in Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio: era là, seduto in mezzo ai maestri della Legge: li ascoltava e discuteva con loro. Tutti quelli che lo udivano erano meravigliati per l’intelligenza che dimostrava con le sue risposte. Anche i suoi genitori, appena lo videro, rimasero stupiti, e sua madre gli disse: – Figlio, che cosa ci hai combinato? Vedi, tuo padre e io ti abbiamo tanto cercato e siamo stati molto preoccupati per causa tua. Egli rispose loro: – Perché cercarmi tanto? Non sapevate che io devo stare nella casa del Padre mio? Ma essi non capirono il significato di quelle parole” (Lc 2,44-50).

 

Simone Martini, 1342

 

Simone Martini nella tavola, dipinta nel 1342 (resto di un trittico e custodita nella Walker Art Gallery di Liverpool) conosciuta con il titolo di “Sacra Famiglia ” ma che dovremmo invece intitolare “Maria rimprovera Gesù dodicenne ”, rappresenta il momento successivo alla disputa di Gesù coi dottori del Tempio, con un’iconografia alquanto rara nella pittura italiana. L’artista ritrae i tre protagonisti della Sacra Famiglia, evidenziando le loro reazioni in seguito al ritrovamento di Gesù, dopo tre giorni di ricerca angosciata da parte di Maria e Giuseppe, nel momento del rimprovero dei genitori. Gesù appare imbronciato, le braccia conserte che esprimono un’attitudine di ascolto al rimprovero. Maria con una mano tiene un piccolo libro di preghiere e con l’altra, aperta, sembra ammonire il figlio; Giuseppe è dispiaciuto, conduce Gesù davanti alla madre e Maria stessa, con volto severo e mano autoritaria spiega al “ragazzino” che il suo comportamento li ha fatti soffrire. Simone Martini rappresenta in modo insolito, con realismo, una normale scena di conflitto di relazione famigliare, tanto che chi osserva l’opera è veramente aiutato a riconoscere la reale umanità assunta dal Figlio di Dio.

 

Albrecht Durer, 1506

 

Anche nel quadro di Albrecht Durer, dipinto nel 1506 e conservato a Madrid nel Museo Thyssen-Bornemisza, Gesù si impone allo sguardo: l’ ambientazione naturalistica o architettonica è assente e nessuna scena  è sullo sfondo. Gesù è raffigurato nell’atto di computare, non semplicemente contando, bensì argomentando con le dita, con cui indica il numero della sua argomentazione: l’indice e il pollice della destra afferrano un dito della sinistra, come il gesto dell’insegnante, del precettore. I dottori della legge, tutti in primo piano e riconoscibili dai versetti della Bibbia portati sulla fronte, manifestano i sentimenti dell’animo con le espressioni dei loro volti, che dimostrano stupore, meraviglia, perplessità e forse disagio, segnalando attraverso i gesti delle mani nervosismo e confusione per la conoscenza delle dottrina della Fede di questo adolescente speciale. Sono mani nodose, che hanno confidenza con i testi biblici, tre di essi reggono grossi volumi delle Sacre Scritture, mentre un quarto con il movimento delle dita sembra riflettere; altri due negli angoli a destra e a sinistra, ascoltano, mentre il dottore, appena dietro a Gesù, in penombra, tiene un tomo aperto. Perfino gli occhi di alcuni denotano perplessità, dubbi nell’ascolto di Gesù.

Lattanzio Gambara, metà del XVI secolo circa

 

L’ultima opera è del pittore bresciano Lattanzio Gambara, un affresco della seconda metà del XVI secolo che troviamo nella Chiesa del Santissimo Corpo di Cristo a Brescia. Gesù è raffigurato nel Tempio con il corpo rivolto verso i dottori della legge, ma con il busto ruotato e lo sguardo verso i genitori; le braccia aperte orizzontalmente con l’indice della mano destra puntato sulla scena dello sfondo e la sinistra aperta che indica il presente, adesso.Proprio nella scena sullo sfondo sono raffigurati un povero che chiede l’elemosina e un uomo mentre è alla ricerca nel borsellino di qualcosa da lasciargli, sta a rappresentare il compito di Gesù: lo svelarsi della sua vocazione e il profilarsi del suo progetto di vita in continuità con ciò che rappresenta l’antico testamento. I genitori Giuseppe e Maria a sinistra con le mani aperte pronte ad accoglierlo nuovamente nonostante tutto.

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  • In copertina: Mani, particolare da Ritorno di Gesù dal Tempio, di Simone Martini

Dopo Auschwitz

Scritto da MARIA NISII.

 

Dopo Auschwitz non c’è teologia:
dai camini del Vaticano si leva fumo bianco,
segno che i cardinali hanno eletto il papa.
Dalle fornaci di Auschwitz si leva fumo nero,
segno che gli dei non hanno ancora deciso di eleggere
il popolo eletto.

 

Dopo Auschwitz non c’è teologia, ovvero non è possibile un discorso su Dio – sostiene Yehuda Amichai (Germania 1924 – Israele 2000), tra i massimi poeti di cultura ebraica, se non il maggiore, secondo alcuni. Come altri ebrei[1], è emigrato in Palestina negli anni ’30, fintanto che era ancora possibile. Prima viveva in Germania, ma tornerà in Europa a combattere durante la seconda guerra tra le file dell’esercito inglese.

