Samaritani improbabili

Scritto da  MARIA NISII.

 

Le parabole di Gesù parlano di un mondo quotidiano e comprensibile a tutti. Infatti le situazioni descritte sono costruite in modo tale che i suoi uditori potessero facilmente identificarsi, e dunque ambienti contadini con vigne e campi di grano (con e senza zizzania), semine tra i rovi e sui terreni buoni, padroni generosi e operai irriconoscenti. Altrove invece si tratta di contesti casalinghi con massaie che impastano farina o che perdono monete, amici che vanno a svegliare i vicini nel cuore della notte, vedove insistenti a cui anche i giudici cattivi fanno giustizia pur di sbarazzarsene. Data lamodalità narrativa, non stupisce di leggere le riscritture più ardite, calate nella realtà contemporanea del lettore, a cui il racconto originario sembra ogni volta prestarsi quale perfetta matrice. Si potrebbe persino azzardare che sia quello il loro miglior impiego, perché in ogni situazione di ingiustizia o di umana miseria, puoi star certo di trovare la parabola adatta.
“A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece
tutto avviene in parabole, affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì,
ma non comprendano “(Mc 4,11-12).
Secondo Amy-Jill Levine ( Le parabole di Gesù. I racconti enigmatici di un rabbi controverso, Effatà, 2020), “Ciò che rende le parabole misteriose, o difficili, è il fatto che ci sfidano a esaminare gli aspetti nascosti dei nostri valori e delle nostre stessevite. Esse portano in superficie domande inespresse e rivelano risposte che abbiamo sempre saputo, ma che abbiamo rifiutato di riconoscere. Di fronte alle parabole, la nostra reazione dovrebbe essere più di resistenza che di accettazione” (p. 11-12). E se Levine ha ragione, questo significa anche che la riscrittura in apertura otterrà più facilmente rifiuto che accoglienza, come ogni parola sfidante. Nel capitolo che l’autrice dedica alla storia del buon samaritano, si ricorda che alcuni rappresentanti politici l’hanno citata nei loro discorsi (G.W. Bush, Elisabetta II, Tony Blair), interpretandola normalmente come la necessità di fornire aiuto a chi si trova in condizioni di difficoltà. Tuttavia una lettura che chiede di identificarsi con colui che presta soccorso invitando alla sollecitudine verso i bisognosi, ci priverebbe di cogliere le provocazioni del racconto originario. Quello che invece il racconto vuole è spingere il lettore a identificarsi con l’uomo lasciato mezzo morto: suo è infatti il punto di vista, che Gesù ha consapevolmente adottato per far entrare il lettore nella “pelle” del ferito, non dotandolo di nome o altre qualifiche, ma di un’identità aperta, adatta a chiunque.
Anche se la riscrittura di Luca Bottura in apertura ha seguito l’interpretazione classica, forse Levine non la disapproverebbe, trovandola addirittura esilarante, se solo la formula che sostituisce il “mio prossimo” non fosse tanto oscena.
Van Gogh
Mi chiedo se dobbiamo abituarci alle oscenità, vista la recente pubblicazione di un’altra riscrittura altrettanto spiazzante sulla medesima parabola. Ne La parola e i racconti. 16 scrittrici leggono le parabole dei vangeli (LEV 2022) troviamo infatti, tra gli altri, un racconto di Carola Susani, L’occasione, in cui il ruolo del ferito è incarnato questa volta da una donna che ha subìto una lacerazione alla cornea procuratale dalle unghie del figlioletto di pochi mesi. È uscita di casa in piena notte per recarsi al pronto soccorso, ma il suo turno arriva solo dopo lunghe ore di attesa. L’oculista che infine la visita si limita a bloccarle l’occhio e a prescriverle la ricetta di un collirio, ma quanto al dolore ci vorrà tempo. Per questo quando esce dall’ospedale nel tardo pomeriggio il male che prova da ore è ancora lì, acuto e sempre meno sopportabile. Nonostante questo rinuncia al taxi e ripiega su un pullman affollato, ma nessuno è abbastanza attento per accorgersi del suo malessere: chi guarda il cellulare, chi chiacchiera e ride con un’amica. All’improvviso si sente palpeggiare da un uomo che sfrutta l’affollamento per strusciarsi contro il suo corpo sfinito:
Ha provato a dirsi: ma no, mi sbaglio, ma insomma, come fai a confonderti? Quando poi quello insiste, come fai a scambiare la manomorta per qualcos’altro? Ci ha pensato: ora mi giro e lo insulto oppure gli pesto un piede, ma ha così poca energia, sente il dolore che non se ne vuole andare e ancora cresce, roboante…
Non potendone più, cede alla sofferenza fino a quel momento trattenuta, e grida. Solo in quel momento allora chi ha approfittato della sua debolezza si accorge del suo volto sofferente: smette di toccarla, la guarda e le parla con una delicatezza inaspettata. Si fa quindi largo nel pullman gremito, perché lei possa passare e invita una ragazza ad alzarsi e a lasciarle il posto:
L’uomo le ha protetto il posto e lei ha accettato di sedersi: è crollata. Ora ha gli
occhi chiusi, il dolore non smette, ma di colpo si sente allegra […] E intanto mentre sta a occhi chiusi, il tipo dice alla ragazza, quella che si è appena alzata, se può portare Carla al pronto soccorso, se per favore può aiutarla a scendere e a prendere un taxi, e Carla sente un raspare di cuoio sul tessuto e poi uno sfrigolare di carta moneta. E Manomorta sguscia in mezzo alla folla ed è già scomparso.
Il molestatore ha saputo farsi soccorritore sulla scia dell’altrettanto improbabile salvatore della parabola evangelica. “Dal punto di vista dell’uomo ferito, il pubblico ebraico probabilmente avrebbe esitato di fronte all’idea di ricevere aiuto dal samaritano. Avrebbe pensato: ‘Preferisco morire piuttosto che sapere di essere statosalvato da uno di quel gruppo’; ‘Non voglio ammettere che un violentatore abbia unvolto umano’; oppure ‘Non voglio pensare che a salvarmi sarà un assassino’” (Levine).
Eppure se è il punto di vista dell’uomo tramortito sul ciglio della strada quello che dobbiamo fare nostro, forse la parabola vuole dirci qualcosa di importante: forse è solo colui che prima ti voleva uccidere (o molestare), l’unico che potrà salvarti. Anche solo per il fatto che è l’unico ad averti notato, potremmo dire riferendoci al racconto di Susani. “Nessuno ricorderebbe il buon samaritano se avesse avuto solo buone intenzioni”, pare abbia detto Margaret Tatcher, sulla predetta scia dei politici commentatori.
Mosaico centro Aletti
Il dottore della legge interpreta l’azione del samaritano come un atto di compassione. E, come noto, compassione o misericordia sono attributi divini, specie nel vangelo di Luca: “Per il dottore della legge, e per i lettori di Luca, il samaritano agisce come fa Dio. Il divino si manifesta unicamente attraverso le nostre azioni” (Levine). Non è così in fondo che è stato interpretato iconograficamente? Tanto più sconcertante è allora la sua figura, per niente facile da inquadrare in immagini stereotipate. Non esistono salvatori probabili, non esiste il physique du role atto a interpretare il personaggio. E l’ultimo arrivato è solo il meno adatto, il meno plausibile, l’inatteso, per quanto l’unico capace di usare misericordia. Per questo la donna sul pullman si sente allegra e forse per un attimo dimentica persino il dolore che la dilania da ore. Ma se un molestatore ravveduto può strapparci un sorriso, ci sarà qualcuno che si rallegrerà per
il buonista?

Maria, vergine madre

 

Scritto da MARIA NISII.

Genealogia al femminile (5)

 

Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo (Mt 1,16). Se le quattro donne presenti nella genealogia matteana sono protagoniste fuori dalla norma, con Maria si rompe lo schema: non è stato Giuseppe a generare Gesù, ma Maria “per opera dello Spirito Santo” (v. 18).

Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città di Galilea, chiamata Nazaret,  a una vergine fidanzata a un uomo chiamato Giuseppe, della casa di Davide; e il nome della vergine era Maria.  L’angelo, entrato da lei, disse: «Ti saluto, o favorita dalla grazia; il Signore è con te».  Ella fu turbata a queste parole, e si domandava che cosa volesse dire un tale saluto.  L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio.  Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù.  Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre.  Egli regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà mai fine».  Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?»  L’angelo le rispose: «Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà dell’ombra sua; perciò, anche colui che nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di Dio.  Ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figlio nella sua vecchiaia; e questo è il sesto mese, per lei, che era chiamata sterile;  poiché nessuna parola di Dio rimarrà inefficace».  Maria disse: «Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola». E l’angelo la lasciò. (Luca 1)

 Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo.  Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto.  Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo.  Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:

Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio
che sarà chiamato Emmanuele,
che significa Dio con noi.  

Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa,  la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù. (Matteo 1)

Secondo gli studiosi, i due vangeli dell’infanzia hanno un valore teologico più che storico. Raccontano fatti antecedenti al 4 a.C. e la loro redazione avviene circa 70-80 anni dopo, quando non ci sono più testimoni oculari. Questo significa che il dato riferito va compreso all’interno di un disegno divino. E se questi racconti vogliono, parzialmente, rispondere alla domanda sulle origini dell’uomo Gesù, la sua nascita deve mostrare fin da subito l’eccezionalità di cui è portatore. Maria è dunque vergine, nonostante già legata a un uomo da una promessa matrimoniale che poteva anche implicare la convivenza. E che tale dato sia presente in entrambe le tradizioni, lucana e matteana, che per il resto differiscono totalmente, è segno che l’eccezionalità deve passare anche dal concepimento. Eppure nel Nuovo Testamento Maria è definita “madre” 25 volte, mentre “vergine” solo in Lc 1,27 e in Mt 1,23.

 

Mantegna, Madonna col bambino dormiente (1465)

 

 

Il Vangelo di Matteo inserisce l’annuncio all’interno di uno schema profetico richiamando Isaia, il quale tuttavia nel testo originale non parlava di “vergine”, bensì di “giovane donna”: Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele (Is 7,14). [Il profeta Isaia pensava al figlio di Acaz, Ezechia, su cui egli poneva molte speranze.] Per indicare la madre, l’originale ebraico usa il vocabolo ‘almah che significa “giovane donna” e non “vergine” (betûlah). La traduzione greca dei Settanta introduce la seconda versione, scegliendo il termine parthénos (vergine) e offrendo così a Matteo la base per la cristologia del Figlio di Dio, nato da donna ma non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio (Gv 1,13).

Nel Vangelo di Luca, Maria obietta all’angelo annunciatore di non aver ancora conosciuto uomo, una risposta da ricomprendere come classica obiezione di ogni racconto di vocazione (Mosè e Geremia non sanno parlare), volta a indicare l’impedimento al compito richiesto. Ma Luca sostiene la tesi anche appoggiandosi a un altro concepimento, quello altrettanto singolare nella cugina Elisabetta, già anziana e ritenuta sterile. Ma se ci si fermasse solo al dato letterale, si noterebbe come l’anzianità di per sé già implichi perdita della fertilità, senza necessitare ulteriore aggravio della situazione. Più probabilmente allora si tratta di rendere evidente il richiamo alla matriarca Sara, a sua volta detta anziana e sterile, eppure madre di Isacco. Nella Bibbia infatti i casi di nascite eccezionali sono tutt’altro che rari: Dio è datore di vita anche nella misura in cui apre alla fecondità situazioni che sembrerebbero compromesse dalla natura. Se quindi nasce un figlio a donne anziane o vergini è indubbio segno dell’intervento di Dio.

 

Simone Martini, Annunciazione (1333)

 

 

A questo punto apparirà forse meno insolito che tutte le matriarche (ad eccezione di Lia, che ha almeno la fortuna di essere fertile, dato che non è amata) siano inizialmente sterili. Come visto lo è Sara, che diventerà madre di Isacco a 90 anni, età da intendere evidentemente in senso iperbolico come impossibilità totale e assoluta. La promessa divina di una discendenza (Gen 15,1-6) è messa varie volte in pericolo quando Abramo, temendo per la propria vita, chiede a Sara di farsi passare per sua sorella, sottoponendola in questo modo alle brame del faraone prima e di re Abimelech poi. È solo l’intervento divino a salvare la situazione; e tuttavia Sara raggiunge i 75 anni senza avere ancora dato alla luce un figlio. Decide così di ricorrere all’escamotage tipico di quel tempo, donando ad Abramo la sua schiava come moglie perché lei possa diventare madre per suo mezzo (in breve, perché Agar faccia da madre surrogata per conto di una madre sterile). Non risulta che Sara si rivolga al Signore per chiedere il dono promesso. È invece per iniziativa divina che la donna riceve l’annuncio del figlio a lungo atteso (Gen 18,9-15).

 

Ospitalità di Abramo alle querce di Mamre

 

 

La sterilità femminile prosegue con Rebecca, la quale diverrà madre dei gemelli Esau e Giacobbe dopo la supplica che Isacco fa in suo nome (Gen 25,21). Similmente avviene con Rachele che, dopo essere rimasta a lungo senza figli, muore dando alla luce il secondogenito Beniamino. Anche qui il lamento della donna non è espressamente rivolto al Signore, ma probabilmente a Lui vuole giungere per il tramite del marito.

