CAINO

 

Scritto da  NORMA ALESSIO.

Quando sentiamo pronunciare il nome di Caino, tutti lo associamo all’omicidio del fratello Abele raccontato nel capitolo 4° del libro della Genesi e il ricordo va al suo peccato. Il racconto dell’omicidio è espresso in poche parole, neppure un versetto. Questo vuol anche dire che l’interesse del racconto non è sull’omicidio in se, ma su ciò che lo precede e su quello che segue. L’arte delle origini è molto elementare nel raffigurare le sacre scritture: si limita a raccontare i fatti narrati, arricchiti talvolta anche con particolari, tratti dalle leggende che la tradizione ha tramandato. Nel commentare gli eventi dell’Antico Testamento dobbiamo sempre tenere presente che esso è rivelazione di Dio nella sua globalità e la visione della storia non è una pura sequenza di fatti, ma è la storia della salvezza, in cui Dio realizza ciò che ha stabilito per l’uomo e per l’universo; la Bibbia disegna anche il cammino della fede e dell’obbedienza, così come dell’incredulità e della disobbedienza a Dio. Non dobbiamo pensare di dare significato a ogni singolo elemento.

Questo episodio lo troviamo illustrato soprattutto nei mosaici, nei rilievi dei capitelli delle chiese paleocristiane o negli affreschi medioevali, nel contesto del racconto della creazione posto alla contemplazione dei fedeli; compare, raramente, negli edifici religiosi dei secoli successivi: nel XVI e XVII sottoforma di dipinti su tela che riproducono le varianti della stessa scena e nel XIX e XX secolo anche in sculture a tutto tondo. Partendo da queste considerazioni vediamo come l’arte figurativa ha interpretato questo episodio.

Nell’arte cristiana delle origini sono rappresentati i tre momenti del fatto in modo distinto: la presentazione dell’offerta a Dio da parte dei due fratelli, l’omicidio di Abele, il richiamo di Dio a Caino con la cosiddetta maledizione. “Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo». Caino disse al fratello Abele: «Andiamo in campagna!». Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?». Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra».(Gen 4,3-12)

La scena più rappresentata è proprio il momento preciso, come in un fermo immagine, in cui Caino sta per colpire mortalmente suo fratello Abele, che normalmente si contraddistingue per il bianco candore del corpo, mentre il suo assassino ha la pelle più scura. Poiché nel racconto biblico non è indicato in quale modo avviene l’uccisione, gli artisti, oltre a variare le posizioni dei corpi dei protagonisti in lotta nell’istante di massima tensione, hanno inserito oggetti diversi utilizzati come armi per infliggere il colpo mortale ad Abele: pietre, bastoni, asce, coltelli, e … una mascella d’asino, come nell’opera del napoletano Filippo Vitale di data incerta (1640?), di collezione privata.

Quest’ultimo oggetto provoca perplessità sul motivo della sua presenza, spesso rappresentata come arma “bestiale” in mano a tritoni o satiri in raffigurazioni mitologiche rinascimentali e che invece qui ricorda la lotta tra Sansone e i filistei, citata in modo esplicito solo nel libro dei Giudici al capitolo 15 “Trovò allora una mascella d’asino ancora fresca, stese la mano, l’afferrò e uccise con essa mille uomini”. Il motivo di questa scelta porta a intendere l’azione come quella di un eroe, vista la similitudine con Sansone dove l’insieme della scena in se è espressa in modo cruento, esaltato dalla violenza fratricida di Caino che si accanisce sul fratello. Rara è la rappresentazione della maledizione di Caino, “Ma il Signore gli disse: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!». Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato.” (Genesi 4,15).

Il “Caino e Abele” di Pietro Novelli (1628), opera custodita nella Galleria d’arte antica di Palazzo Barberini di Roma, inserisce direttamente nella scena il richiamo di Dio che appare tra le nuvole, mentre l’omicida, scappando, allarga le braccia, e sembra di sentirlo dire «Sono forse io il guardiano di mio fratello?» e in primo piano, a terra, Caino.

 

 

Il linguaggio espressivo degli artisti moderni che hanno tratto ispirazione per le opere dagli episodi biblici, è mutato nel tempo divenendo sempre più significativo ed essenziale per la diffusione del messaggio di Dio, creando il massimo coinvolgimento dell’osservatore; così a Parigi Henri Vidal scultore francese, nel giardino delle Tuileries, abbiamo Caino (anno 1896) nella fase del pentimento:Disse Caino al Signore: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono. Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e dovrò nascondermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi ucciderà». (Gen.4, 12-15). Egli è solo, disperato, e anche qui è ripetuto il gesto del nascondere con la grossa mano il segno di Dio sul volto dopo aver ucciso suo fratello Abele: è un Caino abbruttito dal peccato, curvo, quasi invecchiato di colpo.

 

 

Anche Raffaele Faccioli, rappresenta, nel 1864, “Caino dopo l’uccisione di Abele”. In quest’opera l’artista mostra Caino solo, come colto nell’atto di nascondersi dalla vista del Signore, con una tale intensità dello sguardo che sembra evocare il drammatico dialogo con Dio.

 

E infine la drammatica espressione del volto di “Caino” nella scultura di Gaetano Martinez del 1922, che sembra fermare il momento stesso in cui alla mente dell’omicida balza, quasi confusamente, il rimorso per la propria colpa; una colpa ricordata dal volto del fratello, che affiora dalla base come se emergesse dalla sua coscienza.