La shoah ha rappresentato una cesura per la storia del popolo ebraico – dopo niente è più stato lo stesso. In Dopo Auschwitz si rinvengono alcuni dei tratti di quel ripensamento, che qui si esprime in versi, nonostante lo scetticismo di alcuni[2] o forse proprio a partire da quella sfida. Al vertice del ripensamento troviamo Dio, come ripensarlo, dirlo, crederci.

“Dopo Auschwitz non c’è teologia…”: se dopo Auschwitz non sembra possibile un discorso su Dio, dai luoghi in cui la teologia è ancora praticata – la Chiesa, il Vaticano – si leva una fumata bianca. E questa fumata viene contrapposta al fumo nero dei forni crematori, luogo del silenzio di Dio. Il contrasto del colore dei fumi vuole dire l’opposizione inconciliabile tra le due situazioni: il bianco è segno di elezione avvenuta, il nero nega un’elezione che c’è già stata -da tempo immemore, come raccontato nella Bibbia, secondo cui il popolo ebraico è il popolo eletto, scelto, designato da Dio tra tutti i popoli della terra.

Nel luogo del fumo bianco si parla di Dio, nei luoghi del fumo nero di Dio non si può parlare e Dio stesso ha taciuto. Il plurale della divinità sembra accoppiato col plurale di cardinali: gli uni non hanno ancora deciso di eleggere, mentre gli altri eleggono. Un accostamento che contrasta ancor di più rispetto al colore dei fumi e che rimarca l’assenza del divino, riducendolo al rango cardinalizio.

 

Dopo Auschwitz non c’è teologia:
le cifre sugli avambracci dei prigionieri dello sterminio
sono i numeri telefonici di Dio
da cui non c’è risposta
e ora, a uno a uno, non sono più collegati.

 

“Dopo Auschwitz non c’è teologia” si ripete all’inizio di ogni strofa, ma in questa seconda cambia il segno. Prima era il colore del fumo, immagine di un’elezione, ora si tratta dei numeri sugli avambracci, marchio del prigioniero, che riduce l’uomo a bestia.

“In principio” tutto è sgorgato dalla parola divina e Adamo ha dato un nome al mondo esistente, proseguendo la tradizione del linguaggio verbale. Adesso i numeri imposti sulle braccia degli uomini sembrano rappresentare un imbarbarimento di quella nominazione primigenia. Allo stesso modo anche a Dio non ci si rivolge più con la comunicazione interiore, ma cercando un ausilio tecnico.

In questa strofa il contrasto gioca sull’immagine del numero: il nome che ogni prigioniero doveva imparare immediatamente (perché era con quello che veniva chiamato all’appello e non rispondere poteva significare la morte); e il numero a cui Dio non risponde o che non chiama (già che non elegge)[3], perché si è perduto il collegamento. Ma ancor più forte è il legame tra il numero-nome del prigioniero ridotto a bestia e il numero in grado di mettere in contatto con il divino: un’impronta del divino tatuata come visione aberrante e grottesca della creazione a immagine.

 

Dopo Auschwitz c’è una nuova teologia:
gli ebrei morti nella Shoah
somigliano adesso al loro Dio
che non ha immagine corporea né corpo.
Essi non hanno immagine corporea né corpo.

 

La terza strofa modifica parzialmente il ritornello: “Dopo Auschwitz c’è una nuova teologia”, ovvero torna a essere possibile il discorso su Dio, ma questo dovrà essere diverso, segnato dall’evento traumatico che si è verificato.

In quest’ultimo passaggio si sviluppa meglio il tema già suggerito in precedenza a proposito della creazione dell’uomo “a immagine e somiglianza”. Se prima il contatto Dio-uomo era nel segno del tatuaggio impresso sul braccio, ora si tocca il fondo: la somiglianza con il divino è nei cadaveri; l’immagine, invece, è nella negazione del corpo.

Il secondo comandamento vieta di farsi immagine di Dio, di antropomorfizzarlo, perché appunto Dio non ha immagine corporea né corpo. In questo senso allora quei corpi defunti gli somigliano, in quanto a loro volta non sono più umani – privati di ogni dignità già in vita, tanto più deprivati di un corpo riconoscibile da morti.

Ancora una volta il significato passa dall’effetto che le parole e le immagini producono su di noi – e ogni lettura, interpretazione è una piccola forzatura (e di questo chiedo venia). I versi chiedono di essere letti e riletti, perché agiscano in noi. E qui l’effetto è potente, deflagrante – come le immagini della shoah. Ma le immagini suggerite dalla poesia sono solo evocate dalle parole e dunque sono le nostre immagini personali ad agire (per questo, come eccezione rispetto al solito, ho scelto di non inserire immagini di sorta).

Lasciamo lavorare in noi le parole.

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  • [1] Ad esempio, Zvi Kolitz che avevamo letto nel 2019 per la medesima occasione del giorno della memoria
  • [2] cfr T. Adorno – citato in “Salmo, la parola poetica dopo Auschwitz”, del 20/01/2018 – lancia la provocazione se sia ancora possibile scrivere poesia dopo Auschwitz.
  • [3] Devo questa interpretazione a un mio bravo studente, Roberto della 5T Gobetti

Chi è il Cristo per Pasolini

Scritto da DARIO COPPOLA.

Dal suo primo film Pasolini continua a rappresentare nei suoi protagonisti un “altro Cristo”, un “alter Christus”: in Accattone (1961), Mamma Roma (1962), La ricotta (1963), fino alla rilettura fuor di metafora de Il Vangelo secondo Matteo.

Passione e morte di un “altro Cristo” tornano anche in Uccellacci e uccellini (1966), Edipo Re (1967), Teorema (1968), Medea (1969), Porcile (1969), nelle due trilogie della vita (1971-74) e della morte (1975) incompiuta.