1 Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!». 2 Giacobbe s’irritò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?». (Gen 30)

 

William Dyce, Giacobbe incontra Rachele al pozzo

 

 

Alla anonima madre di Sansone, invariabilmente sterile, appare un angelo del Signore ad annunciare l’imminenza del lieto evento. Anche in questo caso non risultano richieste o lamenti.

Chiunque abbia però qualche familiarità con i “segnali di avvertimento” della Bibbia sa che una donna sterile è quasi sempre promessa di un parto fatidico…

La donna corre dal marito: “Un uomo di Dio è venuto da me”, dice, e i lettori drizzano le orecchie, perché la futura madre di Sansone non ripete il verbo utilizzato dal narratore biblico: “A costei apparve l’angelo del Signore”, ma preferisce l’espressione “è venuto da me”, ambigua e carica di significati giacché non di rado è utilizzata nella Bibbia per descrivere un rapporto sessuale. (David Grossman, Il miele e il leone)

 

 

 

Nonostante nell’antichità biblica il peso della sterilità gravi solo sulla donna, la preghiera femminile si rivolge alla provvidenza divina solo con Anna, madre del profeta Samuele. Il libro che ne prende il nome si apre infatti con il dolore di questa donna, che non solo deve condividere il marito con un’altra moglie, ma che a differenza dell’altra ha pure il grembo chiuso. Chiuso dall’Eterno naturalmente (1Sam 1,5), perché se è Lui ad aprire, a Lui pure si attribuisce la responsabilità della chiusura – come già notato nelle parole di Giacobbe a Rachele. A differenza delle altre, questa donna si rivolge direttamente a Dio senza far uso di mediatori, recandosi al Tempio e pregando tanto disperatamente che il sacerdote lì presente pensa sia ubriaca.

 

Gerbrand van der Eeckhout, Anna presenta il figlio Samuele al sommo sacerdote Eli (1665)

 

 

Facciamo ora una piccola capriola interpretativa, associando la tradizione biblica a quella extra-biblica, laddove a non poche figure è stata attribuita una nascita soprannaturale. Sono state narrate come nascite verginali infatti anche quelle di Lao Tzi, di Perseo, di Romolo e Remo, di Alessandro Magno. Ma sono miracolose pure le nascite di Krishna, di Buddha e di Zarathustra.

”C’era una volta un re degli invincibili Śakya, rampollo della razza solare, il cui nome era Śuddhόdana. Era puro nella condotta, e amato dagli Śakya come la luna autunnale. Aveva una moglie splendida, bella e fedele, che veniva chiamata la Grande Màya, per la sua somiglianza con Màya, la Dea.  Questi due conoscevano le gioie dell’amore, ed un giorno ella concepì il frutto del suo grembo, ma senza contaminazione alcuna, alla stessa maniera in cui conoscenza unita alla concentrazione mentale fruttifica. Poco prima del concepimento elle ebbe un sogno. Un bianco elefante reale le sembrò che penetrasse il suo corpo, ma senza causarle alcun dolore. Così Màya, regina di quel simile a un dio, portò nel suo grembo la gloria della sua dinastia. Tuttavia ella rimase libera dagli affanni, afflizioni, e capricci che di solito accompagnano le gravidanze. Casta ella stessa, desiderò ritirarsi nella pura foresta. Nella cui solitudine poteva praticare la concentrazione mentale. Ella si mise in mente di andare a Lumbini, un meraviglioso boschetto, con alberi di ogni tipo. Chiese al re di accompagnarla, e così lasciarono la città, e andarono in quello splendido boschetto. Quando la regina si accorse che il tempo del parto si stava avvicinando, si ritirò su un giaciglio coperto da una tenda, migliaia di ancelle intorno con la gioia nel cuore. La costellazione propizia di Pushya splendeva luminosamente quando un figlio nacque alla regina, per il bene del mondo. Egli venne fuori dal fianco della madre, senza causarle dolore o danno. La sua nascita fu miracolosa come quella degli eroi dell’antichità che nacquero dalla coscia, dalla mano, dalla testa e dall’ascella. Così egli uscì dal grembo come si addice a un Buddha. Egli non venne al mondo nel modo usuale, e apparve come uno disceso dal cielo. E dal momento che si era impegnato per molti cicli cosmici nel perfezionamento del suo essere, egli nacque in piena consapevolezza, e non senza pensiero e disorientato come sono gli altri”. (Buddhacarita, Gli atti del Buddha), I, 1-15)

Se Buddha nasce dal fianco della madre, come Asclepio e Dioniso, Atena nasce dalla testa, mentre Giulio Cesare da taglio cesareo (secondo una falsa tradizione medioevale, ma tanto è bastato per immortalarne la tecnica). E d’altra parte Giustino nella Prima Apologia rivolta ai pagani non disdegna l’associazione ai miti che riguardano la nascita di un figlio divino: «Noi raccontiamo che [Gesù Cristo] è nato da una vergine: ciò è comune al vostro Perseo».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La verginità di Maria si diffonde molto presto nella fede dei credenti, come dimostrano gli apocrifi di metà II d.C. Il Protovangelo di Giacomo, richiamando a sua volta il predetto brano del profeta Isaia, parla del parto verginale di Maria, inserendo la figura di una levatrice chiamata da Giuseppe. Arrivata quando Maria ha ormai partorito, la donna vede una nuvola adombrare la grotta e poi una luce accecante che si attenua solo con l’apparizione del bambino. Uscita di lì la levatrice incontra una conoscente, Salomè, a cui riferisce il parto verginale. Quale doppio femmineo di Tommaso, la donna risponde:

Com’è vero che vive il Signore mio Dio, se non introdurrò il mio dito ed esaminerò la sua natura, non crederò mai che una vergine abbia partorito. (Protovangelo di Giacomo XIX,3)

Dopo aver fatto quanto desiderava, la mano di Salomè arde come fuoco per poi guarire dopo la supplica della donna e la sua professione di fede nel bimbo-Messia. Il Vangelo dello pseudo-Matteo fa invece arrivare assieme le due donne, entrambe chiamate da Giuseppe per offrire soccorso a Maria ma anche questa volta arrivate a parto avvenuto. Pure in questa versione è sempre Salomè a dubitare, inserire la mano, vederla seccarsi e poi risanare.

 

 

Jacques Daret, Salomè e Zelomi (1420 ca)

 

I vangeli canonici sono molto più sobri sul parto, ma le versioni apocrife prendono a tal punto piede da estendere la verginità dalla fecondazione al dopo parto, perché sia perenne [una condizione che nella cultura ebraica sarebbe stata ritenuta disonorevole]. Scrive Gregorio di Nissa: Egli infatti «non era stato concepito dal piacere carnale, né era uscito alla luce attraverso i dolori». Prosegue quindi Agostino nell’Enchiridion associando la nascita alla rinascita dal sepolcro: come la nascita aveva lasciato intatto il sigillum del corpo materno, così l’uscita dal sepolcro ha lasciato intonsi i sigilli della morte. Maria viene pertanto dichiarata Aeiparthenossempre vergine»), appellativo che viene inserito nella professione di fede del Concilio Lateranense IV (1215) e poi ripreso da Paolo IV (1555) nella costituzione Cum quorundam, dove si riafferma che Maria era vergine «prima, durante e per sempre dopo il parto».

 

Piero della Francesca, Madonna del parto – dettaglio (1455)

 

Tale accentuata valorizzazione del dato virginale non è senza conseguenze per l’immagine femminile, in quando connota negativamente la maternità corporea al punto da far scomparire tutte le rappresentazioni delle Madonne del parto in epoca di controriforma. Il tabù del parto e l’impurità della puerpera pesano quindi sulla fertilità femminile, avvolgendola per lunghi secoli di un manto di vergogna e impudicizia. Il culto della verginità prende talmente piede nella storia ecclesiastica, che le donne sante sono inevitabilmente legate a tale tratto distintivo, salvo rare eccezioni. È descritta come vergine santa Caterina da Siena, dottore della Chiesa; lo è sant’Agata, definita prima vergine e poi martire; ugualmente santa Scolastica, purtroppo solo vergine (ma l’elenco proseguirebbe a lungo e fino al Novecento). Non si capisce perché mai si parli di verginità a proposito della santità maschile. I santi maschi sono infatti preti, vescovi, papi, religiosi, missionari, martiri…, ma mai – neppure una volta – vergini.

Messi in fila, tutti questi riferimenti hanno un che di sconcertante. È bene allora acquisire il dato simbolico allo scopro di ottenere una bussola per non smarrirsi. Anzitutto occorre ricordare che la verginità è un valore che sorge in ambito patriarcale con il significato di proprietà su una donna che, carnalmente, non ha conosciuto altri, una richiesta che l’uomo vantava senza bisogno di doverla ricambiare. Violare una donna era infatti anche un modo per garantirsene il sicuro possesso, dato che in quelle condizioni non avrebbe trovato marito. Affermare che Maria è “sempre vergine” significa allora che il suo corpo non è disponibile al possesso, anche al di là di una qualunque vita sessuale. Fermarsi al dettaglio letterale dell’imene intatto, come sono arrivati a fare i racconti apocrifi, fissa ossessivamente l’attenzione sulla sessualità, connotandola negativamente come fatto in sé, invece di richiamare il valore di una relazione vissuta nella reciprocità e pertanto fuori da ogni idea di dominio.

Vergine madre, figlia del tuo figlio,

umile ed alta più che creatura

(Paradiso, XXXIII, 1-2)

Nel suo essere “vergine e madre”, Maria racchiude un ossimoro che dice l’irripetibilità del suo essere. Ed è in virtù di tale eccezionalità che le sono stati attribuiti caratteri e poteri tanto straordinari, attorno ai quali non finiremo mai di arrovellarci. In un’epoca secolarizzata come la nostra è infatti anche necessario “rendere ragione” della fede nella Vergine, che ai non credenti risulta oltremodo incomprensibile.

Per ulteriori indagini sulla simbologia che qui non possono trovare spazio, rimando al testo più esauriente di Simona Segoloni Ruta: https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2020/05/donne-immaginario-mariano-e-tentativi.html

 

Botticelli, Madonna del libro dettaglio (1480-81)

 

In conclusione alcune riscritture mariane, che hanno tentato a vario modo di ricomprendere il dato tradizionale.

“Nel suo spirito si mescolavano i segni e i prodigi che circondavano il giovane fin dal giorno della nascita e anche prima… Il bastone di Giuseppe che, unico fra tutti i bastoni dei futuri sposi, era fiorito; […] Più tardi, il fulmine caduto il giorno del matrimonio, che aveva paralizzato lo sposo prima che potesse toccare la sua donna. E più tardi ancora, si disse che la sposa aveva annusato un giglio bianco e che il suo ventre aveva concepito un figlio (Nikos Kazantzakis, L’ultima tentazione p. 18).

“…oggi non ho potuto staccare una sillaba dal labbro. Sono rimasta muta. Era tutta l’accoglienza che gli serviva, mi ha annunciato il figlio. Destinato a grandi cose, a salvezze, ma ho badato poco alle promesse. In corpo, nel mio grembo si era fatto spazio. Una piccola anfora di argilla ancora fresca si è posata nell’incavo del ventre. (Erri De Luca, In nome della madre p. 16)

“Il mio corpo proprio non c’è nel Vangelo. Non si dice dei capelli, né degli occhi di quale colore, la pelle scura della mia terra è diventata trasparente sugli altari. Solo racconto io sono nel Vangelo. Non sono stata amata di carezze e abbracci nelle Scritture. Troppo pudore” (Mariapia Veladiano, Lei p. 8)

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  • In copertina: Antonello da Messina, L’annunciata (dettaglio), 1470 ca.

Benedetto & i Magi

Scritto da  LORENZO CUFFINI

 

In occasione delle Giornate Mondiali della Gioventù di Colonia, nell’agosto del 2005, Benedetto XVI impostò il raduno giovanile come immagine e ripresa del pellegrinaggio dei Magi , le cui reliquie, secondo la tradizione, proprio a Colonia sono conservate. Le parole che seguono sono tratte testualmente dai discorsi pronunciati in quella occasione, interpolate invece  da immagini e parole “altre”, diversamente evocative.

 

Secondo la tradizione, i loro nomi in lingua greca erano Melchiorre, Gaspare e Baldassarre.

Nel suo Vangelo, Matteo riporta la domanda che ardeva nel cuore dei Magi: “Dov’è il Re dei Giudei che è nato?” (Mt 2, 2). La ricerca di Lui era il motivo per cui avevano affrontato il lungo viaggio fino a Gerusalemme. Per questo avevano sopportato fatiche e privazioni senza cedere allo scoraggiamento e alla tentazione di ritornare sui loro passi. Ora che erano vicini alla meta, non avevano da porre altra domanda che questa.

 

Da “ City of stars“, song of LA LA LAND.

 

La stella. Quale strada prendere? Quella suggerita dalle passioni o quella indicata dalla stella che brilla nella coscienza? I Magi, udita la risposta: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta” (Mt 2, 5), scelsero di continuare la strada e di andare fino in fondo, illuminati da questa parola. Da Gerusalemme andarono a Betlemme, ossia dalla parola che indicava loro dov’era il Re dei Giudei che stavano cercando fino all’incontro con quel Re che era al contempo l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Quella parola è detta anche per noi. Anche noi dobbiamo fare la nostra scelta.