 

 

In queste ultime interpretazioni gli artisti hanno impresso nelle loro opere i loro sentimenti per poter far evocare nello spettatore la loro stessa emozione, ma a sovvertire questo pensiero Pablo Picasso nei suoi Scritti afferma: “Io dipingo per dipingere non penso di dare al mio lavoro significati particolari ... È curioso … come la gente veda nei dipinti cose che non vi sono state messe – ci ricamano sopra. Ma non ha importanza, anche se vi vedono qualcosa di diverso ciò li stimola.”

Il segno del Tau

 

 

Scritto da  MARIA NISII.

 

Il Signore gli disse: «Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme, e segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono». (Ez 9,4)

Nel contesto delle visioni di giudizio su Gerusalemme,a causa del peccato di idolatria di cui si è macchiato il popolo, il profeta Ezechiele vede un uomo vestito di lino, con una borsa da scriba, al quale Dio ordina di segnare la fronte di una parte degli uomini. Il segno richiama l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, il tau. Ed è segno di distinzione: i segnati infatti si salveranno.

Troviamo un riferimento analogo nell’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse. Al capitolo 7 viene posto il sigillo sulla fronte di 144.000[1]uomini, detti “servi del nostro Dio”, ma sarà solo al capitolo 14 che si spiegherà in che cosa consistequesto sigillo:

E vidi: ecco l’Agnello in piedi sul monte Sion, e insieme a lui centoquarantaquattromila persone, che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo. (Ap 14,1)

In questo caso il segno sulla fronte indica l’appartenenza irreversibile a Dio e a Cristo-Agnello. L’immagine richiama la consuetudine di imprimere a fuoco nella carne degli schiavi il nome del proprietario, generalmente eseguita sull’avambraccio. In Apocalisse si riprende l’uso modificandolo: il nome è scritto e non impresso a fuoco, ed è posto sulla fronte invece dell’avambraccio. La fronte indica la persona, e il legame non è quello tra schiavo e padrone. L’appellativo di “servo” (Ap 7) è infatti altamente positivo, in quanto attribuito anche allo stesso autore (Ap 1,1) e a Mosè (15,3).

David Maria Turoldo, teologo, prete e poeta, scrive una poesia richiamando questo segno di tradizione biblica, che applica al battesimo. Scritta in prima persona, come un’esperienza autobiografica, parla dal punto di vista di chi, ormai anziano, ripensa alle parole semplici che il padre gli ha rivolto da bambino. Semplici ma importanti, perché la fede è espressa nei termini di vita libera.

 

Eppure avanti di passare all’altra

Riva, pace mi dona

Il sapere quanto

Saggia era la parola

Dettami ancora fanciullo

Da mio padre:

 

“che a tutto doveva bastare

Il battesimo; e di nessun’altra

Appartenenza, libera

Vita fossi a segno

Della stessa fede”.

 

Sapere che tutto già era

Lavato dal sangue di Lui,

e di quanta libertà

sarebbe costata.

 

E toccare con mano come

Ogni peccato era consunto

Mentre si compiva.

 

E bruciare dal desiderio

Di essergli degno, fino

A fare dei giorni

Altari di cenere. E così

 

Senza rimpianti, mondato

Alla fine dallo stesso mio pianto

Presentarmi a Te, col segno

In fronte del solo “Tau”

 

(D. M. Turoldo, Col segno in fronte)

 

Il “tau”, in quanto ultima lettera dell’alfabeto ebraico, dice il senso di compimento della rivelazione.L’esserne segnati indica pertanto l’appartenenza al disegno redentivo. Si tratta allora di un segno di salvezza, come il battesimo appunto. Una salvezza sotto il segno della libertà. Una salvezza di cui essere degni. Una salvezza che muove e commuove. Un piccolo segno – non ne occorrono altri.

 

 

David Maria Turoldo (1916-1992)

 

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[1] Si tratta di un numero simbolico che chiede al lettore uno dei tanti interventi interpretativi nel testo. Qui dovrà eseguire una piccola operazione matematica per comprenderne il significato, ovvero: 12 (come le tribù d’Israele, dunque rappresentativo del popolo ebraico) x 12 (come gli apostoli, indice del popolo della nuova alleanza) x 1000 (il tempo dell’intervento di Gesù Cristo risorto nella storia).

La passione secondo Pasolini

 

 

Scritto da DARIO COPPOLA.

 

 

 

La ricotta (1963) di Pasolini è un mediometraggio con due sole scene e sigla a colori. Protagonista è Stracci, sottoproletario:  è figurante nel ruolo del buon ladrone in un film-nel-film sulla passione di Cristo (Mt 26,35-27,66; Mc 14,32-15,47; Lc 22,39-23,56; Gv 18,1-19,42). Già in Accattone (1961) e Mamma Roma (1962) era implicita la passione di Cristo. Interpreta Stracci M. Cipriani, attore di strada (Balilla in Accattone).

Vi sono poi la troupe del film-nel-film e un regista interpretato da O. Welles.