Accattone, “angelo decaduto”, inizia il suo ministero pubblico con una sorta di “battesimo”(Mt 3,13-17; Mc 1, 9-11; Lc 3, 21-22) nel Tevere. Egli  sopravvive e “bivacca” con gli amici-discepoli, finché una prostituta, chiamata proprio Maddalena  (col suo contraltare dal nome simbolico Stella), ne determina la sorte, fino alla di lui ultima cena (Mt 26, 20-30; 14 17-26; Lc 22, 14-39) in casa, nella quale beve del marsala. L’ultima corsa in moto di Accattone, per evitare l’arresto (Mt 25, 45-56; Mc 14, 43-52; Lc 22, 47-53; Gv 18, 1-11), è verso il suo “calvario”: la sua opera di redenzione fallisce.

 

 

Roma Garofolo è una prostituta, che vuole essere redenta, in rapporto con quel che lei definisce “il re dei re” (Ap 19, 16), identificandovi il Cristo rappresentato in una chiesa. Possibile è, dato il manierismo citazionista pasoliniano, un riferimento al kolossal di N. Ray, uscito nel 1961, Il re dei re, ispirato al Messia.

Mamma Roma vuole il riscatto e il prestigio sociale: questo è il suo errore. Non capisce che il vero Cristo è l’alter Christus che le sta accanto, il figlio. Lo vuol trasformare in un borghese. Questa redenzione fallisce. Ettore, il figlio, vaga disorientato, non consuma neanche la sua ultima cena perché la serve come cameriere agli altri in un’osteria (è la sua lavanda dei piedi (Gv 13,1-20). La febbre lo colpisce, mentre cerca espedienti per sopravvivere a discapito di altri malati come lui in un ospedale, e lo costringerà a morire sul  letto di contenzione come crocifisso.

 

Non è certo un Cristo grandioso, regale, magnificente che Pasolini preferisce. «[…]Alla domanda “Per lei chi è Gesù?” […]» Pasolini «risponde: “Come archetipo di ogni possibile rapporto col mondo è il più alto che io conosca”»

Si può collegare questa all’altra dichiarazione pasoliniana: «la storia della passione è la più grande che io conosca». Pasolini si dichiara non credente, ma è interessato visceralmente e intellettualmente al Cristo. Per lui l’uomo, e non solo il cristiano, è chiamato a essere un “alter Christus”. La grandezza di Cristo sta nella sua incarnazione nella povertà e nella sofferenza.

 

Il regista, dopo la terza revisione de La ricotta, fu invitato a parlare di cinema il 4 ottobre 1962 dai francescani ad Assisi, per la sua amicizia col fondatore dell’associazione Pro Civitate Christiana. Tuttavia, il suo intervento fu cancellato perché arrivò lì Giovanni XXIII a sorpresa,  di ritorno da Loreto. Il regista fu invitato ad andare dal Papa, ma non vi andò e rimase in una cella del convento. Lì maturò una scelta e disse: «Farò un film sul Vangelo di Matteo. L’ho deciso dopo aver letto […] il libretto […] trovato sul comodino. Però dovete aiutarmi, io non sono un credente». Disse: «Per me è vitale fare un film sul Vangelo di Matteo. Non riesco a pensare ad altro. Però […] se lo realizzo da solo […] chissà quante eresie ci infilerei pur non volendo».

Subini mette in luce come la sceneggiatura de La ricotta profetizzi l’oggetto filmico del progetto futuro. Il film-nel-film, all’interno de La ricotta, venne da quel momento sul set già chiamato “la cronaca di s. Matteo”.

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  • Le citazioni virgolettate sono tratte da :

Subini T., Pier Paolo Pasolini. La ricotta, Lindau, Torino 2009, 85.

Guidi S., «Quell’incontro mancato tra Pasolini e Roncalli», in L’Osservatore Romano 31 agosto 2014, 5.

  •  Siamo riusciti a trovare il ” libretto sul comodino” letto  e citato da Pasolini e, al momento opportuno, ne pubblicheremo qui la citazione e la foto.( NdA)

 

 

 

 

 

Il misterioso Gluck di Pasolini

Scritto da DARIO COPPOLA

 

Pasolini narra ne La ricotta – come anche in Accattone, Mamma Roma, Uccellacci e uccellini – una parabola. Anche se non annuncia una buona notizia (tutt’altro), Pasolini – con le sue parabole – segue però lo stile evangelico: la forma è anche sostanza e così il regista friulano finisce per annunciare il vangelo stesso. La sua voce fuori campo legge il cartello introduttivo de La ricotta: «La storia della passione […] (di Cristo, ndr) è per me la più grande […] mai accaduta e i testi che la raccontano i più sublimi […]» (Mt 26-27; Mc 14-15; Lc 22-23; Gv 18-19). Le parabole contengono misteri ed enigmi…

 

Ispira la trama de La ricotta un fatto reale: nella realizzazione del celebre film Barabba (di Richard Fleischer,1961, dal romanzo di Pär Lagerkvist. , ispirato a Mt 27, 16; Mc 15, 7; Lc 23, 19; Gv 18, 40) una comparsa accusò un malore a causa del freddo.

La ricotta inizia con un twist che fa da ossimoro alla musica colta, scelta in collaborazione con Rustichelli. Altri brani scelti da Pasolini sono: Largo dal Concerto in re maggiore per oboe, tromba e fagotto di Biscogli (scena del Calvario); la sequenza per la Messa dei defunti  Dies iræ dies illa di Tommaso da Celano, suonata da una fisarmonica;

l’aria Sempre libera degg’io da La Traviata di Verdi, che fa da tormentone in una riduzione per fanfara e pianoforte.