Entrati nella casa (sulla quale la stella si era fermata), videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono” (Mt 2, 11).

 

Adorazione dei Magi, Maestro dell’Adorazione di Torino,XIV-XV secolo Torino, Musei Reali – Galleria Sabauda

 

Il cammino esteriore di quegli uomini era finito. Erano giunti alla meta. Ma a questo punto per loro comincia un nuovo cammino, un pellegrinaggio interiore che cambia tutta la loro vita. Poiché sicuramente avevano immaginato questo Re neonato in modo diverso. Si erano appunto fermati a Gerusalemme per raccogliere presso il Re locale notizie sul promesso Re che era nato. Sapevano che il mondo era in disordine, e per questo il loro cuore era inquieto. Erano certi che Dio esisteva e che era un Dio giusto e benigno. E forse avevano anche sentito parlare delle grandi profezie in cui i profeti d’Israele annunciavano un Re che sarebbe stato in intima armonia con Dio, e che a nome e per conto di Lui avrebbe ristabilito il mondo nel suo ordine. Per cercare questo Re si erano messi in cammino: dal profondo del loro intimo erano alla ricerca del diritto, della giustizia che doveva venire da Dio, e volevano servire quel Re, prostrarsi ai suoi piedi e così servire essi stessi al rinnovamento del mondo. Appartenevano a quel genere di persone “che hanno fame e sete della giustizia” (Mt 5, 6). Questa fame e questa sete avevano seguito nel loro pellegrinaggio – si erano fatti pellegrini in cerca della giustizia che aspettavano da Dio, per potersi mettere al servizio di essa.

 

Citazione da ” Audition“, song of LA LA LAND.

 

Anche se gli altri uomini, quelli rimasti a casa, li ritenevano forse utopisti e sognatori – essi invece erano persone con i piedi sulla terra, e sapevano che per cambiare il mondo bisogna disporre del potere. Per questo non potevano cercare il bambino della promessa se non nel palazzo del Re. Ora però s’inchinano davanti a un bimbo di povera gente, e ben presto vengono a sapere che Erode – quel Re dal quale si erano recati – con il suo potere intendeva insidiarlo, così che alla famiglia non sarebbe restata che la fuga e l’esilio. Il nuovo Re, davanti al quale si erano prostrati in adorazione, si differenziava molto dalla loro attesa. Così dovevano imparare che Dio è diverso da come noi di solito lo immaginiamo. Qui cominciò il loro cammino interiore. Cominciò nello stesso momento in cui si prostrarono davanti a questo bambino e lo riconobbero come il Re promesso. Ma questi gesti gioiosi essi dovevano ancora raggiungerli interiormente.

 

Dovevano cambiare la loro idea sul potere, su Dio e sull’uomo e, facendo questo, dovevano anche cambiare se stessi. Ora vedevano: il potere di Dio è diverso dal potere dei potenti del mondo. Il modo di agire di Dio è diverso da come noi lo immaginiamo e da come vorremmo imporlo anche a Lui. Dio in questo mondo non entra in concorrenza con le forme terrene del potere. Non contrappone le sue divisioni ad altre divisioni. A Gesù, nell’Orto degli ulivi, Dio non manda dodici legioni di angeli per aiutarlo (cfr Mt 26, 53). Egli contrappone al potere rumoroso e prepotente di questo mondo il potere inerme dell’amore, che sulla Croce – e poi sempre di nuovo nel corso della storia – soccombe, e tuttavia costituisce la cosa nuova, divina che poi si oppone all’ingiustizia e instaura il Regno di Dio. Dio è diverso – è questo che ora riconoscono. E ciò significa che ora essi stessi devono diventare diversi, devono imparare lo stile di Dio.

 

Citazione parafrasata da ” Regalo mio più grande” di Tiziano Ferro.

 

La loro adorazione. Di essa facevano parte anche i regali – oro, incenso e mirra – doni che si offrivano a un Re ritenuto divino. L’adorazione ha un contenuto e comporta anche un dono. Volendo con il gesto dell’adorazione riconoscere questo bambino come il loro Re al cui servizio intendevano mettere il proprio potere e le proprie possibilità, gli uomini provenienti dall’Oriente seguivano senz’altro la traccia giusta. Servendo e seguendo Lui, volevano insieme con Lui servire la causa della giustizia e del bene nel mondo. E in questo avevano ragione. Ora però imparano che ciò non può essere realizzato semplicemente per mezzo di comandi e dall’alto di un trono. Ora imparano che devono donare se stessi – un dono minore di questo non basta per questo Re. Ora imparano che la loro vita deve conformarsi a questo modo divino di esercitare il potere, a questo modo d’essere di Dio stesso. Devono diventare uomini della verità, del diritto, della bontà, del perdono, della misericordia. Non domanderanno più: Questo a che cosa mi serve? Dovranno invece domandare: Con che cosa servo io la presenza di Dio nel mondo? Devono imparare a perdere se stessi e proprio così a trovare se stessi.

 

 

“Entrati nella casa, videro il bambino e Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono” (Mt 2, 11). Cari amici, questa non è una storia lontana, avvenuta tanto tempo fa. Questa è presenza. Qui nell’Ostia sacra Egli è davanti a noi e in mezzo a noi. Come allora, si vela misteriosamente in un santo silenzio e, come allora, proprio così svela il vero volto di Dio. Egli per noi si è fatto chicco di grano che cade in terra e muore e porta frutto fino alla fine del mondo (cfr Gv 12, 24). Egli è presente come allora in Betlemme. Ci invita a quel pellegrinaggio interiore che si chiama adorazione. Mettiamoci ora in cammino per questo pellegrinaggio e chiediamo a Lui di guidarci. Amen.

 

Poiché sono dorate, i migranti mi sono sembrati Re Magi, guidati da una loro personalissima stella cometa: il desiderio vitale di sfuggire alle guerre, violenze, povertà, carestie e siccità dei loro paesi. “( Fiamma Satta, febbraio 2016, cfr: https://diversamenteaff-abile.gazzetta.it/2016/02/25/coperte-isotermiche-re-magi-e-idioti/?refresh_ce

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https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2005/august/documents/hf_ben-xvi_spe_20050818_youth-celebration.html

Werther al karaoke

 

Riscrittura inconsapevole (*) di Capodanno

 

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

Dal libro del Qoelet:

Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.
Un tempo per uccidere e un tempo per curare,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.

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Com’è che diceva, l’Ungaretti  studiato a scuola?

Non ho voglia di gettarmi in quel gomitolo di strade….

Ecco, anch’io. Deve essere l’età a farmi tornare in mente queste cavolo di poesie nei momenti più impensati della mia vita. Ho il sospetto che, invecchiando, io viva  e senta di meno, e ricordi di più. E la cosa non mi fa piacere. Proprio per niente.

Poesie a parte, non ho davvero nessuna voglia di uscire, questa sera. E’ già stata una fatica quasi insopportabile il Natale, intendo a dire il Natale della festa, dei parenti, della famiglia che ti si fa vicina, di tutti che ti guardano con il collo storto, come a dire Povero!Ci son qua io. Balle, entrambe le cose. Povero, non lo sono più di prima. Solo, piuttosto, questo sì. Incredibilmente, definitivamente solo: almeno, così mi sento. Per questo quel “ ci son qua io” non fa altro che acuire dolorosamente la mia solitudine, perché, semplicemente, non è vero che ci sei qui tu. Tu non c’eri, prima. Tornerai a non esserci da domani. Ci sei oggi, ok. E dimmi: per quanto? Due ore? Tre ore? Ma nemmeno! Una manciata di minuti  di quelle due, tre ore del raduno di Natale,  prima che un altro parente di turno mi s’accosti, stesso collo obliquo, stesso occhio languido, a farmi capire Ci son qua io. E il precedente, con un certo sollievo neanche troppo dissimulato, prende il largo e mi lascia al soccorso del nuovo arrivvato.

Le feste sono un tormentoso punteruolo per chi è rimasto solo. Sembrano fatte apposta per girare in veleno tutto lo zucchero che ci viene riversato addosso in questi giorni. Il guaio è che il tormentoso punteruolo puo’ diventare anche l’alibi e il vestito da indossare per cercare di sfuggire dalle cose come sono. Fare di me il protagonista di una tragedia:  mi dà comunque un ruolo e mi assegna  una parte. Schifosa, certo. Ma sempre ruolo e parte. Più comodo e piu’ facile che non inventarsi qualcosa senza sapere bene cosa.

Per cui no. Stasera me ne sto solo. Me ne sto chiuso in casa. Stacco anche il cellulare. Solo. Voglio stare solo.

Ho già tirato tardi, per ridurla a poche ore , questa serata maledetta,  del conto alla rovescia e degli AUGUUUURI, del fracasso e dei lustrini. Ho giocato di tattica. Ho pensato: mi stanco moltissimo quest’oggi,  così stasera me ne crollo addormentato e via, mi sveglio ad Anno Nuovo fatto. Furbo, io.  Così oggi, nel  bel mezzo di un pomeriggio insulso, mi sono alzato dal telecomando e dalla poltrona, mi son vestito, scarpe comode e giubbotto imbottito, sciarpa e berretto per poter star fuori un sacco, e via: mi son messo a camminare. Per andare dove? Da nessuna parte.  Incredibile quanta strada si può fare, se uno si muove senza meta, girando a ghiribizzo: una via qua, un’altra là, prendo quella sopra, giro in quella sotto. Una gamba qua, una gamba là…. No, questa è la città vecchia di De André, sono di nuovo sotto attacco di rimembrite e di anzianite galoppante. Via, via. Camminare camminare.

Certo, fa un freddo becco. Certo, un caffè me lo prenderei volentieri. Le serrande nei negozi si abbassano una dopo l’altra, è già buio, sembra che un  comando misterioso sia stato impartito, e ovunque il guardo giro ( turna, daccapo con la citite), bruuun, un locale chiude. Ma a un certo punto, passo davanti a un quattro vetrine rutilante di luci intermittenti come un mega flipper anni sessanta: qualcosa di aperto. Qualcosa, sì. Non saprei dire cosa, però. Comunque tra tavoli, divani, video, installazioni, cactus di plastica , intravvedo un bancone da bar, qualcuno dietro, qualcuno davanti. Perfetto: coffee time.

Entro. Qualcuno canta. Non è la musica, per quanto sparata a palla, che mi colpisce, letteralmente,  l’orecchio. Ma la voce  (le voci, sgangherate)  di gente che canta sulla musica, dal vivo: giro lo sguardo e vedo la fonte del casino. Un variopinto schermo, un gruppo dedito a un ululato karaoke.  Ordino, per meglio dire, urlo “un caffè!”  Incredibilmente, mi sentono  e mi servono. Chiudo gli occhi e ingollo il contenuto rovente e amarissimo della tazzina: a me il caffè amaro fa schifo, dunque nella mia visione auto- fustigatrice della serata, inconsciamente non me lo sono zuccherato. Mentre mi ustiono palato e gola, sento che quelli attaccano un evergreen della mia epoca ( che vecchio che sono,  senti come parlo) , che peraltro tutti sembrano conoscere benissimo. Sto ad  occhi chiusi e mi becco a anticipare le parole, a suggerire mentalmente le note giuste agli stonati,  a sorridere impassibile alle stecche più vistose, a cantare a muta squarciagola il ritornello.

Nel tavolo vicino hanno acceso quei generatori d’incenso che fetono terribilmente, ma che non mi danno alcun fastidio. Canzoni.Fumo. Allegria. Socchiudo una palpebra e mi guardo, uno per uno, i cantori karaocanti. Mi prende una botta di tenerezza davanti a quei vent’anni così clamorosamente ventenni. Chissà perché si dice che quella è una età magnifica. Balle, pure queste. E’ un ‘età piena di casini, di sbattimenti, di sconfitte e di problemi. E’ da lì, che mi viene la tenerezza. Non è malinconia, o rimpianto. Ma simpatia. Tifo. Partecipazione. Vai che ce la fai. Vai e spacca. Puoi farcela, nonostante tutto quanto c’è. Il ragazzo del bar mi allunga uno di quei fiori di plastica che ballonzolano al ritmo di musica, e sulla impennata delle note, quel petalaio plasticato di inverosimile tinta evidenziatore parte a muoversi a tempo che è un piacere. Non so nennemo chi sia stato l’ultimo  (se c’è mai stato qualcuno) che mi abbia dato un fiore- vero o finto- in vita mia. Guardo quel coso indiavolato e non posso che ridere , perché mi viene la risata.

Il barista ricambia.

Chi è? Come si chiama? E’ li’ da tanto? E chi lo sa? E mi prendo ben guardia di chiederglielo. Va bene così. Non ho più fretta di uscire a ravanare pensieri abortiti e a macinare passi bighelloni tanto per fare il Werther: sì, lui, quello dei dolori del giovane. Mi ordino un aperitivo. Mi arriva un taglierino. Salumini. Formaggetti. Olivelle. Come se fossero i primi che assaggio in vita mia. Il karaoke contempla adesso un giro di birra. Partecipo al giro di birra.  Buona. Fredda. Calda mente scende. Ma la bevo con circospezione. Mi viene in mente la pubblicità di quel vino dove alla fine si esorta “ beviamo responsabilmente”: roba da far venir voglia di  scolare bottiglie a manetta, con la mia allergia irrazionale  al buonsenso e ai divieti.