In realtà il vero Cristo, l’alter Christus, per Pasolini è Stracci: l’unica sua battuta è: «Quando sarai nel Regno dei cieli, ricordami al Padre tuo», di cui abbiamo già scritto. (1)

Stracci, nei luoghi già visti in Mamma Roma, dona il suo cestino del pranzo ai familiari seduti fra i campi: è questa un’icona dell’Eucaristia (Mt 26, 17-35; Mc 14,12-26; Lc 22,7-38; Gv 13-17; 1Cor 11, 23-27). Egli consegna il suo corpo; ha la febbre, come E. Garofolo nel finale di Mamma Roma, prefigurazione della di lui “passione”. Con scaltrezza, Stracci si procaccia e nasconde un altro cestino in una grotta: rovescio di Betlemme, del sepolcro, della caverna platonica…

La troupe, co-protagonista della trama, gira la prima scena a colori: un tableau vivant in cui gli attori sono posti come in Rosso Fiorentino, Deposizione della croce (1521), pittore del manierismo realista, su musica di Scarlatti, mentre un’attrice recita Donna de Paradiso di Jacopone da Todi (Mt 27, 57-61; Mc 15, 42-47; Lc 23, 50-56; Gv 19, 38-42). Stracci corre sul set interrotto dall’aiuto-regista. Il volpino dell’attrice interpretata da L. Betti, nel ruolo della Vergine Maria, mangia il pranzo del protagonista. Dopo l’intervista al regista (Welles), un giornalista si imbatte in Stracci che, ancora in lacrime, accarezza il cagnolino,che vuol vendergli per comprarsi la ricotta. Corre come nel cinema muto, tra pecore, poliziotti che colgono fiori, sostando a un’edicola religiosa e tornando alla grotta.

Stracci non consuma il pranzo perché richiamato sul set. Si prepara la scena in cui egli è inchiodato alla croce. Come i soldati col Cristo, la troupe annoiata si beffa di Stracci affamato, facendolo provocare da una comparsa (è Maria Maddalena).

La croce è un Leitmotiv nel film. Il corpo dell’alter Christus Stracci passa sempre per la croce: quando questi recupera, trafelato, il cestino del pranzo, la panoramica si sposta sulla croce adagiata a terra; le croci si trovano sempre nel suo percorso  sino al finale. La corona di spine (Mt 27,27-31; Mc 15,16-20; Gv 19, 2-3), prelevata da una discarica del boom economico, è  irrisa, ma due mani la innalzano al cielo restituendole sacralità. Il dialogo tra Stracci e l’attore che interpreta il Cristo avviene a terra sulla croce: simbolico sdoppiamento.

La diva fa anticipare la scena in cui ha il ruolo della Madonna: tableau vivant di Pontormo, Trasporto del Cristo al sepolcro (1526-28), dipinto del manierismo visionario, con musica – annunciata – di Gluck (vedremo…), sulla quale un’attrice invoca: «Maria!».

 

 

Una comparsa che interpreta l’angelo è Garofolo, protagonista con A. Magnani di Mamma Roma. Per mancanza di luce solare, mentre è invocato il dio Febo, la ripresa è interrotta e Stracci, “schiodato” dalla croce, corre nella grotta e mangia la ricotta: mentre si rimpinza, in una scena neorealista che sfocia nel manierismo visionario, tutta la troupe in costume appare e lo deride gettandogli il cibo di scena. In realtà, l’Ultima cena di Stracci è questa. Pane e vino qui sono la ricotta: si spiega il titolo del film (in origine, Le fave). Il cinema cinico infierisce sulla realtà, incarnata da Stracci. Arriva la borghesia (produttore e corteo snob) a vedere tra effetti di lampi e tuoni la scena della morte di Gesù. Stracci dovrebbe pronunciare la sua unica battuta, ma non può perché muore di indigestione, sulla croce (Mt 27, 33-56; Mc 15, 22-41; Lc 23, 33-49; Gv 19, 18-37).

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(1) Vedi precedente articolo pubblicato su questo blog il 4/11/2019.

Il giorno della fine del mondo

Scritto da MARIA NISII.

 

 

“Il giorno della fine del mondo

L’ape gira sul fiore del nasturzio,

il pescatore ripara la rete luccicante.

Nel mare saltano allegri delfini,

giovani passeri si appoggiano alle grondaie

e il serpente ha la pelle dorata che ci si aspetta.”

 

Czeslaw Milosz (1911-2004, Nobel per la letteratura nel 1980) ha testimoniato il Novecento con la sua arte poetica, dalla prospettiva di un polacco emigrato prima in Francia e poi negli Stati Uniti. Essere poeta, sostiene durante le lezioni che è chiamato a tenere ad Harvard dopo il conferimento del Nobel, significa “allenarsi a ogni sorta di pessimismo, sarcasmo, amarezza, dubbio”. Ma in Polonia, dopo la seconda guerra, la poesia doveva saper essere anche ironica e sarcastica, proprio in quanto “poesia di rivolta, e perciò stesso viva[1].

Canzone della fine del mondo è stata scritta nel 1943 in una Varsavia occupata dai nazisti, ma qui appunto il giorno del giudizio è più ironico che apocalittico, quotidiano e abituale più che straordinario e spettacolare. La natura è indifferente e continua il suo corso come se nulla fosse; neppure il serpente inquieta più del dovuto. L’apocalisse è arrivata con tutto il suo carico di devastazioni eppure nulla sembra cambiato.

 

Il giorno della fine del mondo

Le donne vanno per i campi sotto l’ombrello,

l‘ubriaco si addormenta sul ciglio dell’aiuola,

i fruttivendoli gridano in strada

e la barca dalla vela gialla si accosta all’isola,

il suono del violino si prolunga nell’aria

e disserra la notte stellata. E chi si aspettava folgori e lampi,

rimane deluso.