Un refrain è la citazione del film L’Eclisse (1962) di Antonioni, in una versione strumentale di Eclisse Twist di Fusco, con testo dello stesso Antonioni, per lui eseguito da Mina; Pasolini lo utilizza durante la sua poesia Io sono una forza del passato, letta da Welles in un libro che cita Mamma Roma (1).Sigla de La ricotta è il Rogopag Twist di Rustichelli.

Infine, il primo tableau vivant di Rosso Fiorentino è associato alla Sinfonia dalla Cantata profana Sulle sponde del Tebro di Scarlatti.Tutti i brani musicali citati – copiosi, come il manierismo richiede – sono stati individuati dagli analisti de La ricotta. Tutti eccetto uno: il brano di Gluck. Scrive Subini nel suo saggio sul film pasoliniano: «In realtà il brano musicale corrispondente al tableau di Pontormo non è ancora stato identificato. La letteratura al riguardo, quando non è errata, è lacunosa. G. Magaletta ( La musica dell’opera letteraria e cinematografica di Pasolini, Quattro Venti, Urbino 1997, p. 251) elude il problema facendo riferimento a un generico “brano ‘classico’” dalla “melodia struggente”. L. Miccicchè (Pasolini nella città del cinema, Marsilio, Venezia 1999, p. 150) identifica scorrettamente il brano con il Concerto di […] Biscogli, che in realtà risuona nella sequenza precedente […] Calabretto (Pasolini e la musica, Cinemazero, Pordenone 1999, p. 387) […] sbaglia, confondendo i […] brani dei due tableaux, laddove si riferisce ai momenti della Cantata di Scarlatti che accompagnano la Deposizione del Pontormo. A nostro avviso la ricerca dovrebbe indirizzarsi verso Gluck per il semplice fatto che a Gluck si riferisce la voce fuori campo dell’aiuto regista, dettaglio non trascurabile che nessuno dei testi sopra citati ha preso in considerazione» (2)

Devo ringraziare il saggio del prof. Subini per avermi stimolato a ricercare il misterioso brano di Gluck mentre stilavo la mia tesi di baccalaureato nel 2017. Sono lieto di comunicare che ho trovato, in quella circostanza, il brano misterioso attribuito a Gluck.

La pista suggerita da Subini non è stata quella giusta: ho ascoltato gran parte dell’opera omnia di Gluck… finché la tecnologia mi ha salvato: un amico – Marco Bianchi (che ancora ringrazio) – vedendomi spossato dalla ricerca, attraverso Shazam, mentre eravamo per caso su Skype, mi ha trovato il brano in un minuto : si tratta della Sonata n. 5 per viola d’amore e clavicembalo di Attilio Ariosti.

Pasolini si è beffato ancora dei critici e ha creato un enigma, un mistero che, grazie alla tecnologia,  sono riuscito a svelare.

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(1)      Pasolini P. P., Poesie, Garzanti, Milano 1975, 123-124.

(2)      Subini T., PierPaolo Pasolini. La ricotta, Lindau, Torino 2009, 112.

  • Ecco la sequenza  del film di cui si tratta :

  • Ed ecco il brano musicale di Ariosti, nella esecuzione dal Concert “Pérola barroca” at the Art Museum Riga Bourse on September 24, 2016.

 

 

 

[1]            Pasolini P. P., Poesie, Garzanti, Milano 21975, 123-124.

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[1]          FilmBarabbadi Richard Fleischer, dal romanzo di Pär Lagerkvist.

A un furbo, un furbo e mezzo

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

 

La visita dei Magi a Betlemme si conclude con un fuori programma: “avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese” (Mt 2,12). Sebbene la tradizione li consideri dei sapienti (in inglese la cosa è ancora più evidente essendo indicati come “Wise Men”), i Magi non dimostrano particolare sagacia se non si sono accorti di che furfante sia il sovrano e qualche notizia avrebbero ben potuto raccoglierla chiacchierando con qualcuno dei suoi sudditi. Così appare strano che abbiano bisogno di una dritta ricevuta in sogno per prendere questa decisione. Ma la cosa si comprende meglio se pensiamo che Matteo vuole farci capire che il regista di questa burla ai danni di Erode si rivela essere Dio stesso. Erode aveva simulato un reale interesse religioso verso il presunto re dei Giudei, celando così le sue vere intenzioni, cioè di sbarazzarsi al più presto di questo potenziale concorrente. I Magi potevano ignorare questo inganno, ma Dio veglia sulle sorti del Bambino e agisce di conseguenza.

 

 

Massimo Popolizio nei panni di Re Erode in ” Il Primo Natale“, 2019, di Ficarra e Picone

 

 

A dire il vero non è la prima volta nella Bibbia che si diverte alle spalle di qualche gradasso. Gli egiziani avevano tormentato il popolo ebraico sottoponendolo ai lavori forzati, ma poco prima di fargli lasciare il paese Dio suggerisce ai suoi protetti di farsi “prestare” dai vicini egiziani oggetti d’oro e d’argento, che ovviamente non restituiranno mai e saranno una sorta di indennizzo per i patimenti subiti (Es 11,2-3).