Intanto la musica va avanti, le canzoni pure. Sai che c’è? Che io ci sto bene. Scattano in automatico tutti i sensori di allarme della mia psiche. Stai bene? TU? E come è possibile, scusa?  E come mai?  Ma non sei solo? Non sei abbandonato? Non impazzivi di dolore? Embé? rispondo al primo punto di domanda. Embé? rispondo al secondo. Embé, rispondo al terzo. Il quarto si dilegua: se la dà a gambe, perché capisce che non è serata.  Dopo mezz’ora, vedo che pericolosamente l’orologio avanza verso l’aborrita mezzanotte. E io me ne sto in un locale, invece che martoriarmi l’anima nel gelo della mia casa vuota.  Sei guarito? mi chiedo. E mi mando immediatamente al diavolo. Ma che razza di domanda mi sto facendo? E poi: mi chiedo e mi rispondo da solo?  Questa volta la risata mi sale dalla gola, e non riesco a fermarla: ma forse, non ne ho neanche voglia, di stopparla lì.

Basta. Vado. Pago . Esco.

Proprio mentre il karaoke spara, nella versione cover di Vasco, il vecchio brano di Battisti, la Compagnia, mi sembra,  e apro la porta del locale, che ormai è caldo come un fornetto pronto all’uso. Giusto mentre una ragazza dalla voce incerta ma potente urla nel microfono “ Felicità-aà-aà”

No, ridacchio uscendo. Non è un bicchiere di vino con un panino,  secondo la parola di Albano e Romina. Questa la so benissimo e me la sgolo nella mente:

Felicità-à-à

Ti ho perso ieri ed oggi ti ritrovo già

Tristezza va

Una canzone il tuo posto prenderà

Sono fuori. Piove. Del gomitolo di strade che mi si srotola davanti, non mi importa una benamata cippa.

 

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LA COMPAGNIA
di Lucio Battisti
Mi sono alzatoMi son vestitoE sono uscito solo, solo per la stradaHo camminato a lungo senza metaFinché ho sentito cantare in un barFinché ho sentito cantare in un bar
Canzoni e fumoEd allegriaIo ti ringrazio sconosciuta compagniaNon so nemmeno chi è stato a darmi un fioreMa so che sento più caldo il mio cuorSo che sento più caldo il mio cuor
FelicitàTi ho perso ieri ed oggi ti ritrovo giàTristezza vaUna canzone il tuo posto prenderà
Abbiam bevutoE poi ballatoÈ mai possibile che ti abbia già scordato?Eppure ieri morivo di doloreEd oggi canta di nuovo il mio cuorOggi canta di nuovo il mio cuor
FelicitàTi ho perso ieri ed oggi ti ritrovo giàTristezza vaUna canzone il tuo posto prenderà
FelicitàTi ho perso ieri ed oggi ti ritrovo giàTristezza vaUna canzone il tuo posto prenderà”
Fonte: LyricFind
Compositori: Carlo Donida Labati / Giulio Rapetti Mogol
Testo di La compagnia © Sugarmusic s.p.a., Universal Music Publishing Group
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Clicca qui per il video:

* Riscritture inconsapevoli: canzoni scritte dai loro autori per motivi e contesti tutti diversi, eppure in grado di rappresentare, almeno a qualche orecchio, un pezzo di Scrittura che si riscopre lì dentro, come inconsapevolmente richiamata.

 

 

Betsabea, la bella

Scritto da   MARIA NISII.

 

Genealogia al femminile (4).

 

L’anno dopo, al tempo in cui i re sogliono andare in guerra, Davide mandò Ioab con i suoi servitori e con tutto Israele a devastare il paese degli Ammoniti; posero l’assedio a Rabbà mentre Davide rimaneva a Gerusalemme. 2 Un tardo pomeriggio Davide, alzatosi dal letto, si mise a passeggiare sulla terrazza della reggia. Dall’alto di quella terrazza egli vide una donna che faceva il bagno: la donna era molto bella di aspetto3 Davide mandò a informarsi chi fosse la donna. Gli fu detto: «È Betsabea figlia di Eliàm, moglie di Uria l’Hittita». 4 Allora Davide mandò messaggeri a prenderla. Essa andò da lui ed egli giacque con lei, che si era appena purificata dalla immondezza. Poi essa tornò a casa.5 La donna concepì e fece sapere a Davide: «Sono incinta».(2Sam 11)

Betsabea, quarta figura femminile citata nella genealogia matteana, arriva nella vita del re Davide quando questo grande personaggio della storia biblica è ormai maturo e ha raggiunto un certo distacco dalle imprese militari, tanto che il racconto inizia rimarcando come “al tempo in cui i re sogliono andare in guerra, Davide…rimaneva a Gerusalemme”.Di fatto non ci viene detto perché Davide non sia partito per la guerra e tutto l’episodio, come altri brani biblici, presenta una serie di ambiguità. Il re si alza, passeggia sulla terrazza e vede una donna. La pigrizia e la vita rilassata del re, mentre il suo esercito combatte, sembrano la causa di quello che seguirà. Il narratore riferisce una storia turpe,eppure presenta i fatti in modo neutrale e senza formulare giudizi. Al lettore resta il compito di indagare negli interstizi.

Il re di Israele poteva avere tutte le donne che voleva, ma non la donna di un altro, in quanto anch’egli sottoposto alla legge di Dio: “Non commetterai adulterio, non desidererai la moglie del tuo prossimo (Es 20,14.17; Dt 5,18.21).Quando Davide chiede informazioni su di lei, Betsabea è presentata come figlia e moglie, probabilmente perché padre e marito fanno parte del gruppo militare scelto del re: Betsabea è infatti figlia di Eliàm e moglie di Uria l’Ittita. Ma prima ancora di conoscerne l’identità, il lettore scopre che è bella, molto bella. Quanto al resto dell’episodio, la donna sembra semplicemente subire le altrui manovre. Descritta come mero soggetto passivo, non è dato conoscere il suo coinvolgimento né se ella sia consenziente.Si limiterà a far sapere della gravidanza, perché in quel caso in gioco c’era la condanna che pendeva sulle donne adultere (Lv 20,10).

“Avete mai visto lapidare una donna, Natan? Io sì. Mio padre mi ci portò da bambina, per mettermi in guardia su ciò che poteva capitare a una moglie infedele. Quando ho visto che il sangue del mese non veniva, mi è subito tornata in mente quella poveretta, i suoi gemiti, la testa maciullata alla fine non si capiva più che era una faccia” (Geraldine Brooks, L’armonia segreta p. 208)

Carlo Francesco Nuvolone, Susanna al bagno (XVII sec)

 

Dopo lo scontro con Golia, l’episodio di Davide e Betsabea è tra i più noti del ciclo davidico. A partire dalle rappresentazioni iconografiche, Betsabea ricorre più frequentemente di tutte le altre mogli e di tutti gli altri personaggi che hanno fatto parte della vicenda di re Davide. Indubbiamente il lato voyeuristico della storia contribuisce, come l’immagine della nudità in cui è perlopiù ritratta lascia intendere. La scena di Betsabea che fa il bagno la immortala nell’esibizione dei seni e nella posa lasciva, alla stregua di Susanna nel libro di Daniele c. 13, che secondo alcuni autori sarebbe una riscrittura della vicenda davidica.

Condannata a essere bella, Betsabea, più che soggetto, è soprattutto oggetto dello sguardo altrui. Anche nelle riscritture:

“La donna era uscita nella corte dietro la dimora dei Cretei e dei Peletei, aveva fatto il bagno e ora si stava asciugando con un grande telo di lino, i suoi capelli ondeggiavano. Persino Safan, che ancora ignorava che cosa fosse il desiderio, capì all’istante che era quasi spaventosamente bella. Il re sporse la lingua fra le labbra e protese il capo pesante e bramoso come se cercasse di raggiungere le fragranze della donna e cogliere il suono morbido dello strofinìo delle sue membra; aveva il respiro pesante e ansimava” (Torgny Lindgren, Betsabea p. 13)

La bellezza nella Bibbia è un dato di duplice segno: da un lato sembra connotare la donna come essere di desiderio e adatta all’amore, dall’altra il potere seduttivo può piegare (o essere piegato) a scopi più o meno nobili e fin degenerare in perversione e violenza. Abbiamo già visto come Sara, in virtù della sua bellezza, aveva fatto temere Abramo per la propria vita, ragione per cui egli chiede alla moglie di farsi passare per sua sorella. È bella Giuditta (Gdt 8,7; 12,13), donna fatale per l’assiro Oloferne ma mezzo di salvezza per il popolo ebraico minacciato, la quale astutamente si veste e adorna per rendersi “molto bella, tanto da sedurre qualunque uomo l’avesse vista” (Gdt 10,4). È bella d’aspetto Ester, la fanciulla che diverrà regina e che salverà il suo popolo dai raggiri del consigliere di corte. Naturalmente è tale Susanna (Dn 13,31), definita inoltre “assai delicata”come a porla fuori dalla portata dei “vecchioni” che hanno posato gli occhi su di lei. Ripetutamente bella è detta la giovane del Cantico dei Cantici:

Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella!
Gli occhi tuoi sono colombe,
dietro il tuo velo.
Le tue chiome sono come un gregge di capre,
che scendono dal monte Gàlaad.
(Ct 4,1)

Ma appunto la bellezza può assumere valore di altro segno, se unica e vuota dotazione, ingannevole incantamento. Diventa perciò attributo ineluttabile nella metafora del tradimento a Dio con l’immagine della prostituta.

Un anello d’oro al naso di un maiale,
tale è la donna bella ma senza cervello.
(Pro 11,22)

È per le tante seduzioni della prostituta,
della bella maliarda, della maestra d’incanti,
che faceva mercato dei popoli con le sue tresche
e delle nazioni con i suoi incantesimi.
(Na 3,4)

 

Marc Chagall, Davide e Betsabea, 1955

 

Betsabea, femme fatale, è però anche donna del destino, in quanto madre della futura discendenza davidica:

“La scorsi in modo distratto, mi allontanai dal parapetto, continuai a camminare sulla terrazza, e bruscamente dovetti riavvicinarmi a quell’improvviso osservatorio: per rivederla, per guardarla. Mi sembrò bellissima: ma la sola bellezza sarebbe stata sufficiente a farmi cadere nel pozzo dove più tardi mi ritrovai? Ne dubito. Era bella, sì, e lo è tuttora, ma non era affatto l’incarnazione suprema della bellezza. E io non avevo forse tutte le donne che volevo? Bisogna dunque ammettere che qualcosa di diverso intervenisse”(Carlo Coccioli, Davide p. 258).

Ci sono donne inevitabili nella vita degli uomini e Batshéva non era un capriccio di David. Era la donna che poi gli avrebbe partorito il preferito fra i figli, Salomone, era il destino scritto in un libro”(Erri De Luca, «Il Salmo degli assassini» in Ora prima, p. 107).

Donna fatale, passiva e adultera suo malgrado, dopo l’assassinio del marito ordito dal re, Betsabea sembra catapultata in un nuovo ruolo: assolve ai doveri del lutto, diventa moglie di Davide e partorisce un figlio. Tutto appare normalizzato, adulterio e omicidio come assorbiti dal correre degli eventi, ma i commentatori fanno notare che il racconto continua a parlare della donna sempre come «moglie di Uria», un fatto che pare non possa essere modificato neppure dal nuovo matrimonio.

«Il re Davide è rimasto ormai preso nel vortice inarrestabile del peccato. E tutto è tragicamente cosificato, per salvaguardare gli interessi e il potere del re: la donna usata per il piacere di una notte, il bambino considerato come un oggetto di cui disfarsi falsamente attribuendone la paternità a un altro, il fedele suddito a cui ha cercato di togliere dignità e volontà facendolo ubriacare e a cui poi ha tolto anche la vita, rendendolo definitivamente ‘cosa’: un cadavere inanimato. È il meccanismo tipico del peccato, che ingrandisce sempre più: Betsabea è bella, allora la si prende; rimane incinta, allora si manda Uria da lei; Uria non ci va, allora bisogna ucciderlo. Si è cominciato con un adulterio e si finisce con un omicidio, per perpetrare il quale si fanno perire anche altri innocenti, ancora altre vittime inconsapevoli travolte dal dilagare inarrestabile del male» (Bruna Costacurta, Con lo scettro e con la spada, p. 188).

Betsabea uscirà parzialmente dal ruolo passivo in cui la narrazione l’ha racchiusasolo verso la fine del ciclo davidico, per esigere una promessa a vantaggio del figlio Salomone.  Eppure le riscritture letterarie interpretano variamente il suo personaggio ma mai con tratti passivi, evidentemente frutto della sensibilità moderna, ma pure con lo scopo di ridonare profondità a una figura appena abbozzata che pare aver molto da dire ad autori e autrici contemporanee.Perché appunto in quella storia – come in tante altre – quella che manca è proprio la voce femminile.