E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,

non crede che già stia avvenendo.

Finchè il sole e la luna sono su in alto,

finchè il calabrone visita la rosa,

finchè nascono rosei bambini,

nessuno crede che già stia avvenendo.

 

E non è solo la natura a non accorgersi della fine. Allo stesso modo la gente continua la propria vita, come inconsapevole della tragedia che si sta consumando sotto i propri occhi. L’Apocalisse è richiamata come un ricordo infranto – chi si aspettava segni e trombe di arcangeli -, ancora presente in quanto la nostra civiltà “è stata plasmata dalla Bibbia ed è, perciò, escatologica nella sua stessa essenza”. Escatologica, ovvero rivolta con lo sguardo alla fine. La fine dei tempi. Una fine che realizza il tempo, che compie e dà senso al tutto.

 

Dettaglio del Giudizio Universale di Michelangelo

 

Solo un vecchietto canuto, che sarebbe un profeta,

ma profeta non è, perché ha altro da fare,

dice legando i pomodori:

Non ci sarà altra fine del mondo,

Non ci sarà altra fine del mondo.

 

Anche il profeta non si lascia più distogliere dal lavoro, come un tempo aveva fatto Amos. Eppure ha ancora voce sufficiente per annunciare che quella è l’unica fine che tutti loro devono attendersi. Qui e ora. Escatologia immanente, di questo mondo. Nessuna Gerusalemme celeste in vista.

 

Il profeta Amos, Gustave Doré

 

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[1] Tutte le citazioni sono tratte da “La testimonianza della poesia” di Czeslaw Milosz, Adelphi, Milano, 2013

Citazioni evangeliche e papali di maniera in Pasolini

 

 

Scritto da DARIO COPPOLA.

 

Il più iconico film pasoliniano che cita la Scrittura è, per chi scrive (e non solo), La ricotta. All’inizio, in esergo, è citato il vangelo secondo Marco: «Non c’è nulla […] di segreto che non debba essere messo in luce. Se uno ha orecchi per intendere, intenda!» (Mc 4,22-23).

E, ancora, Pasolini cita il Quarto vangelo: «Scacciò tutti fuori dal tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “[…] non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”» (Gv 2, 15-16).

Questi versetti sono scelti per descrivere un gesto rivoluzionario di Gesù. Pasolini vi vede qualcosa di suo.

La citazione di Gv 2 v’è pure in Uccellacci e uccellini (1966), nel racconto di frate Ciccillo: parabola pasoliniana, mirabilmente interpretata da Totò, nella quale è rappresentato san Francesco, che fa un riferimento (ossimorico) alla Tesi su Feuerbach n. 11 di K. Marx: «I filosofi hanno […] interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo».

Subito, senza soluzione di discontinuità, il personaggio di san Francesco profetizza che «un uomo dagli occhi azzurri» verrà e dirà: «Sappiamo che la giustizia è progressiva […] progredisce la società, si sveglia la coscienza […] vengono alla luce le disuguaglianze […] fra classe e classe, fra nazione e nazione […] minaccia […] alla rottura della pace».

Questa seconda parte del discorso non appartiene alla prededente citazione di Marx, anche se molti hanno riconosciuto lui nell’uomo dagli occhi azzurri.

Non è neanche  un riferimento alla parusia, la seconda venuta di Cristo; sarebbe troppo… Tuttavia – ed è una nostra scoperta inedita – Pasolini non è andato lontano da Gesù…

Infatti, egli ha citato qui proprio il vicario di Cristo, al rientro dal di lui viaggio negli Stati Uniti: Paolo VI, che aveva gli occhi azzurri (Marx no), pronunciò proprio queste parole nell’Udienza generale del mercoledì 6 ottobre 1965.

Per tornare a La ricotta (1963), ci limitiamo, in questo intervento, a dire che si tratta di un mediometraggio di 37 minuti, compreso in Rogopag – Laviamoci il cervello, che rielabora il solo testo di Lc 23,42: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».

La traduzione non è fedele al testo lucano, unico tra i vangeli canonici a riportare  l’episodio. Nel film il ladrone buono parla di «regno dei cieli» e del concetto, qui rivisto da Pasolini, di «Padre tuo», che richiama per contrasto quello di «Padre nostro» (Mt 6,9), a indicare la relazione filiale adottiva che ogni uomo ha con Dio, diversa da quella filiale del Cristo; nel testo greco (Lc 11,2) compare solo Pater, senza aggettivo.

Il regista friulano, manierista perché amante del manierismo, non ha resistito alla tentazione di rielaborare e ridipingere il Mistero di Cristo, con tratti fiabeschi ai confini col visionario e l’onirico, ammantandolo di mistero umano.

 

Il buon vino del signor Weston (2)

 

Scritto da MARIA NISII.

Seconda parte.