Una beffa elaborata è quella che troviamo in 1Re 22,1-38. I re di Giuda e di Israele decidono di muovere un attacco al re di Aram e consultano i profeti per comprendere se la loro iniziativa avrà successo o meno. I profeti di corte annunciano un grande successo, ma per sicurezza viene convocato anche Michea figlio di Imla, noto come profeta di sventure… Michea dapprima sta al gioco e pronostica una grande vittoria, ma poi diventa serio e annuncia la sconfitta. Interessante è la spiegazione che dà all’opinione espressa dai suoi colleghi: è stato Dio stesso a confonderli per ingannare i due re. Verrebbe da pensare che ora Dio si sia pentito della burla e che grazie al saggio consiglio di Michea i due re se ne staranno buoni buoni e invece al v.29 ci viene detto che i due re marciarono incontro alla disfatta… Qui il Signore sembra volersi divertire alle spalle di chi è così testardo da non voler seguire i giusti consigli anche quando sa che dovrebbe fidarsi.

 

 

Neppure Gesù è estraneo a scherzetti ai danni dell’Avversario. Nell’episodio dell’esorcismo dell’indemoniato geraseno (Mc 5,1-20) Gesù appare stranamente condiscendente alla richiesta di Legione di permettergli di prendere possesso di una mandria di porci dovendo sloggiare dall’uomo che aveva tormentato a lungo. In realtà Gesù sa benissimo come andrà a finire, con la mandria che si precipita nel dirupo e distrugge definitivamente il demonio.

 

In un certo senso anche la Passione di Gesù risponde a questa logica. Il Principe di questo mondo pensa di eliminare Gesù con la morte, ma in realtà questa diventa l’occasione per distruggere la morte tramite la Risurrezione e l’apparente sconfitta di Gesù si trasforma nella vittoria definitiva sul male. Chi voleva uccidere è rimasto ucciso.

La morale che soggiace a questi episodi è piuttosto semplice: nonostante gli sforzi di alcuni per trarre vantaggio dalle situazioni per il proprio interesse, Dio si rivela più scaltro di loro e ritorce contro i malvagi la loro stessa astuzia.

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  • In copertina: Peter Ustinov nei panni di Erode in ” Gesù di Nazaret” di Franco Zeffirelli, 1977

Il “TE DEUM” di Puccini

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

Tra poche ore si arriva al giorno di San Silvestro, l’ultimo dell’anno, e in molte chiese, segnatamente quelle cattedrali, verrà come da tradizione intonato il TE DEUM. Questo è l’inno di ringraziamento per eccellenza, cantato in particolari circostanze per ringraziare il Signore: in questo caso, dell’anno appena concluso. Tradizionalmente veniva attribuito a san Cipriano di Cartagine, oggi gli specialisti attribuiscono la redazione finale a Niceta, vescovo di Remesiana (Dacia inferiore) della fine del IV secolo. L’inno si compone, tecnicamente, di tre parti: la prima  è una lode trinitaria indirizzata al Padre,la seconda è una lode a Cristo Redentore, l’ultima è un seguito di suppliche e di versetti tratti dal libro dei salmi.

Il Te Deum è stato musicato molte volte nel corso dei secoli: lo hanno fatto Giovanni Pierluigi da Palestrina, de Victoria, Händel, Mendelssohn, Mozart, Haydn e Verdi. Ma un caso tutto particolare merita di essere citato, ed è quello di Giacomo Puccini, che inserisce proprio questo inno  nel finale dell’Atto primo di Tosca, facendolo intonare dal coro, in duetto con una  parte solista del protagonista Scarpia.

Ora, Tosca è fondamentalmente un cupo melodramma, come tutti i melò nutrito da intrighi , passioni, fatti di sangue. Ma, per la sua stessa ambientazione ( la vicenda si svolge a Roma dopo la caduta della prima Repubblica Romana, il martedì 17 giugno 1800, qualche giorno dopo la battaglia di Marengo) è pervasa da un doppio rimando continuo alla dimensione religiosa:  una prima  dimensione che potremmo definire di regime, evidentissima da subito, in cui la Roma dei papa re fa da sfondo incombente e pervasivo, con i suoi luoghi, i suoi funzionari, la sua polizia, la sua attività repressiva dell’ attività rivoluzionaria dei “patrioti” sconfitti . Qui il viluppo tra politica e religione è a tal punto intenso, che i simboli della religione cristiana  sono al contempo quelli del potere, anzi, dello strapotere della Chiesa-stato. L’altra dimensione, più individuale, è quella di una religiosità popolare e di contesto, più devozionale che di sostanza, un fatto più di abitudine sociale che di fede vera e propria, come la figura del sagrestano, dei ragazzini in chiesa, del popolo che partecipa , ben manifestano. La stessa sensibilità religiosa di Floria Tosca pare perlopiù appuntata su atteggiamenti devoti e fortemente personalistici, e la sua celebre lamentazione “ Vissi d’arte, vissi d’amore, Non feci mai male ad anima viva….nell’ora del dolore perché perché Signore me ne remuneri così” sembra piu’ una ingenua e umanissima protesta di chi è braccato in quel momento dalla vita, che un atto di consapevolezza cristiana compiuto.