“Quando era tornata nella propria dimora aveva d’improvviso incominciato a tremare di debolezza o forse di febbre, quasi avrebbe desiderato stendersi sulle lastre di pietra del pavimento come durante il terremoto, poiché in vero stava tremando come per un terremoto. Ma riuscì a domare i polmoni ansimanti e le membra fiaccate, con uno sforzo che le fece dolere il cuore e offuscare lo sguardo, compì le abluzioni con gesti all’apparenza calmi ed abitudinari, si pettinò con cura i capelli e si preparò per la notte.” (Torgny Lindgren, Betsabea p. 32)

«Avete idea di cosa passai quella notte? David mi adoperò come un… ricettacolo, e con quale furia! I segni mi sono rimasti addosso per un mese, avevo il terrore che Uriyah li scoprisse […] Quando mi fece allontanare dalla reggia, mettendomi in mano un gioiello, neanche fossi una meretrice, la cosa finì lì per lui. Ma non per me. Temevo che qualcuno riferisse a Uriyah che ero stata disonorata. Non l’avrebbe sopportato, perché per Uriyah l’onore era tutto» (Geraldine Brooks, L’armonia segreta p. 208)

“…le storie ci permettono anche di vedere il nostro male. Il re Davide sa bene di compiere il male quando non solo giace con Betsabea, la moglie del suo fedele comandante Uria, assente perché combatte per lui contro gli Ammoniti, ma addirittura ordina che venga mandato a combattere in prima fila e in luogo esposto affinché muoia e lui possa nascondere il suo peccato. Sa che è male ma il suo conoscere le leggi del Signore non lo salva. Lo salva la narrazione del profeta Natan che gli racconta una storia di sopraffazione in cui il re Davide si può riconoscere e così il suo senso di giustizia si risveglia. Lascia il delirio di essere assoluto, sovrano che tutto può, e riconosce l’appartenenza a una storia in cui ha per compagno fedele il Signore.” (Mariapia Veladiano, “La vita si fa storia”, Osservatore romano7 maggio 2020)

Amnon e Tamar (anonimo, XVII sec.)

 

Prima di dare vita a nuovi racconti, la Bibbia è già a sua volta una miniera di riscritture. E se, come visto, Betsabea al bagno ha dato probabilmente lo spunto all’episodio di Susanna nel libro di Daniele, anche la violenza di Amnon figlio di Davide sulla sorellastra Tamar ripete solo in modo più drammatico il comportamento che Davide ha avuto con Betsabea [secondo alcuni autori questo episodio di 2Sam 13 sembrerebbe lì posto proprio con l’intenzione di denunciare il comportamento del re come uomo e come padre].

Dopo questo, accadde che, avendo Assalonne, figlio di Davide, una sorella molto bella, chiamata Tamar, Amnon figlio di Davide si innamorò di lei.(2Sam 13,1)

La lussuria di Davide nei confronti di Betsabea è marchio indelebile nella sua storia, tanto da restare attaccato alla sua discendenza. L’impulso di un momento diventa un gorgo senza fondo. E qui non occorre spiegare – tutti gli uomini e le donne ne hanno esperienza. Eppure biblicamente, forse, c’è un di più:

«Un giorno David osò chiedere a Iahvè perché lo trattava così. Voleva conoscere la vera differenza fra i patriarchi e lui. Iahvè disse: ‘I patriarchi li ho messi alla prova. Tu non sei stato messo alla prova. La tua prova sarà una donna’» (Roberto Calasso, Il libro di tutti i libri p. 52).

La bellezza di Betsabea è la prova per il grande re, che non mancava di mogli e concubine e che nella vita ha sperimentato tutti i ruoli, compresi quello di perseguitato e persecutore. Davide è stato un re di sangue e di passione.

La storia della scrittura sacra si compie in mezzo al sangue e alla miseria, non nella quiete di un convento. Procede tra scorie e purificazioni, tra cadute e rinascite. Riconoscere un filo di provvidenza qui è meno ragionevole che altrove, eppure ci dev’essere e il credente, non io, qui è chiamato a pronunciare un altro dei suoi sofferti amèm” (Erri De Luca, Le sante dello scandalo p. 42).

Sangue e miseria sono l’impasto di fango e soffio di vita di cui siamo fatti. Questo è l’umano, chimera mostro prodigio, cloaca di incertezza e di errore:

“Che chimera è dunque l’uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio? Giudice di tutte le cose, ottuso lombrico, depositario del vero e cloaca di incertezza e d’errore… Prendi atto, o superbo, di quale paradosso sei a te stesso! Umiliati, ragione impotente! Taci, debole natura, impara che l’uomo va infinitamente al di là dell’uomo” (Blaise Pascal)

 

Betsabea e la sua bellezza fatale ci hanno condotti a riflessioni di tono quaresimale, più che natalizio. Non era previsto… Eppure, forse, qualcosa si può sempre salvare. Una bellezza altra, che non si sciupa con il tempo, resa eterna dalla memoria e dalla parola poetica. Come l’eterna gioventù degli amanti del Cantico… E in fondo Davide generò Salomone, autore del Cantico secondo la tradizione…

La bellezza delle donne che ci hanno cambiato la vita
più profondamente di cento rivoluzioni
non si perde, non dilegua con gli anni
per quanto svaniscano i tratti
per quanto si deformino i corpi.
Resta nei desideri suscitati un tempo
nelle parole giunte anche in ritardo
nell’esplorazione incerta della carne
nei drammi mai venuti alla luce
nel riflettersi delle separazioni,
nelle identificazioni totali.
La bellezza delle donne che cambiano la vita
resta nelle poesie scritte per loro
rose perenni che effondono sempre lo stesso profumo,
rose perenni, come da sempre dicono i poeti.

Patrikios Titos, Rose perenni

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  • In copertina: Rembrandt, Betsabea con la lettera di David (1654)

 

 

I messaggi dell’Angelo a Giuseppe

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

In questo tempo di Avvento e di Natale, l’elemento che caratterizza il racconto della venuta di Gesù nel Vangelo di Matteo è il “sogno” che Giuseppe ha in più momenti da quando entra in scena, nei quali vi è sempre un angelo che annuncia e ordina la volontà di Dio. Sono proprio gli angeli che si mostrano a ogni evento importante e in episodi significativi nelle sacre scritture; la loro funzione principale è quella di portare messaggi, insieme al compito di rivelare  la volontà di Dio agli uomini.

Sono quattro i sogni in cui il protagonista è Giuseppe. Nel primo, l’angelo (del Signore) gli annuncia: “Giuseppe, discendente di Davide, non devi aver paura di sposare Maria, la tua fidanzata: il bambino che lei aspetta è opera dello Spirito Santo” (Mt 1-20,21). Nel secondo, dopo la nascita, sempre l’angelo (di Dio) gli ordinaÀlzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto. Erode sta cercando il bambino per ucciderlo. Tu devi rimanere là, fino a quando io non ti avvertirò” (Mt 2, 13). Il terzo, dopo la fine del racconto dei Magi e della morte di Erode: mentre Maria e il Bambino sono in Egitto, Giuseppe riceve nuovamente ordini dall’angelo (del Signore). Infine il quarto dove, gli ordina di riportare la famiglia a Nazaret: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d‘Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino. Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno» (Mt, 2-19,23).

Nelle varie raffigurazioni non sempre è immediato  riconoscere a quale dei quattro sogni ci si riferisca, anche per la mancanza di dettagli nelle scene descritte nei Vangeli canonici . Gli artisti, nel corso dei secoli, si sono così immaginati questi avvenimenti in vario modo facendo riferimento anche ai Vangeli apocrifi. Nell’iconografia comune Giuseppe dorme sdraiato o seduto, con un braccio appoggiato a un piano e la mano che sorregge la testa, mentre l’angelo gli sussurra la volontà divina.

Sintetico è il “Sogno di Giuseppe” in uno dei venti capitelli di ciò che resta del chiostro nel monastero di San Juan de la Peña, in Aragona (Spagna) del tardo XII secolo, in cui vediamo Giuseppe che dorme, all’apparenza anche profondamente, e un angelo, sospeso in volo, che lo tocca e gli parla, ma non vi è nessun altro elemento che possa darci la certezza che sia l’annuncio del concepimento di Gesù di Maria.

 

 

Insolita è la rappresentazione in un capitello di Notre-Dame-du-Port a Clermont-Ferrand: Giuseppe è in piedi e ben sveglio: un Angelo gli tira la barba dandogli la notizia.

 

 

Nell’opera di fine ottocento degli ultimi anni di attività del pittore ticinese Antonio Ciseri per la chiesa di S. Maria delle Grazie a Firenze è la presenza del giglio in mano all’angelo, simbolo della purezza della futura sposa, che indica l’Annuncio.

 

 

Un altro dipinto, parte di un ciclo di decorazioni per la chiesa St. Hugues de Chartreuse iniziato nel 1953 e terminato nel 1986, del pittore Jean-Marie Pirot (Arcabas), è tutto incentrato sulla luce della fiaccola dai colori notturni, retta dall’angelo, che crea una scia luminosa, come se volesse coinvolgere Giuseppe nel disegno divino dell’Annuncio. Gli occhi di Giuseppe dormiente, oscurati, riflettono il medesimo sguardo dell’angelo che è chino su di lui con la bocca aperta e la mano sulla guancia vicino alla bocca, nell’atto di comunicargli il messaggio di Dio.

Non è così chiaro, invece, a quale sogno si riferisca l’opera in marmo nella Cappella Capocaccia in Santa Maria della Vittoria a Roma, di Domenico Guidi, di fine settecento; probabilmente si tratta di quello in cui vi è l’ordine di andare in Egitto, mostrato con il gesto perentorio dell’angelo che punta l’indice della mano destra davanti a sé, mentre con il suo braccio destro inizia a scuotere delicatamente Giuseppe.

 

Anche il piccolo dipinto su tela del 1645, del pittore olandese Rembrandt van Rijn, conservato nello Staatliche Museen di Berlino, fa pensare all’ordine dell’angelo di fuggire in Egitto perché, completamente immersi nell’oscurità, rispetto a lui illuminato, compaiono Giuseppe, Maria e il Bambino.

 

Il protovangelo di Giacomo e lo pseudo Matteo ispirano la produzione, in ambito bizantino, della doppia Annunciazione a Maria e il sogno di Giuseppe, mosaico del V secolo d.C. al centro dell’arco trionfale della Chiesa Santa Maria Maggiore a Roma; è un’iconografia che si discosta ampiamente da quella più nota: si snoda in una sorta di immagine continua, senza alcuna partizione architettonica, con Maria in abiti di una nobile romana, seduta su un piccolo trono con il fuso della matassa di porpora per il velo del Tempio che dovrà essere squarciato. La colomba dello Spirito Santo e l’angelo che le porta l’annuncio volteggiano su di lei. Tre angeli la circondano, l’assistono e sembrano parlarle. Un quarto angelo fa, invece, da raccordo a un quinto che porta l’annuncio a Giuseppe dall’aspetto giovanile, anch’egli in abiti romani, che non dorme ed è in piedi. È certo che sono fidanzati perché a sottolinearlo vi sono due abitazioni distinte alle spalle di Maria e Giuseppe.

 

 

Nella tavoletta in avorio della cattedra di Massimiano del VI sec. d.C., conservata al Museo arcivescovile di Ravenna, abbiamo insieme due racconti tratti da due evangelisti perché è raffigurato il Sogno di Giuseppe (Matteo) nella parte superiore con un angelo, intento a parlare con Giuseppe che dorme disteso, e in basso il Viaggio verso Betlemme (Lc 2,4-5) dove Maria, con il volto pensieroso, gravida, su un asino, e il braccio destro attorno al collo di Giuseppe che la segue a piedi col volto stanco e preoccupato. Le redini della cavalcatura sono tenute da un angelo.

 

Sieger Köder, pittore tedesco contemporaneo e sacerdote, scomparso nel 2015, che ha illustrato quasi tutta la Bibbia, interpreta la doppia Annunciazione a Giuseppe e a Maria destinata all’altare maggiore della chiesa di San Giuseppe di Bad Urach in Germania. Il dipinto, parte di un trittico, mostra nella parte superiore due grandi mani (di Dio) che sorreggono una specie di bolla con dentro un bambino che protende le braccia in basso verso Maria, in posizione centrale con lo sguardo verso l’alto e le braccia che mostrano a Dio il promesso sposo Giuseppe, disteso, che sta dormendo con una mano sotto la testa. Manca la figura dell’angelo! Il sogno di Giuseppe è direttamente la rivelazione che riceve dall’angelo: il Figlio della sua promessa sposa viene da Dio!

 

Koder ha la capacità di metterci davanti alle due diverse prospettive, la materna di Maria e la paterna di Giuseppe; solo leggendo lentamente questa immagine si potrà comprendere ciò che di sacro ha da comunicare.

Rut, la compagna

Scritto da  MARIA NISII.