Va da sé che un romanzo che si intitola Il buon vino del signor Weston chieda al suo lettore di domandarsi che cosa si debba intendere con l’immagine del vino, che però, come tutti i grandi simboli, non è richiudibile in un unico significato. Vediamone allora alcune ricorrenze. Il decano del luogo, ad esempio, ricorda come Gesù lo abbia sempre apprezzato: “venendo additato come ubriacone per aver goduto delle sue delizie. Spiegava che Gesù sapeva distinguere una cattiva annata da una buona e che il vino da lui generosamente offerto ai commensali di Cana doveva essere un Tokai. Il nostro benedetto Salvatore non era tirchio né subdolo nel Suo donare. Offriva con munificenza ed è forse un bene che il vangelo non ci dica in quali condizioni tornarono a casa i suoi ospiti quella sera” (223-4). Tra le altre occorrenze, notiamo che si tratta di un vino che dà la felicità, specie quando offerto da una moglie affettuosa che sottrae il marito a vini a buon mercato (26). È inoltre consolazione per gli afflitti e i delusi che, pur arrivando a negare l’esistenza di Dio, non potranno certo negare l’esistenza del buon vino di Weston (45). “Il mio vino […] è forte come la morte e dolce come l’amore” (140), sostiene il titolare della ditta per declamarne i pregi di fronte all’oste, che spera diventi suo cliente. Il suo buon vino è inebriante e salvifico come l’amore sognato e realizzato (218), è fonte di sapienza, al pari di quella contenuta nei libri (224). Ma proprio grazie a tale sapienza, il buon vino del signor Weston può anche diventare specchio del male commesso (263-4) e tuttavia, se vi si presta fede, non si proverà più paura (269). Naturalmente nell’ampia enumerazione dei suoi pregi, Weston non ne dimentica la presenza nei sacramenti (231), ma soprattutto ne ricorda il potere di sapore biblico: “Quale profitto potrà mai avere, infatti, un uomo che, pur possedendo il mondo intero, non potrà gustare il mio buon vino?” (261 – cfr Mt 16,26; Mc 8,36; Lc 9,25).

La sera dell’arrivo di Westona Folly Down, cala un innaturale silenzio (cfr Ap 8,1). Il primo ad accorgersi che il tempo si è fermato è il proprietario della taverna, dove sono radunati gran parte degli uomini del paese. E se il tempo si è fermato, è allora iniziata l’Eternità – aggiunge il sacrestano e becchino per averlo sentito tante volte annunciare dal pulpito – ovvero “l’èra che doveva iniziare dopo la fine del tempo” (131). Weston è accolto con grande interesse, perché lì ogni distrazione è la benvenuta, un’occasione per i racconti degli anni a venire. L’uomo sembra subito a suo agio in quel luogo, contento di incontrare quegli uomini, mentre in ciascuno suscita l’impressione di somigliare a un parente, qualcuno che si conosce molto bene ma che si è da tempo perduto. Uno vi riconosce un cugino, un altro il padre morto, un terzo il fratello emigrato in America; ad un certo punto qualcuno pronuncia appena, quasi suo malgrado, come colto da una visione, e poi contento che nessuno lo abbia sentito, le parole “Padre Nostro” (139). Un altro è preso da un presagio, per quanto insignificante, e due di loro, “diversi non meno di quanto un agnello si distingue da un leone […] cominciarono cionondimeno a bere dallo stesso boccale” (140) [1].

Weston sorride a sentir parlare di “Eternità”, “come se il Tempo per lui non fosse nulla e l’Eternità, invece, il suo pane quotidiano” (141) e più avanti dirà che per lui “un giorno vale quanto un migliaio di anni” (252-3 – cfr Sal 90,4; 2Pt 3,8). Ma se all’inizio della storia il furgone è arrivato a Maidenbridge alle “tre e mezza del pomeriggio”, a Folly Down l’ora si ferma alle “sette” di sera – un numero foriero di una completezza che dovrà compiersi in quel luogo, ovvero un tempo che porterà a maturazione le tante attese che ciascuno si portava dentro. Tra gli altri, Weston va a far visita al reverendo che, per aver perso prematuramente la moglie in uno stupido incidente, non può neppure più credere in Dio, e nei suoi sermoni non ne pronuncia più il nome. L’uomo però è ancora in grado di interpretare il silenzio di quella sera come annuncio di una nuova fede, che pure dentro di sé desidera riottenere. Weston non bussa, ma si limita a fermarsi e aspettare fuori dalla porta [2]. E quando al termine della visita, il padrone di casa vorrebbe accompagnarlo all’uscita, Weston rifiuta spiegando: “Per quanto strano potrà sembrarle, la sua porta è stata aperta per me tanto a lungo che non posso certo aver dimenticato come ci si arriva” (208). Weston esce dalla canonica, ma lascia lì un fiasco di vino che il triste pastore apprezza sempre più a ogni bicchiere: “il vino […] lo aveva spesso nominato nelle sue prediche, anche dopo aver smesso da tempo di nominare Dio” (223) – realizzando quanto Weston aveva predetto sul proprio vino.

A uno a uno Weston fa quindi visita a tutti gli abitanti del paese, realizzando ogni volta l’inatteso. E quando infine lascia Folly Down, gli orologi riprendono la loro corsa. Il tempo del giudizio è stato consumato e lui può reimmergersi nel mistero dal quale è arrivato.

 

(Fine.)

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[1] Probabile allusione alla profezia escatologica di Is 11,1-6.

[2]Richiamando uno dei più bei passaggi biblici, che rimanda l’immagine di Cristo che attende alla porta in Ap 3,20

  • La prima parte dell’ articolo è stata pubblicata sul blog il 12/10/2109

 

 

 

Il buon vino del signor Weston

 

 

Scritto da  MARIA NISII.