 

(Ascolta a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=jgLQ-9C1H90  )

 

La commistione inestricabile tra religione e potere, tra luoghi di preghiera e attività poliziesca viene magistralmente espressa nel finale del primo atto, dove Puccini, appunto, inserisce  il canto del Te Deum, celebrato in questo caso per ringraziare solennemente Dio per la sconfitta di Bonaparte alla battaglia di Marengo. Il colpo di teatro sta nel fatto che l’inno religioso, che Scarpia, cattivissimo capo della polizia, è venuto a ordinare al sacrista,( si appresti il Te Deum) si sviluppa, mescolandosi a gomitolo,  parallelamente al suo  luciferino piano repressivo ( l’uno al capestro, l’altra tra le mie braccia)  alla gelosia di Tosca appositamente stuzzicata a fini polizieschi, (Va, Tosca!
Nel tuo cor s’annida Scarpia!..), e  al crescere della  passione divorante che Scarpia sente accendersi  nei confronti della donna  ( Tosca, mi fai dimenticare Iddio!).

Così, sulla scena e con l’orchestra, fondendo versi sacri e note carnali, tocchi di campana  e grida di desiderio, Puccini riesce ad esprimere al nostro udito e alla nostra vista, un intreccio  devastante di sentimenti contrastanti, che a leggerli riassunti in prosa, non danno lontanamente l’idea del clima di angoscia  e di oppressione, di ansia e di violenza che la sua opera riesce invece a rappresentarci.

 

Ascolta il Te Deum a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=v50LokytSeI

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  • Video tratti dalla Registrazione Rai della “Tosca al Teatro alla Scala, 7 Dicembre 2019 – Direttore: Riccardo Chailly – Regia: Davide Livermore – Scarpia : Luca Salsi – Tosca: Anna Netrebko

Hagar, il nostro capitano

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

«Hagar è una schiava», dice la donna che ha delle ciocche castane che le fuoriescono dal foulard verde.

«Non mi importa cosa dice la Bibbia, la mia di Hagar, il mio capitano, non è la schiava di nessuno».

Il giorno 8 dicembre, nel corso di Più libri più liberi, la fiera della piccola editoria che si tiene ogni anno  a Roma, è stato ufficialmente presentato  “HAGAR, IL NOSTRO CAPITANO – La schiava di Abramo”, il nuovo libro della collana «Scrittori di Scrittura», pubblicata da Effatà Editrice. Secondo quanto prevede il progetto editoriale, promosso dall’Ufficio di Pastorale della Cultura della Diocesi di Torino in collaborazione con la Facoltà Teologica di Torino e Amici Torino Spiritualità, anche questa opera presenta al pubblico la riscrittura di un brano biblico secondo la sensibilità e l’ispirazione dell’autore. Pure questo volume, come tutti gli altri, è corredato della breve introduzione esegetica di un biblista e della traduzione del testo originale dall’ebraico o dal greco.

 

 

In questo caso, è IGIABA SCEGO a cimentarsi con la sfida della riscrittura, raccolta e sviluppata in un un racconto al femminile, che porta il lettore nell’Africa contemporanea. La storia prescelta e sottostante al racconto, come riportato nel sottotitolo, è quella di Hagar, la schiava di Abramo, raccontata in Genesi ai capitoli 16 e 21.

Sara, sterile, non riuscendo a dare un figlio al marito Abramo, gli offre la propria schiava, una straniera di nome Hagar, con l’obiettivo di garantirgli un erede: che viene difatti concepito e nascerà, col nome di Ismaele. Ma le cose progressivamente si complicano. Rimasta incinta, Hagar perde ogni rispetto per la sua padrona, che finisce col maltrattarla. Successivamente, quando anche Sara riuscirà a generare suo figlio, Isacco, vedendolo scherzare col fratellino, sarà travolta da  una  rabbia indomabile, al punto che Abramo sarà costretto ad allontanare sia Hagar che Ismaele. Entrambi rischieranno la morte nel deserto, ma verranno salvati per intervento di un angelo del Signore.

Come si vede, e come spesso capita con le storie narrate dalla Bibbia, si tratta di una vicenda dura, anche cupa, passionale, istintuale, in cui i progetti degli uomini e i progetti di Dio viaggiano su piani diversi e spesso conflittuali. Vicenda che sorprendentemente si carica, all’orecchio di un lettore o ascoltatore contemporaneo, di molti echi che rimandano all’attualità: la schiavitù, la maternità surrogata, l’emarginazione, il rifiuto dello straniero, per citarne alcuni.

Non stupisce per nulla quindi, che Igiaba Scego sia stata colpita proprio da uno di questi temi, quello della schiavitù, sul quale, per sua ammissione, la scrittrice sta molto lavorando in questo periodo: anche se quella di cui si sta occupando è in realtà  la schiavitù mediterranea.

In una intervista raccolta da TV 2000 per la trasmissione Terza Pagina, la scrittrice dichiara:

Ho ripreso i personaggi e le situazioni della Bibbia, ma li ho portati in un “paese X” africano, in guerra civile, dove le donne sono costrette da limitazioni sociali. Ho preso dalla Bibbia questa figura, quella di una donna schiava. Si parla sempre di altro, quando si parla di Hagar, ma non si parla di schiavitù. A me interessava invece mettere l’accento proprio su questo aspetto. La mia è una trasposizione molto spericolata, ma io spero che piaccia. Sono stata  attenta e sensibile verso il testo sacro, ma non ho voluto fare un commento alla storia biblica – come avrei potuto – quanto riprendere le tematiche che erano nascoste dentro la storia biblica e modernizzarle, in qualche modo. Anche se, in realtà, la storia di Hagar è già di suo molto moderna.” (1)

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  • Igiaba Scego è nata in Italia da una famiglia di origini somale. Dopo la laurea in Letterature straniere presso la Sapienza di Roma, ha svolto un dottorato di ricerca in Pedagogia all’Università di Roma Tre e si occupa di scrittura, giornalismo e di ricerca incentrata sul dialogo tra culture e la dimensione della transculturalità e della migrazione. Collabora con molte riviste che si occupano di migrazioni e di culture e letterature africane tra cui «Latinoamerica», «Carta», «El Ghibli», «Migra» e con alcuni quotidiani come «la Repubblica», «il manifesto»,  e «Internazionale».