Genealogia al femminile (3)

 

Rut è una moabita, appartiene cioè alla stirpe che discende da Lot il quale, fuggito da Sodoma, si ritira con le figlie sulle montagne. Come già visto in Tamar, anche queste giovani temono di restare senza discendenza e per questo ricorrono a un escamotage: ubriacano il padre e giacciono con lui. Da queste unioni incestuose nascono Moab e Ammon, capostipiti di moabiti e ammoniti, detti quindi popoli incestuosi (Dt 23,4).

Chagall, Noemi e le sue nuore

 

La storia di questa giovane moabita si incrocia con quella di una famiglia ebrea, che ha lasciato la sua terra a causa della carestia, sposandone uno dei figli. Tuttavia prima il padre e a seguire i due figli, periscono uno dopo l’altro. Sopravvive la sola madre, Noemi, che libera le nuore da ogni responsabilità nei suoi confronti, desiderando tornare in terra d’Israele. L’invito della donna funziona però solo per una delle due, l’altra – Rut, appunto – non si staccò da lei(Rut 1,14) dicendole: «Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch’io; e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io, e là sarò sepolta. Il SIGNORE mi tratti con il massimo rigore, se altra cosa che la morte mi separerà da te!» (vv. 16-17).

“E Rut si attaccò in lei” (1,4). È un forte verbo adesivo, attaccarsi in, costruzione usata in relazione alla divinità: ‘Per amare Iod tuo Elohim, ascoltare nella sua voce e attaccarti in lui’” (Dt 30,20). (Erri De Luca, Le sante dello scandalo, p. 32)

Forse meno spiazzante della confessione di fede nel Dio d’Israele della straniera Raab, tuttavia anche la moabita Rut, scegliendo di legarsi alla suocera, si lega a un Dio che non conosce. Come Raab dimentica la sua appartenenza alla gente di Gerico, anche Rut lascia la sua terra – come già Abramo – e tutto quello che ha, per seguire Noemi. Come per Raab non vi erano ragioni razionalmente deducibili per il suo modo di agire, anche nel caso di Rut il racconto non si preoccupa di fornire spiegazioni. D’altronde non è per un calcolo razionale che i discepoli risponderanno alla chiamata di Gesù, che li inviterà a lasciare tutto per seguirlo (Mt 19,21).

“E tornò Naomi e Rut la Moabita sua nuora con lei che torna dai campi di Moab” (1,22). L’attaccamento di Rut le dà diritto al verbo tornare: anche se non è mai stata in Israele, la sua venuta ha la forza e il diritto di un ritorno. Il suo attaccamento le procura l’accredito dell’appartenenza (Le sante dello scandalo p. 32).

Anche i midrash si soffermano sul particolare dell’attaccamento, la devequt, e ricordano come il nome Rut possa significare anche “la compagna” [da re’ut, compagna o amicizia], colei che rimane attaccata, colei che resta.

 

Chagall, Rut la spigolatrice

 

Giunta in terra d’Israele con Noemi, in quanto donna Rut non può essere assunta a giornata e per sopravvivere è costretta a spigolare quanto lasciato appositamente ai margini dei campi, secondo le prescrizioni in favore dei poveri: “quando facendo la mietitura nel tuo campo avrai dimenticato qualche spiga non tornerai indietro a prenderla; sarà per lo straniero, l’orfano e la vedova!” (Dt 24,19). Per quanto in condizione di povertà e mancanza, Rut è indubbiamente guidata dal buon istintoper caso, si dice in 2,3 – grazie al quale arriva nel campo di Booz, che scoprirà essere un parente di Noemi [secondo Mt 1,5 Booz sarebbe figlio di Raab]. L’uomo la nota, si informa sul suo conto e subito la prende sotto la sua protezione dicendole: «Ascolta, figlia mia; non andare a spigolare in un altro campo; e non allontanarti da qui, ma rimani* con le mie serve; guarda qual è il campo che si miete, e va’ dietro a loro. Ho ordinato ai miei servi che non ti tocchino; e quando avrai sete, andrai a bere dai vasi l’acqua che i servi avranno attinta» (2,8-9). [*Booz invita Rut a restare “attaccata” alle sue serve].

Booz non aveva alcun obbligo nei suoi confronti, ma ne apprezza l’attaccamento alla suocera e per questo non guarda alle sue origini. Ancora una volta, probabilmente anche in vista del futuro che li attende, la narrazione svela il suo taglio teologico, attribuendo all’uomo parole che pongono la sua umana benevolenza sotto l’egida divina: «Mi è stato riferito tutto quello che hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito, e come hai abbandonato tuo padre, tua madre e il tuo paese natìo, per venire a un popolo che prima non conoscevi. Il SIGNORE ti dia il contraccambio di quel che hai fatto, e la tua ricompensa sia piena da parte del SIGNORE, del Dio d’Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti!» (2,11-12).

 

Chagall, Rut ai piedi di Booz

 

Venuta a sapere della benevolenza verso la giovane da parte di un suo parente, la suocera istruisce Rut su quanto deve fare: lavarsi, profumarsi e poi aspettare che Booz vada a dormire, quindi sollevare la coperta dal lato dei piedi e coricarsi accanto all’uomo [alcuni autori interpretano questo passo con “ti denuderai ai suoi piedi”, come fanno anche alcune rappresentazioni artistiche]. Quando Booz si accorge della presenza di Rut, non la tocca [i commentari rabbinici sottolineano questo dato, richiamando il significato del nome Booz, “in lui la forza” – in questo caso la forza di dominarsi], ma si alza dal giaciglio e decide di chiedere il riscatto della giovane al parente più prossimo che avrebbe potuto vantare diritto su di lei [il riferimento è alla legge del levirato, che vincolava il parente più prossimo a dare una discendenza a quello defunto].

A giusta conclusione del buon esito della trattativa, gli anziani chiamati a testimone formulano una sorta di eziologia della storia che verrà: «Ne siamo testimoni. Il SIGNORE conceda che la donna che entra in casa tua sia come Rachele e come Lea, le due donne che fondarono la casa d’Israele. Spiega la tua forza in Efrata, e fatti un nome in Betlemme! Possa la discendenza che il SIGNORE ti darà da questa giovane rendere la tua casa simile alla casa di Perez, che Tamar partorì a Giuda!» (4,11-12).

 

Sarra e Rebecca, Iudìt e colei

Che fu bisava al cantor che per doglia

Del fallo disse “Miserere mei”

(Paradiso XXXII, 10-12)

Da Rut e Booz nasce infatti Obed, padre di Iesse, padre di Davide. Ma per fiorire questa storia ha avuto bisogno del gesto scandaloso di una donna, che si infila nel letto di un uomo buono, compiendo un atto seduttivo che viene tuttavia benedetto dal Signore. Prima di entrare nella genealogia del Messia, il libretto di Rut già si concludeva con la posterità di questa giovane moabita, attaccatasi alla suocera e dunque al Dio di questa, una divinità a lei sconosciuta ma che si “costruirà” una natura umana anche grazie a lei e alla sua femminea intraprendenza.

 

Chagall, Incontro di Rut e Booz

 

Il giacere di Rut ai piedi di Booz mostra tutta l’intraprendenza femminile, frutto della complicità di Rut e Noemi. Booz ne sarà gratificato riconoscendo la scelta della donna di non legarsi a uomini più giovani: «Sii benedetta dal Signore, figlia mia! Questo tuo secondo atto di bontà è migliore anche del primo, perché non sei andata in cerca di uomini giovani, poveri o ricchi…» (3,10). Dunque Booz sembra colpito ed emozionato [si sveglia con un brivido], ma appunto l’iniziativa non è sua. E se, a dispetto dei tempi, le donne bibliche sanno anche essere attive su fronti inattesi, il protagonismo femminile nella danza amorosa non ci è certo ignoto.

Nel Cantico dei Cantici, su 116 versetti ben 68 sono recitati dalla protagonista anonima, in un racconto in poesia, che meglio si adatta a mettere in scena l’amore. E nei versi del Cantico la donna è a tal punto audace da avere il coraggio di andare in cerca dell’amato a costo di passare per una prostituta [una che si vela – 1,3], trasgredendo convenzioni sociali con la forza di un amore che l’autore non disdegna di caratterizzare in tutta la sua carica erotica e sensuale, e soprattutto in una relazione in piena reciprocità: Io sono del mio diletto e il mio diletto è mio (6,3). Esaltazione di baci, abbracci e carezze, creatività degli appellativi (amica mia, mio diletto) e della descrizione del corpo amato (Come nastro di porpora le tue labbra, / la tua bocca è piena di fascino; / come spicchio di melagrana è la tua tempia / dietro il tuo velo – 4,3) hanno sfidato gli esegeti a comprenderne l’inserimento nel canone biblico, invocando la metafora sponsale che lega Dio al suo popolo. Come se l’amore non fosse tanta parte dell’esistenza, come se l’unico paradigma della vita di coppia fosse il dominio (Gen 3,16). A dispetto delle tante interpretazioni, più o meno riuscite, il Cantico è nel canone e Rut entra nella genealogia del Messia. L’amore salva anche quando è erotico.

 

Chagall, Il Cantico dei Cantici

 

Tra il Cantico e Rut, Thomas Hood (1798–1845) descrive una donna probabilmente idealizzata che lavora nei campi in autunno, esaltandone la bellezza (capelli, guance) e la devozione.

She stood breast high amid the corn,                 Lei stava a testa alta in mezzo al grano
Clasped by the golden light of morn,                 Avvinta dalla luce dorata del mattino,
Like the sweetheart of the sun,                          Come fidanzata al sole,
Who many a glowing kiss had won.                  Come qualcuno che ha vinto molti baci da quello splendore.

On her cheek an autumn flush,                         Sulla guancia il rossore dell’autunno,
Deeply ripened; such a blush                            Ben maturo; come scarlatto
In the midst of brown was born,                        Nato in mezzo al castano,
Like red poppies grown with corn.                    Come papaveri rossi cresciuti assieme al grano.

Round her eyes her tresses fell,                         Attorno agli occhi le trecce,
Which were blackest none could tell,                 Un tempo tanto nere da non poterlo dire,
But long lashes veiled a light,                           Ma l’intreccio disfatto ha velato quella luce,
That had else been all too bright.                      All’inizio sfavillante.

And her hat, with shady brim,                          E il suo cappello, dalla tesa larga,
Made her tressy forehead dim;                          Ha reso opache le trecce sulla fronte;
Thus she stood amid the stooks,                        Così ora lei resta in mezzo alle spighe rimaste,
Praising God with sweetest looks:                    Pregando Dio con occhi dolcissimi:

Sure, I said, heaven did not mean,                    Certo, ho detto, il cielo non intendeva
Where I reap thou shouldst but glean,               Che dove io raccolgo tu non debba spigolare,
Lay thy sheaf adown and come,                        Lascia il tuo covone a terra e vieni,
Share my harvest and my home.                       Dividi il mio raccolto e la mia casa.

Thomas Hood, Ruth

 

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  • In copertina: Marc Chagall, Booz trova Rut ai suoi piedi (1960)

 

 

 

 

Raab, la fedele

 

 

Genealogia al femminile (2)

 

Scritto da MARIA NISII.

 

Tu vuo’ saper chi è in questa lumera

Che qui appresso me così scintilla,

come raggio di sole in acqua mera.

Or sappi che là entro si tranquilla

Raab; e a nostr’ordine congiunta,

di lei nel sommo grado si sigilla.

Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta

Che ‘l vostro mondo face, pria ch’altr’alma

Del triunfo di Cristo fu assunta.

Ben si convenne lei lasciar per palma

in alcun cielo de l’alta vittoria

che s’acquistò con l’una e l’altra palma,

perch’ella favorò la prima gloria

di Iosuè in su la Terra Santa,

che poco tocca al papa la memoria.

(Dante, Divina Commedia, Paradiso IX, 112ss)

L’anima che scintilla come raggio di sole in acqua mera è Raab, prima delle anime assunte dal Cristo trionfante, collocata nel cielo di Venere a segno di tripudio per la vittoria di Giosuè che lei favorì nella Terra promessa. Quando Dante scrive, la via alla Terrasanta è preclusa: ci vorrebbe una nuova crociata, sembra suggerire, ma per ora il fatto poco tocca al papa la memoria…

Raab, seconda figura femminile citata nella genealogia matteana del Messia, è la prostituta cananea che ospita nella sua casa a Gerico due esploratori dell’esercito di Giosuè, il quale attendeva al di là del Giordano, studiando la tattica migliore per impadronirsi della città. La donna favorisce la missione dei due, prima nascondendoli e poi aiutandoli a fuggire, calandoli dalla propria finestra con una corda. Quando Gerico sarà presa, Raab e la sua famiglia saranno gli unici a scampare dalla legge dello sterminio.