 

“Il 20 novembre 1923, alle tre e mezzo del pomeriggio, un furgone Ford…” (11): si apre con questa apparente enumerazione di dettagli quotidiani l’insolito romanzo di un autore inglese della prima metà del secolo scorso, poco noto in Italia e nel suo stesso paese. Solo dopo qualche decina di pagine infatti, quando si è iniziato a gustare lo stile narrativo di Powys, si potrà tornare a questo inizio per cogliervi qualcosa di più di una semplice descrizione del contesto. Indicare giorno e ora con una tale precisione è infatti indizio di un evento eccezionale che si vuole ricordare senza fallo, come in Gv 1,39: quel giorno si fermarono da lui; erano circa le quattro del pomeriggio. Tutt’altro che una forzatura, questo accostamento è richiesto e sin preteso per apprezzare il romanzo. Le citazioni bibliche sono solo raramente esplicite, ma tale è la modalità impiegata per descrivere l’incontro tra l’umano e il divino, o la rivelazione del divino nella normalità dell’umano vivere.

In un giorno e un’ora precisa, due rappresentanti di commercio raggiungono una sonnolenta cittadina di provincia con il loro furgone, in cui ci si aspetta trasportino la merce oggetto dell’attività. La scritta sul mezzo a motore reca il nome della ditta, che unisce la tipologia del prodotto venduto – vino – al nome del titolare – signor Weston. Una semplice trovata pubblicitaria, fatta per attirare oltre che per garantire la qualità, aggiunge un aggettivo – buono -, che rende quella merce subito qualcosa di speciale, un buon vino. Vendere vino è un’attività come tante, il furgone è il mezzo tipico con cui si muovono gli agenti di commercio, i due uomini hanno l’aria cordiale di chi sa trattare con la gente. E questa è la prima lettura, quella a cui ci si può fermare e a cui anche la gran parte degli abitanti della cittadina non riserveranno ulteriore interesse. Il secondo livello di comprensione invece richiede di prestare attenzione, al furgone, agli uomini, alla metafora del vino.

 

 

A questa attenzione sembra quindi invitarci la narrazione, che caratterizza i diversi personaggi della storia anche per la capacità di osservare e accorgersi della novità che li ha raggiunti. La prima donna, descritta come una “pura di cuore”, si rende conto di “provare uno strano interesse e quasi una specie di affetto” (15) per l’uomo alla guida del furgone. E più si avvicina a lui, più sente crescere quei sentimenti: “non poté fare a meno di aver fede quando vide l’uomo al volante del furgone Ford”, fino alla “curiosa fantasticheria, cioè di essere stata custodita e amata per tutta la vita – sin dai primi giorni […] da una persona altrettanto pingue, felice e gentile” (17). Oltre a lei, nella via principale del paese, nessuno sembra far caso al passaggio di quel banale automezzo: ciascuno è preso dai propri pensieri e occupazioni. E per avvalorare la sua tesi, il narratore ricorda come in “un antico libro […] una volta il sole si fermò a richiesta” (183 – cfr Gs 10,12-13), ma anche in quel caso eclatante, oltre a quei pochi interessati, nessuno notò il fatto.

Il signor Weston è un anziano signore, che indossa un cappello di feltro sotto il quale si nasconde una bianca capigliatura, è padre di una famiglia numerosa, oltre ad essere titolare di un’antica azienda di produzione del vino. Presta poca attenzione alle chiese, mentre è attratto dalle taverne. Prima di entrare nel villaggio successivo, si ferma a osservarlo dall’alto: “Fosse stato lui a creare Folly Down e le persone che vi abitavano, non avrebbe potuto guardare il villaggio con maggiore interesse” (33). Alla vista della cittadina, il suo sguardo mostra insieme felicità e compassione. La diffusione della sua attività commerciale necessita di rappresentanti che si rechino persino nei villaggi più piccoli, “anche se non, magari, il figlio unigenito del fondatore” (39). Michael, il socio che accompagna Weston, è un uomo distinto, di rara bellezza e ottima educazione, che sembra comparire più che arrivare: “Avrebbe quasi potuto essere un dio, poiché la sua bellezza era così sublime da suscitare una completa fiducia e risvegliare un amore durevole” (25). Il suo rapporto con il titolare è basato su un rispetto affettuoso; Michael in passato ha placato una rivolta nell’azienda, che avrebbe potuto arrecare danni enormi ai commerci. D’altra parte, più avanti, Weston sostiene che nella sua città in tanti invidiano, a torto, la sua posizione (35)[1].

Il narratore ci racconta poi una caratteristica alquanto curiosa del signor Weston il quale, sebbene si occupi di vino, pare sia inoltre un uomo di “raffinata e fervida immaginazione” (34), una qualità che avrebbe fatto di lui uno scrittore: pare infatti abbia creato un “nuovo mondo”, “cominciando dal nulla”, con la sola forza dell’immaginazione e che quindi ne abbia composto un libro, “un poema in prosa che aveva suddiviso in molti libri” (34). A suo avviso, la compagnia del suo libro insieme al suo buon vino non potranno che rendere felice qualunque uomo sulla faccia della terra (64). Purtroppo però, nonostante i diversi tentativi, non in molti sembrano disposti ad ascoltarne la lettura e prima Michael, poi il sacrestano del paese rifiutano con una scusa diversa. Se dunque l’immaginazione è stata foriera di un tale “libro”, tanto più essa è stimata nella storia, intrecciata ai tanti racconti degli uomini dotati dello stesso dono, come risultano presto essere gli abitanti di Folly Down, che grazie all’immaginazione si innamorano, si disperano, perdono la fede e di tutto attribuiscono a Dio la colpa.