Nel 2003 ha vinto il premio Eks&Tra di scrittori migranti con il suo racconto Salsicce e ha pubblicato il suo romanzo di esordio, La nomade che amava Alfred Hitchcock.

Nel 2007 ha curato assieme a Ingy Mubiayi la raccolta Quando nasci è una roulette. Giovani figli di migranti si raccontano.Storia di sette ragazzi e ragazze di origine africana, nati a Roma da genitori stranieri (o arrivati in Italia da piccoli): la scuola, il rapporto con la famiglia e con i coetanei, la religione, il razzismo, i sogni.

Ha curato dal 2007 al 2009 la rubrica di opinioni I colori di Eva, per la rivista Nigrizia.

Dal 2006 partecipa al Festival della letteratura di Mantova. Nel 2007 partecipa al workshop di WikiAfrica Così come nel 2008 in occasione delle tre tavole rotonde di WikiAfrica organizzate dalla Fondazione lettera27 . Collabora alla sezione “suoni e parole delle migrazioni” del progetto confini promosso dalla stessa fondazione .

Nel 2011, ha vinto il Premio Mondello come autrice italiana, con La mia casa è dove sono edito nel 2010 da Rizzoli.

Nel 2017 è coautrice, insieme a Ilvo Diamanti, Luigi Manconi e Pietro Massarotto del libretto “Per cambiare l’ordine delle cose“, pubblicato in contemporanea all’uscita del film del regista Andrea Segre “L’ordine delle cose”.

 

Donna Amorevole

Scritto da  MARIA NISII.

 

 

“Gli sembrò di sentire quanto fosse importante per lei sapere che nei Cieli esisteva una Donna Amorevole, sebbene ce ne fossero di così crudeli sulla terra” (Willa Cather, La morte viene per l’arcivescovo)

Willa Cather, una scrittrice poco nota in Europa ma autrice di grandi classici nel mondo nordamericano, scrive all’inizio del secolo scorso un bel romanzo, in cui racconta la storia di un vescovo francese inviato nel New Mexico a metà del 1800. E se il romanzo vale la lettura è anche grazie al protagonista, un uomo d’altri tempi ma dalla sensibilità squisita e il fine intelletto. È grazie a queste qualità che riesce a mediare, senza strappi, le difficoltà del suo ministero in un luogo in cui la fede cristiana è inestricabilmente legata a culti precedenti rivolti a divinità naturali, ma anche caratterizzata da una devozione popolare straripante di eccessi e fanatismi.

Altrettanto suscettibile a derive devozionali è l’amico d’infanzia che il vescovo ha voluto con sé, appassionatamente devoto alla Madonna e attento a discernere il suo aiuto provvidente in ogni istante. Non che il vescovo non creda ai miracoli, ma “per il suo caro Joseph i miracoli dovevano essere sempre molto diretti e spettacolari, non secondo natura, bensì contrari ad essa. Magari avrebbe anche saputo dire di che colore era il manto che Nostra Signora indossava quando aveva preso la giumenta per le briglie laggiù tra i ginepri e l’aveva guidata fuori da quelle colline prive di sentieri, proprio come l’angelo aveva guidato l’asino nella fuga in Egitto” (30).

Il mondo ritratto da Willa Cather non conosce secolarizzazione, ma al contrario è ancora impregnato dell’incanto del soprannaturale, tanto concreto quanto quella vita povera e semplice, in cui l’emergere dell’acqua è sempre un miracolo e il fumo dei focolari «sale al Cielo come incenso» (32). La sensibilità intellettuale del protagonista tenta una delicata mediazione, senza opporvi una vera resistenza e talvolta persino vinta da quella fede popolare che conserva memoria di racconti edificanti dietro ogni vicenda della storia. È così, ad esempio, per il santuario di Nostra Signora di Guadalupe, che in qualche modo rappresenta l’apparizione mariana dedicata ed esclusiva del Nuovo Mondo e dunque quasi il riconoscimento celeste della chiesa cristiana lì impiantata. «A me sembra che i miracoli della Chiesa non stiano tanto nei visi e nelle voci o nel potere curativo che ci arriva all’improvviso dall’alto, quanto piuttosto nelle nostre percezioni affinate, cosicché per un istante i nostri occhi possono vedere e le nostre orecchie sentire ciò che è sempre intorno a noi» (47), commenta infine il vescovo, persuaso dell’amorevole attenzione che quelle storie rivelano.

Nostra Signora di Guadalupe

 

Verso la conclusione del romanzo, la figura soprattutto luminosa del protagonista è presentata in un momento di oscurità spirituale. In questo frangente ombroso l’uomo è soccorso dalla profonda devozione di una vecchia serva, obbligata a celare la propria fede ai padroni protestanti e ostili al mondo cattolico, di cui una notte riesce a eludere la sorveglianza per cercare conforto in chiesa. Recatosi a sua volta nello stesso luogo e subito riconosciutala, prega ardentemente con lei tutta la notte, uscendone rinfrancato e pacificato. Quella donna anziana e maltrattata è stata capace di insegnargli il significato della misericordia femminile di Maria: «Gli sembrò di sentire quanto fosse importante per lei sapere che nei Cieli esisteva una Donna Amorevole, sebbene ce ne fossero di così crudeli sulla terra. I vecchi, che hanno subito colpi e fatiche e hanno conosciuto la dura mano del mondo, necessitano, ancor più dei bambini, della tenerezza di una donna. Solo una Donna di natura divina può sapere quanto un’altra donna riesca a sopportare» (192).