1 Or Giosuè, figlio di Nun, mandò due uomini da Scittim per spiare di nascosto, dicendo: «Andate, ispezionate il paese e Gerico». Così essi andarono ed entrarono in casa di una prostituta, chiamata Rahab, e là alloggiarono. 2 La cosa fu riferita al re di Gerico, e gli fu detto: «Ecco, alcuni dei figli d’Israele sono venuti qui questa notte per esplorare il paese». 3 Allora il re di Gerico mandò a dire a Rahab: «Fa’ uscire gli uomini che sono venuti da te e sono entrati in casa tua, perché sono venuti a esplorare tutto il paese». 4 Ma la donna prese i due uomini e li nascose; poi disse: «È vero, quegli uomini sono venuti da me, ma non sapevo di dove fossero. 5 Al momento in cui si chiudeva la porta della città, quando era buio, quegli uomini sono usciti; dove siano andati non lo so; inseguiteli subito, perché li potete raggiungere». 6 (Essa invece li aveva fatti salire sul tetto e li aveva nascosti fra gli steli di lino, che aveva disteso sul tetto). 7 Essi allora li inseguirono sulla strada del Giordano, verso i guadi; e non appena gli inseguitori furono usciti, la porta fu chiusa. 8 Or prima che le spie si addormentassero, Rahab salì da loro sul tetto, 9 e disse a quegli uomini: «Io so che l’Eterno vi ha dato il paese, che il terrore di voi è caduto su di noi, e che tutti gli abitanti del paese vengono meno dalla paura davanti a voi10 Poiché noi abbiamo udito come l’Eterno asciugò le acque del Mar Rosso davanti a voi quando usciste dall’Egitto, e ciò che faceste ai due re degli Amorei, di là dal Giordano, Sihon e Og, che votaste allo sterminio. 11 All’udire queste cose, il nostro cuore è venuto meno e non è più rimasto coraggio in alcuno a motivo di voi, perché l’Eterno, il vostro DIO, è DIO lassù nei cieli e quaggiù sulla terra12 Or dunque, vi prego, giuratemi per l’Eterno che, come io vi ho usato clemenza, anche voi userete clemenza con la casa di mio padre; datemi quindi un segno sicuro 13 che lascerete in vita mio padre, mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle e tutto ciò che appartiene loro, e che risparmierete le nostre vite dalla morte». 14 Quegli uomini le risposero: «Le nostre vite per le vostre, purché non sveliate questo nostro affare; e quando l’Eterno ci darà il paese, noi ti tratteremo con clemenza e lealtà».(Giosuè 2)

Raab è ancora ricordata nella lettera agli Ebrei: Per fede Raab, la prostituta, non perì con gl’increduli, avendo accolto con benevolenza gli esploratori (11, 31).Nel libro di Giosuè prima e nella lettera agli Ebrei poi, a una donna straniera è quindi attribuito il riconoscimento del Dio di Israele, grazie al quale lei deciderà di facilitare la conquista della sua città, mettendola nelle mani di gente sconosciuta. Il racconto avrebbe dell’incredibile, se non fossimo nel libro di Giosuè in cui le vittorie sono assicurate dalla fede nell’Eterno: Sii forte e coraggioso; non aver paura e non sgomentarti, perché l’Eterno, il tuo DIO, è con te dovunque tu vada (Gs 1,9b). Si tratta di un’obbedienza esemplare che crea un modello paradigmatico. Più che un racconto storico è dunque una lettura teologica volta ad affidare a un tale personaggio una fede ricevuta per grazia e accolta in sé per un intuito probabilmente neppure ben compreso.

 

 

Rahav meno ancora di Tamar poteva conoscere quella gente venuta dalle viscere del deserto e la divinità nomade con loro. Eppure ne ha avuto notizia. La prostituzione è mestiere di confine, accoglie uomini di passaggio senza chiedere documenti, raccoglie notizie da chi beve un bicchiere e racconta volentieri. Le prostitute hanno orecchie discrete, sanno tenere i segreti. […] Pronuncia quattro volte il nome prezioso della divinità di Israele, perché si è messa sotto la sua protezione. Fa qui atto di credo ancor più profondo di quello di Tamar, si consegna passando per il tradimento del suo stesso popolo, ma salvando quelli del suo sangue. Fa giurare i due ospiti nel nome di quella divinità, alla quale si affida anche nella richiesta di giuramento (Erri De Luca, Le sante dello scandalo, p. 26-28).

Abbiamo già avuto modo di notare la visione romantica della prostituzione in Erri De Luca (cfr “Prettywomen”https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/pretty-women?fbclid=IwAR06fSxfIqIbALxn2VRdkIgwRQDG1XeQxdAt-FTOI6jlZCLz6WVnRCTnvDg), il quale tuttavia aggiunge un tassello significativo al racconto biblico, immaginando una ragione possibile, o se vogliamo razionale, alla confessione di fede della donna. Raab diventa credente e fedele al Dio di Israele, anche se questo implica il tradimento della sua città, tanto che a suggello del racconto De Luca riporta una tradizione secondo la quale Raab sposerà Giosuè.

15 Allora ella li calò dalla finestra con una corda, perché la sua casa si trovava sulle mura della città, ed essa abitava sulle mura. 16 E disse loro: «Andate verso il monte, affinché i vostri inseguitori non vi abbiano a trovare; e rimanete nascosti là tre giorni, finché i vostri inseguitori siano ritornati; poi andrete per la vostra strada». 17 Allora quegli uomini le dissero: «Noi saremo sciolti dal giuramento che ci hai fatto fare, 18 a meno che, quando entreremo nel paese, tu attacchi alla finestra per la quale ci fai scendere questa cordicella di filo scarlatto e raduni in casa presso di te tuo padre, tua madre, i tuoi fratelli e tutta la famiglia di tuo padre. 19 Se però qualcuno esce fuori dalla porta di casa tua, il suo sangue ricadrà sul suo capo, e noi non ne avremo colpa; ma il sangue di chiunque sarà con te in casa ricadrà sul nostro capo, se qualcuno gli metterà le mani addosso. 20 Ma se tu riveli questo nostro affare, saremo sciolti dal giuramento che ci hai fatto fare». 21 Ella disse: «Sia come avete detto». Poi li congedò, e quelli se ne andarono. Essa allora legò la cordicella scarlatta alla finestra.

 

“Raab e gli esploratori di Gerico”, illustrazione del 1897

 

La storia della salvezza non è irrazionale ma racconta storie di uomini e donne non sempre lineari, quasi mai comprensibili dall’esterno e, anzi, più sovente cariche di contraddizioni. Ellittica per la sua natura teologica, agli occhi del lettore contemporaneo la storia biblica appare carente di tanti dettagli che meglio aiuterebbero a comprendere. Lo sforzo che richiede è indubbiamente affascinante ma se a questo ci sottraiamo, riduciamo storie di una forza sconvolgente a fiabe disneyane. A differenza di Tamar che si finge prostituta, Raab è connotata dalla sua professione.Ma pur condannandone l’attività al punto da associarla al peccato di idolatria (“Come mai è diventata una prostituta la città fedele?”, Is1,21), la storia sacra introduce figure femminili che diventano salvifiche anche a causa della loro avvenenza o della supposta disponibilità che sembrerebbero esibire, come è il caso di Giuditta. Altrove invece, quando i tempi si fanno più duri, le donne diventano purtroppo merce di scambio per vendette tutte maschili, come nel caso di Dina (Gen 34) o della concubina del levita (Gdc 19).

 

Gustave Doré, Il levita e la concubina morta (1890)

 

Aver accolto questo personaggio femminile, la cui professione la relega nelle categorie dell’impurità e del peccato, è quindi indice che con il Messia si inaugurano tempi nuovi.

«In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli» (Mt 21,3b1-32)

Nel vangelo di Matteo, a cui appartiene la genealogia che stiamo commentando, troviamo un riferimento non del tutto positivo, sebbene Gesù segnali la possibilità di una fede maggiore nei peccatori, con cui non casualmente condivide la tavola (Mt 9,1). Forse perché più consapevoli del bisogno di salvezza per via della loro situazione di paria, nei Vangeli prostitute e pubblicani sono spesso presentati in un atteggiamento umile e dimesso. L’esattore Matteo-Levi accoglie senza indugio la chiamata a seguire il Maestro (Mt 9), mentre nel vangelo di Luca troviamo la parabola che vede giustificato il solo pubblicano e non il fariseo che già si riteneva giusto (Lc 18).

 

 

È ancora nel vangelo di Luca che scopriamo i gesti di amore di una donna a Gesù, mentre Egli si trova a casa di Simone, il fariseo:

Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato.(Lc 7,37-38)

La donna è presentata come “peccatrice”, epiteto che torna nei pensieri di Simone: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice» (v. 39). La donna qui non è più persona, ma ridotta al suo peccato. Per questo Gesù invita il suo ospite a cambiare prospettiva: «Vedi questa donna?» (v. 44), gli dice, e prosegue raccontando quello che l’altro non ha saputo vedere, congedando infine la donna con l’assicurazione del suo perdono:«le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato» (v. 47).

La vicinanza di Gesù alle donne che si prostituiscono o l’avvicinamento di queste all’unico uomo capace di trattarle come persone è una delle rivoluzioni divino-umana donataci dal Vangelo, buona notizia per i peccatori e le peccatrici di tutti i tempi. Lieto annuncio per un nuovo Avvento.

 

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  • In copertina: Foster Bible picture

 

Il Magnificat del migrante

Scritto da  GIOVANNI PAOLO II.

 

Mi piace guardare ai migranti nella luce di Maria, la quale, “per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce, per così dire, e riverbera i massimi dati della fede” (Lumen Gentium, 65).

La Vergine santa, in verità, per il modo con cui visse la sua vicenda umana, si pone come punto di riferimento per i migranti ed i rifugiati. La sua vita terrena fu segnata da un continuo peregrinare da un luogo all’altro: l’accorrere in grande fretta presso la sua cugina Elisabetta; il trasferimento a Betlemme per il censimento, dove, in mancanza di altro posto a disposizione, partorì il Figlio in una grotta; il viaggio a Gerusalemme per la presentazione di Gesù al tempio; il muoversi sollecito e discreto al seguito di Gesù nella sua attività apostolica in Palestina la presenza di sofferta compartecipazione al Calvario.

Maria, inoltre, conobbe per diretta esperienza il travaglio dell’esilio e dell’emigrazione in terra straniera; vi fu costretta dalla minaccia che incombeva sulla vita di Gesù. “L’angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe per dirgli: Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto . . ., perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo” (Mt 2, 13). Si trattò di una fuga improvvisa, attuata nel cuore della notte, in un clima drammatico, in cui non mancarono certo quelle tribolazioni ed angosce che, voi migranti e rifugiati, purtroppo ben conoscete: il trauma del distacco dalle persone e dalle cose, l’abbandono delle più care speranze, il camminare per luoghi sconosciuti, la difficile ricerca di un riparo in terra straniera, dove tutto è ignoto, l’incertezza di un lavoro che consenta di procurarsi i mezzi di sussistenza, il clima di sospetto, di discriminazione, di rifiuto, che non di rado s’avverte all’intorno, la precarietà delle situazioni che rende insicuro ogni programma di vita per sé e per i familiari, in particolare per i figli.

Nelle vicende della Vergine santissima appaiono così anticipati e quasi rispecchiati non pochi aspetti della vostra personale vicenda. Nella luce di lei, anzi, voi potete cogliere un singolare rapporto tra la vostra esperienza e la stessa storia della salvezza.

In lei, dunque, cari migranti, abbiate fiducia. A lei affidatevi in tutte le pene inerenti alla vostra condizione. Credete nell’amore di Dio per voi, anche quando è difficile vederlo o avvertirlo negli avvenimenti o nel comportamento degli uomini. Ricorrete sempre a Maria, ricorrete a Maria con ferma fiducia! E ricordate che ciò non significa cercare in lei comprensione soltanto per il tempo dell’emergenza, in attesa di riacquistare una sicurezza umana per poi adagiarsi in essa, quasi ciechi ad un destino superiore e sordi all’incontro con Dio. Al contrario ricorrere a Maria e affidarsi a lei significa allargare la speranza a quegli spazi, in cui Dio può entrare e operare. Maria è l’inizio di un popolo che riceve il Salvatore. Ella conosce la miseria e la debolezza degli uomini, ma sa anche che ogni male, compreso il peccato, non ha l’ultima parola sull’uomo. Ella ha fatto l’esperienza della croce e sa che si può “stare in piedi” accanto ad essa. Per questo canta la gioia di coloro che hanno fatto posto a Dio nella propria vita. Proclamata beata perché ha creduto alla realizzazione delle promesse del Signore, ella si effonde in quel canto di esultanza e di gioia che è il “Magnificat”, mirabile professione di fede nella potenza del Dio fedele e misericordioso. Il “Magnificat” è il compendio del Vangelo, di cui costituisce come l’introduzione: è la buona novella annunciata ai poveri. Operando nella storia degli uomini, Dio si oppone alla boria dei superbi che emarginano i miseri, all’arroganza dei potenti che opprimono i deboli, alla cupidigia degli accaparratori di ricchezze ai danni dei poveri, e interviene per rinfrancare gli infelici, per sollevare gli umili e ricolmare di beni gli indigenti. Egli è “il Dio degli umili, il soccorritore dei derelitti, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati” (Gdt 9, 11).

 

 

 

Ciò che si è verificato in lei si realizzerà in tutti coloro che credono all’avvento del Regno di Dio. Nel mondo di oggi i superbi, i potenti, i ricchi hanno ancora la meglio sui deboli e sui poveri, che soffrono la miseria e l’emarginazione. L’impegno a ribaltare la situazione secondo la logica del Vangelo costituisce un vero programma etico per i credenti.