(Continua…)

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[1]Nella lettura si accumulano indizi di facile identificazione (l’immagine di Dio creatore, l’invio del Figlio presso gli uomini), che preferiamo segnalare tra parentesi o in nota per preservare l’ironia narrativa. L’allusione qui è quasi certamente alla ribellione degli angeli di tradizione essenzialmente apocrifa. Michele è l’arcangelo, citato in Gd 1,9, che avrebbe chiesto la punizione di Satana a Dio.

  • In copertina: il libro  Il buon vino del signor Weston  di Theodore F. Powys pubblicato da Adelphi  ( 2017) nella collana Biblioteca Adelphi.

 

UMANITA’

Scritto da MARIKA BONONI.

 

A PROPOSITO DI : “Diavoli custodi”, autori Erri De Luca e Alessandro Mendini –  PARTE SECONDA

 

Proseguendo l’analisi della pagina dedicata alla vita di Gesù giungiamo alle righe dedicate ai miracoli di guarigione che De Luca chiama (con il suo stile inconfondibile!) “interventi sanitari”. Ne sottolinea la misera ricaduta sulla vita degli uomini i quali non si dimostrano capaci di trarre da essi il giusto insegnamento morale (“i risanati non mantengono a lungo salute e gratitudine”).

A proposito della parte più “scandalosa” del messaggio di Gesù, il celebre invito a porgere l’altra guancia, lo scrittore napoletano ridimensiona la radicalità del Nazareno sottolineando il numero delle guance (due) che ogni uomo ha a disposizione. La sezione più interessante però arriva quando, riferendosi alle Beatitudini, riafferma con forza la predilezione di Gesù nei confronti dei più deboli, “programma politico” che non piacque ai governanti dell’epoca, dai quali fu accusato di propagandare “parabole contrarie all’ordine costituito”.

Leggendo tra le righe la verità: la travisazione di fondo è da ricercare infatti nell’errore (e orrore) commesso da chi deteneva il potere, colpevole di aver ridotto a mera propaganda politica un Discorso, quello “della montagna”, che invece faceva appello all’unico valore su cui poggiava quella fratellanza dichiarata all’inizio: l’umanità. Siamo fratelli perché apparteniamo al genere umano, uomini e donne uniti da quella legge morale che ci esorta alla solidarietà e al soccorso reciproco. Un programma politico dunque? “Era molto di più” chiosa Erri De Luca.

Inevitabile l’ epilogo quindi: Gesù condannato a morte per aver dimostrato coi fatti, fino alla fine, la validità della sua Parola. È l’ostinazione ciò che più colpisce l’autore, questa sua caparbietà nel voler assolutamente far comprendere l’enorme portata del suo messaggio; tale insegnamento non costituisce solo un ideale a cui appellarsi in maniera eterea e metaforica, ma  rappresenta al contrario il fondamento morale di ciò che ci rende unici e fratelli: la nostra umanità.

 

 

L’immagine di Mendini: uomini stilizzati con mani a forma di forconi si accalcano minacciosi l’uno sull’altro. De Luca vi riconosce i soldati che si divisero le vesti di Gesù crocifisso e conclude così: “Ora è nuda la terra, i suoi vestiti trasformati in merci”.

La Terra è nuda quando la Parola viene ridotta a slogan e venduta al miglior offerente.

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  • DIAVOLI CUSTODI è un libro di Erri De Luca e Alessandro Mendini, pubblicato da Feltrinelli nel 2017.

Presente e passato

Scritto da  MARIKA BONONI.

 

A PROPOSITO DI : “Diavoli custodi”, autori Erri De Luca e Alessandro Mendini –  PARTE PRIMA

 

 

C’è una pagina nel libro di Erri De Luca e Alessandro MendiniDiavoli custodi” (Feltrinelli 2017) che racconta in venticinque righe la vita di Gesù (p.39). Il libro è un alternarsi di immagini e parole: Mendini disegna e De Luca scrive, riversando su carta sensazioni, ricordi, persone, eventi che quelle strane forme suscitano in lui.

 

 

Lo scrittore ha dovuto operare una scelta di campo per contenere in così poche parole l’esistenza intera di un personaggio così importante. Quale aspetto della personalità gesuana ha dunque prediletto? Ecco la risposta: l’umanità. Leggerla oggi, a due anni dalla sua pubblicazione, alla luce di un presente così drammatico, assume un peso quasi insostenibile. Disarma gli scettici, smaschera gli usurpatori della sua Parola, mette a tacere sterili tentativi di manomissione. Perché le parole sono importanti, esse hanno un potere enorme e l’autore napoletano lo sa, per questo le sceglie con cura, per questo il suo ermetismo non è riduzione ma arricchimento.