È questo volto di Donna Amorevole, capace di confortare l’afflizione di una serva, a convincere il vescovo che comprende come il solo pronunciare il nome di Maria sia per la poveretta un balsamo:“Accolse nel proprio cuore il miracolo che avveniva nel cuore di lei, vide attraverso i suoi occhi, capì che la povertà di entrambi era ugualmente tetra. Quando il Regno dei Cieli si era manifestato nel mondo, in un mondo crudele, di tortura e schiavi e padroni, Colui che lo aveva portato in terra aveva detto: «Beati gli ultimi fra voi, perché saranno i primi nel Regno dei Cieli». Questa chiesa era la casa di Sada, e lui ne era il servo” (192-3).

La Donna Amorevole non è quella dei miracoli spettacolari, sembra suggerire il vescovo. Specie perché i miracoli più grandi sono invisibili ai più. È per questo che sono segni d’amore.

 

 

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  • In copertina : Filippo Lippi, L’oratorio della Madonna dei Terremoti (1448)

 

“Ave o Maria…”

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

A continuazione del tema del post “L’annunciazione a Maria”- pubblicato sul blog il 9 dicembre 2017, https://scrittoridiscrittura.it/senza- categoria/lannunciazione-a-maria – propongo un’opera di Paul Gauguin del 1891, ora al Metropolitan Museum of Art di New York.

 

È però necessario un accenno alla vita di questo pittore moderno per riuscire a comprendere la sua arte figurativa. Gauguin nacque a Parigi nel 1848; andò dapprima in Bretagna, poi a Panama e nella Martinica e infine a Tahiti, per realizzare il suo sogno di vita e di arte selvaggia, per fuggire dalla civiltà occidentale, per ritrovare – in una natura e tra genti non rovinate dal progresso – la condizione di autenticità e d’ingenuità primitive. Nel 1893 ritorna in Francia e vi rimane fino al 1895; poi, tra l’incomprensione di quasi tutti, disgustato da Parigi, prende nuovamente la via per Tahiti, dove la decadenza fisica per la fame e le malattie si aggrava e dove tenta il suicidio. Nel 1901 va nell’arcipelago delle Marchesi nell’Oceano Pacifico e vi rimane sino alla morte nel 1903.

Paul Gauguin aveva una buona conoscenza della Bibbia avendo frequentato, anche se brevemente (1859-1862), il seminario minore di Orleans. Per tutta la vita si è riferito ad esso, nella sua pittura e nei suoi numerosi scritti. Fu influenzato anche dal protestantesimo, a seguito di letture e incontri che stimolarono la sua riflessione o ampliarono la sua visione, portandolo  anche a enfatizzare il ruolo delle donne nei suoi dipinti. Il  pittore rifletterà a lungo sulle affinità tra il cristianesimo e le religioni indigene e sulle loro differenze, scrivendone nel suo manoscritto L’Église catholique et les temps modernes: un attacco alla Chiesa cattolica, accusata di «falsificazioni e imposture» in quanto avrebbe tradito lo spirito originario del Cristianesimo. Secondo Gauguin esiste un’unica verità in tutte le religioni, dal momento che tutte sarebbero fondate su uno stesso modello primordiale, dal quale si sarebbero poi differenziate. Si tratta allora di recuperare il significato autentico della dottrina cristiana «corrispondente così esattamente e anche in modo grandioso alle aspirazioni ideali e scientifiche della nostra natura», come egli stesso scrive, attuando così «la nostra rigenerazione».

 

 

Ecco che in “Ia Orana Maria”, il cui titolo è stato scritto dallo stesso autore sulla tela in lingua polinesiana, fa pensare alla più diffusa preghiera rivolta alla Vergine nella Chiesa cattolica, tratta dal Vangelo di Luca (1,28): “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te …”, le parole  rivolte dall’arcangelo Gabriele a Maria quando le annuncia la futura nascita di Gesù ad opera di Dio. Osservando la composizione del dipinto, notiamo a sinistra, un po’ nascosto, un angelo con le ali blu e gialle che indica Maria e Gesù a due tahitiane dall’aria assorta e misteriosa, le mani giunte in preghiera. Maria indossa un pareo, un abito del luogo, e porta il bambino Gesù sulle spalle. Ai suoi piedi sono deposte le offerte. Quest’opera non rientra nelle immagini codificate della fede cristiana, anche se i simboli utilizzati sono quelli del  suo mondo figurativo: è solo dalla presenza delle due aureole sulla donna e sul bambino che possiamo identificare Maria e Gesù. Gauguin stravolge l’iconografia conosciuta dell’Annunciazione, proponendo un’altra interpretazione. Questa rappresentazione, certamente non convenzionale anche dal punto di vista della tecnica (vedi l’uso dei colori primari e le forti cromie), va al di là della sola scena dell’annuncio a Maria: se la osserviamo attentamente, infatti, scopriamo che sono stati uniti e rielaborati tre motivi iconografici cristiani che bene esprimono questo tempo di avvento: l’Annunciazione, la Natività e l’Adorazione del Bambino, con le donne che sostituiscono i re magi e invece di recare oro, incenso e mirra, regalano i frutti esotici, situati in basso nel dipinto.