La promessa di Dio non si traduce, tuttavia, in evento di salvezza senza la collaborazione dell’uomo. Non è sufficiente credere alla buona causa dei migranti; è necessario impegnarsi a difenderla e a sostenerla.

Questo programma di azione ha molteplici risvolti, da quelli interiori personali a quelli collettivi e perfino strutturali. L’esperienza odierna ci dice, anzi, che questi ultimi hanno una grande importanza nel peregrinare dell’umanità verso la sua pienezza. Nella mia recente enciclica Sollicitudo Rei Socialis ho qualificato come “strutture di peccato” quei fattori negativi che agiscono contro il bene comune, impediscono il cammino dell’umanità verso il suo sviluppo e umiliano la dignità della persona umana. La loro rimozione rientra nel dovere di permanente conversione del cristiano. “Nel «Magnificat» Maria si presenta come modello per coloro che non accettano passivamente le avverse circostanze della vita personale e sociale, né sono vittime della alienazione, come si dice oggi, ma proclamano con lei che Dio innalza gli umili e, se ne è il caso, rovescia i potenti dal trono”. Così affermavo il 30 gennaio 1979 nel Santuario di Zapopán in Messico; e nella citata enciclica Sollicitudo Rei Socialis ho aggiunto: “La materna sollecitudine di Maria si estende agli aspetti personali e sociali della vita degli uomini sulla terra” (Sollicitudo Rei Socialis, 49). Maria, che intona il suo cantico al Signore, diventa un modello straordinario per l’umanità di oggi. Ella impegna tutti gli uomini di buona volontà in questa opera di superamento delle situazioni di peccato. “Attingendo dal cuore di Maria, dalla profondità della sua fede, espressa nelle parole del «Magnificat», la Chiesa rinnova sempre meglio in sé la consapevolezza che non si può separare la verità su Dio che salva, su Dio che è fonte di ogni elargizione, dalla manifestazione del suo amore di preferenza per i poveri e gli umili” (Redemptoris Mater, 37).

 

Desidero affidare a Maria la difficile situazione personale di tanti emigrati, affinché, intercedendo presso il suo Figlio, ottenga loro sollievo e soccorso. Affido a lei la difficile situazione internazionale, il cui squilibrio economico e sociale costringe tante persone a cercare all’estero più degne condizioni di vita. Un aspetto particolare delle migrazioni è oggi costituito appunto “dai milioni di rifugiati, a cui guerre, calamità naturali, persecuzioni e discriminazioni di ogni tipo hanno sottratto la casa, il lavoro, la famiglia e la patria” (Sollicitudo Rei Socialis, 24). Invito tutti a riflettere e ad impegnarsi attivamente per la rimozione delle cause che sono all’origine dello sradicamento di tanti milioni di persone dalle loro terre di origine; ciascuno, per quanto da lui dipende, eserciti l’accoglienza cristiana verso i rifugiati e i migranti, come efficace adempimento della preghiera della liturgia: “O Padre, che hai mandato il tuo Figlio a condividere le nostre fatiche e le nostre speranze e hai posto in lui il centro della vita e della storia, guarda con bontà a quanti migrano per lavoro lungo le vie del mondo, perché trovino dappertutto la solidarietà fraterna che è libertà, pace e giustizia nel tuo amore” (“Orat. in Missam pro Migrantibus”).

 

 

 

T

  • Cfr: https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/messages/migration/documents/hf_jp-ii_mes_19881004_world-migration-day-1988.html
  • In copertina: un manifesto di grandi dimensioni che riproduce la  Pietà con un giovane di colore, in carne e ossa, disteso sul grembo di Maria al posto di Gesù, opera dell’artista piemontese Fabio Viale.
  • Il giubbotto, messo su una croce in resina, è ora appeso nell’accesso al Palazzo Apostolico dal Cortile del Belvedere,è stato donato al Papa dalla ong Mediterranea, è appartenuto a un migrante ignoto annegato nel Mediterraneo, al largo della Libia.
  • La vignetta è opera di MAURO BIANI.
  • Il dipinto ” Madonna di Porto Negato” ( seconda immagine riprodotta) è opera di Giuseppe Martino.

Genealogia al femminile

Scritto da  MARIA NISII.

 

1 Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. 2 Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, 3 Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, 4 Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, 5 Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, 6 Iesse generò il re Davide.

Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa7 Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf, 8 Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, 9 Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, 10 Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, 11 Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia.

12 Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, 13 Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, 14 Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, 15 Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, 16 Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo.

 

Tamar, Racab, Rut, Betsabea e Maria: 5 donne in 14 generazioni moltiplicate per 3 tappe storiche. “Generò daè la formula che ne introduce il nome, rompendo lo schema diversamente tutto al maschile. Le prime tre appartengono al primo ciclo da Abramo a Davide, la quarta al secondo tempo che va da Davide alla deportazione a Babilonia, la sola Maria per l’ultima sezione dalla deportazione al Messia.

La parola che la traduzione Cei indica come “genealogia” corrisponde a biblosghenéseos, “libro della genesi” o “delle origini”. Un’espressione che rimanda al libro delle generazioni (sefertoledot) di Genesi, scandito dalla formula “queste le origini…” (Gen 2,4), “questo è il libro della genealogia di Adamo” (5,1), “questa è la storia di Noè” (6,9), “questa è la discendenza dei figli di Noè” (10,1), ecc.

In questa genealogia di padri, Matteo inserisce quattro madri: Tamar, che si finge prostituta per avere una discendenza dal suocero; Racab, famosa prostituta di Gerico che dà ospitalità agli esploratori nel libro di Giosuè; Rut, la moabita che seduce il parente per farsi sposare e ridare dignità alla suocera; infine Betsabea, moglie di Uria l’ittita, con cui Davide commette adulterio. Messe così in fila queste quattro figure femminili sono accomunate da unioni irregolari, e tuttavia è da tali unioni che passa la discendenza del Messia. Si tratta inoltre di donne straniere, ovvero non appartenenti a tribù israelitiche, un fatto che in epoca post-esilica sarebbe stato causa di divorzio ma che dona altresì un tratto universalistico alla genealogia. Altrettanto irregolare è la quinta figura, Maria, la cui gravidanza ha origine fuori dall’unione coniugale. Non condannata, tale irregolarità risulta piuttosto provvidenziale nella storia sacra, mostrando come la salvezza attraversi strade anche tortuose.

Salta facilmente all’occhio come, invece delle più note matriarche (Sara, Rebecca, Lia e Rachele), siano altre donne ad essere ricordate. Eppure anche le prime si sarebbero prestate, con le loro storie turbolente e mai lineari. Se quindi è su queste che è caduta la scelta, varrà la pena di fermarsi a comprenderne il senso.

 

Giuda e Tamar (scuola di Rembrandt, 1650-1660 ca.)

 

Tamar la giusta

La storia di queste donne sembra suggerire come il canale “adeguato” per il seme che donerà una discendenza non sia mai quello atteso. In Gen 38, Tamar viene data in moglie a due dei figli di Giuda, in quanto la legge del levirato prevedeva che il fratello in vita desse una discendenza al fratello defunto. Dopo la morte del primo però, il secondogenito si rifiuta di fare da sostituto del fratello e disperde il seme, ma su questo il narratore è lapidario: Ciò che egli faceva dispiacque al SIGNORE, il quale fece morire anche lui (v. 10). Morto anche il secondogenito, Giuda, per timore di veder morire anche il terzo, rimanda Tamar dal padre promettendole l’ultimo figlio quando questi fosse cresciuto. In realtà quello che non dice alla donna, il testo lo riferisce al lettore: «Badiamo che anche egli non muoia come i suoi fratelli» (v. 11b). Naturalmente il tempo passa e nessuno si ricorda più di Tamar.

Tamar vuole essere madre in casa di Israele. Vuole appartenere a quella famiglia non ancora gente, che si è separata da tutti i culti delle divinità locali per seguirne uno suo speciale. […] Tamar vuol dare figli a chi si dichiara discendente del primo essere umano della terra, creato insieme a tutto l’infinito. In lei si è acceso l’entusiasmo di credere, senza nessun invito, solo per contagio. (Erri De Luca, Le sante dello scandalo, p. 20-21)

Venendo a sapere della vedovanza di Giuda, Tamar decide quindi di fare da sé: Allora ella si tolse le vesti da vedova, si coprì d’un velo, se ne avvolse tutta e si mise seduta alla porta di Enaim che è sulla via di Timna; infatti, aveva visto che Sela era cresciuto, e tuttavia lei non gli era stata data in moglie. Come Giuda la vide, la prese per una prostituta, perché ella aveva il viso coperto. Avvicinatosi a lei sulla via, le disse: «Lasciami venire da te!» Infatti non sapeva che quella fosse sua nuora (Gen 38,14-16). Abbandonata al suo destino, la donna prende l’iniziativa di un’azione coraggiosa. A dispetto dei tempi, come vedremo, non sono poche le donne intrepide ricordate nel testo biblico.

“Giuda abbocca – le sue voglie sessuali non tollerano dilazioni, mentre dal canto suo ha lasciato languire Tamar come una vedova senza figli per un tempo indefinito”, commenta Robert Alter (L’arte della narrativa biblica, p. 19). Giuda ha fretta e non sa attendere, mentre ha abbandonato la nuora a un’attesa senza fine e senza speranza. È in tale contrasto che il racconto riferisce la risposta di Tamar, che contratta come una donna d’affari, esigendo un pegno: Lei rispose: «Che mi darai per venire da me?» 17 Egli le disse: «Ti manderò un capretto del mio gregge». E lei: «Mi darai un pegno finché tu me lo abbia mandato?» 18 Ed egli: «Che pegno ti darò?» L’altra rispose: «Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano». Egli glieli diede, andò da lei ed ella rimase incinta di lui (vv. 16b-18).

Quando Tamar farà sapere della gravidanza, Giuda la ritiene colpevole di adulterio (in quanto ancora legata alla famiglia del marito, benché vedova) e la condanna al rogo. Ma mentre la stanno conducendo al supplizio, lei esibisce i pegni affinché il suocero possa riconoscerli.

È una grande lezione: neanche davanti al rogo Tamar denuncia l’uomo che l’ha messa incinta. Lui è il capo di quella gente alla quale vuole appartenere e non ne compromette la reputazione. Gli manda solo a dire: “Hakher, na”, riconosci tu. È lei a metterlo alla prova: se fingerà di non riconoscere i pegni per salvarsi l’onore, profanerà quella divinità superiore di cui si dichiara servo. (Le sante… p. 22)

Giuda riconosce i pegni e assieme la giustizia di sua nuora Tamar: Giuda li riconobbe e disse: «È più giusta di me, perché non l’ho data a mio figlio Sela» (v. 26).

Riconosce che esiste un diritto che è superiore alle leggi, che le leggi sono fatte per gli esseri umani, per adattarsi a loro e non viceversa. Giuda insegna, con grandezza d’animo e prontezza di riflessi, che un conflitto tra articoli di legge e umanità va risolto in favore della vita. […] Non ha solo obblighi la donna nelle scritture sacre, ha dei diritti fondati sulla sua superiorità naturale di generare vita. (Erri De Luca, Nocciolo d’oliva, p. 72)

Tamar è una donna d’azione più che di parole. Non ci vengono raccontati i suoi sentimenti quando viene rimandata a casa dal padre, ma li possiamo desumere dalla reazione che ha mostrato a tempo debito. Prima di lei, le matriarche che la genealogia matteana non ricorda, hanno invece espresso in parole il dolore per la mancanza di una discendenza. Altre donne capaci di prendere l’iniziativa di fronte a una situazione di stallo, in cui l’uomo appare soprattutto soggetto passivo.

 

MatthiasStom o Stomer (1600ca. – dopo 1652), Sara conduce Agar da Abramo

 

Sara disse ad Abram: «Ecco, il Signore mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli» (Gen 16,2). Il testo ebraico dice letteralmente: “Forse mi costruirò attraverso di lei”. La parola è banah la cui radice significa figlio, ben. Le donne “costruivano” se stesse, donando una discendenza alla casa. E Sara si rifiuta di accettare il ruolo di sterile solo perché non riesce ad avere un figlio, rifiuta la “demolizione” in cui è relegata la donna, unica responsabile per la mancanza di figli nell’Antico Testamento, al punto che l’aggettivo è attestato solo al femminile.

Chi non ha figli è come se fosse morto, ricorda la tradizione: Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!» (Gen 30,1). E anch’essa propone al marito la schiava perché generi al suo posto, una pratica doppiamente umiliante perché implicava offrire una concorrente al proprio uomo, in questo caso già poligamo.

 

William Dyce, Giacobbe e Rachele (1853)

 

 

Nonostante la difficile maternità, Rachele è ricordata come la madre che piange i suoi figli e non vuole essere consolata in Geremia 31,15 a proposito dei deportati dell’esilio a Babilonia. Ma poi ancora nel vangelo di Matteo (2,13-18) in riferimento alla strage degli innocenti. Rachele dapprima sterile e poi due volte madre, che muore dando alla luce Beniamino, diventa madre del popolo ma altresì immagine di un dolore che non si rassegna. Un dolore che non si può sedare con facili consolazioni. Un dolore che la storia non ha ancora mai smesso di infliggere alle donne nelle tante forme in cui solo l’uomo sa essere così creativo.