Il testo si apre dunque con una sorta di manifesto del pensiero del Nazareno per l’immediata collocazione del protagonista: “Accusato d’irriverenza verso le autorità, non volle ritrattare”; De Luca sottolinea la coerenza di chi si fa portatore di una mentalità nuova e consapevole dei rischi che questa comporta, senza scendere a compromessi che gli salverebbero la vita. Anche l’accusa è emblematica: mancanza di rispetto nei confronti di chi si auto-celebra (l’autorità) in favore di chi onora un valore (l’amore) e Qualcuno (Dio), elementi intangibili che non han bisogno di porpora e scettro perché il loro potere non si vede con gli occhi.

Di seguito, con ritmo incalzante, De Luca indica l’appartenenza di Gesù (“Si dichiarava figlio di Adam”) e poi immediatamente precisa che “Lui però implicava che si è perciò fratelli”. Non si trattava dunque di campanilismo patriottico o cameratismo religioso, ma di fratellanza e il verbo scelto dall’autore, implicare, ha un preciso valore semantico perché si fa portatore di un imperativo che non accetta deroghe, non si inchina di fronte a nessuno e non scende a compromessi: questo è Gesù.

 

 

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  • In apertura: : Diavoli Custodi, dettaglio dell’immagine di copertina

 

 

Paolo, CC e CCN

 

 

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

Chi si accinge a scrivere una mail (sì, ci sono ancora pleistocenici come il sottoscritto che si ostinano a usare questo mezzo obsoleto ritenendo Whatsapp troppo invasivo) deve scegliere con cura a chi vuole indirizzare il suo messaggio. Di base ci sono tre opzioni che vengono offerte dal nostro provider: il semplice destinatario, altri soggetti indicati visibilmente in copia, altri soggetti “nascosti” che non compaiono nell’indirizzo della mail. Questa procedura, oltre che un po’ complessa, lascia sempre un po’ perplessi sulla riservatezza dei messaggi: chi sta leggendo queste informazioni a nostra insaputa? Basta questo sospetto a renderci guardinghi rispetto a questo mezzo di comunicazione e anche se sappiamo che nella risposta possiamo scegliere chi coinvolgere nel discorso, è difficile sottrarsi all’impressione che i fatti nostri siano divulgati ai quattro venti.

Quello che forse non consideriamo è che il nostro concetto di privacy è piuttosto recente e certamente diverso rispetto al mondo biblico. Quando si scrive una lettera nel primo secolo d.C. la riservatezza è un optional e dalla fase della stesura fino a quella della lettura gli spazi privati sono assai limitati. Infatti al momento della composizione non viene coinvolto soltanto colui che partorisce il messaggio della lettera e colui che la scrive materialmente sotto dettatura: in questo frangente sono spesso coinvolte altre persone che ascoltano la dettatura e possono presumibilmente intervenire per modificarne il tenore. Forse è questa la funzione dei cosiddetti “co-mittenti”, cioè i nomi che spesso compaiono accanto a quello di Paolo nell’intestazione di molte sue lettere. Ma anche quando una comunità o una persona ricevono una missiva non dobbiamo pensare che fosse destinata ad una lettura personale e privata nel silenzio di uno studio o comunque in disparte. Inconsapevolmente, anche l’apostolo utilizzava quegli strumenti che oggi chiamiamo “copia conoscenza” (CC) e “copia conoscenza nascosta” (CCN).

 

 

Un caso lampante di CC è la breve lettera a Filemone. L’epistola è chiaramente rivolta a questo importante personaggio di Colossi, padrone dello schiavo Onesimo la cui vicenda è oggetto della missiva. Paolo intercede per questo schiavo fuggitivo che rischia la vita se torna a casa, perciò domanda in maniera volutamente implicita un gesto di clemenza all’amico Filemone. La forma di questa lettera è totalmente incomprensibile se non si tiene conto del fatto che essa verrà letta pubblicamente nella casa di Filemone dove si raduna la chiesa locale e dove un pubblico attento ascolterà l’elogio sperticato che Paolo dedica all’amico filantropo. Sarà proprio questo uditorio ammirato a fare da scudo ad Onesimo, perché certo Filemone non vorrà smentire il panegirico dell’apostolo con una efferata vendetta sul fuggitivo! In questo frangente, quindi, i co-destinatari giocano un ruolo fondamentale nella strategia retorica della lettera.

 

 

Un po’ più complicato, invece, è dimostrare l’esistenza dei fruitori della “copia conoscenza nascosta” (CCN). Qui si parte dal presupposto che Paolo tenesse una copia personale di ogni lettera che inviava alle sue comunità (ed è ragionevole pensare che la prima raccolta di sue lettere fosse proprio il suo archivio personale). Questo archivio personale era utile per avere a portata di mano questioni che non si risolvevano nell’immediato, per cui era ovvio che Paolo volesse avere sottomano quantomeno la “brutta copia” di ciò che aveva inviato ai suoi destinatari. Ma c’è di più. In Col 4,16 Paolo (o chi per lui, l’autorità della lettera è disputata) invita allo scambio di lettere tra le chiese. Si può ipotizzare che lo stesso Paolo facesse qualcosa di simile e che i suoi collaboratori potessero avere copie di questi testi sia per il personale progresso spirituale sia per svolgere la loro funzione di ambasciatori e mediatori che richiedeva esatta comprensione dei problemi testimoniati dalle lettere. Dunque gli scambi epistolari difettavano di quella riservatezza che oggi riteniamo imprescindibile, ma questa fu anche la nostra fortuna perché proprio grazie a questa prassi si sono conservati fino a noi questi testi che altrimenti sarebbero finiti cestinati dopo il loro uso: burnafterreading