Il mito ieri… e oggi

Scritto da  DARIO O. COPPOLA

 

“E così, così, tu credi di poter raccontare il Paradiso dall’Inferno/ cieli azzurri dal dolore./ Riesci a narrare di verdi campi/ da un freddo binario d’acciaio? “(da Wish you were here).

Con questa domanda, che può far nascere speranze, riprendiamo il nostro viaggio nella musica rock, ancora una volta prendendo in prestito le parole dei Pink Floyd, un gruppo che è, per antonomasia, un mito. Già, un mito. Non possiamo però prima sottrarci al compito affidatoci, che consiste nell’analizzare il legame uomo-Dio, proprio trovandoci dinanzi a questo termine. In greco, mythos indica una forma di pensiero di carattere irrazionale; mentre il logos è il discorso razionale, il mythos narra, con la fantasia, le vicende riguardanti gli dei, le origini del mondo e il legame dell’uomo con ciò che a lui è superiore (inizialmente inspiegabile con il logos).

 

 

Gli egizi fecero del Nilo un mito: dipendevano infatti dal legame fruttuoso e necessario col loro fiume per l’irrigazione delle desertiche terre sulle quali vivevano; temevano inoltre le frequenti inondazioni che causavano la rovina improvvisa di molti uomini. Anche il sole divenne un mito, destinato a perdurare ancor più a lungo, per la sua inavvicinabilità, la sua (quasi) trascendenza…

 

 

I due racconti della creazione biblici anche utilizzano il discorso del mito. Il primo (Genesi 1,1-2,4a), attribuito alla fonte sacerdotale (P), è il più recente (V sec. a. C.) è probabilmente stato concepito in terra di Babilonia e fa riferimento ai miti antichi come l’Enuma Elish e al calendario delle feste caldei.

 

 

 

Il secondo (Genesi 2,4b-23) è invece il più antico (X secolo a. c.) di altra fonte (E) probabilmente, anche se entrambi utilizzano il termine Elohim per indicare la divinità – concetto che supera il genere e il numero, con buona pace di chi vi identifica degli alieni… – si rifà al mito antico di Gilgamesh: l’albero della vita e il serpente sono tra gli elementi condivisi.

 

 

Tutti conoscono gli approdi armoniosi e leggiadri della mitologia nella Grecia classica. Finché, un giorno, Platone spostò la funzione del mito: esso divenne un racconto, non fu più una fede religiosa: nel V secolo a. C. era stata imposta come religione ufficiale, in Grecia, la mitologia omerica ed esiodea e con severità venivano puniti coloro che non la professavano, come i filosofi (Senofane, Socrate, Platone…), sospettati di allontanarsene e di allontanare i loro discepoli.

 

 

Il mito divenne un racconto destinato verosimilmente a spiegare l’inspiegabile: il mito platonico della caverna spiegava la conoscenza imperfetta dell’uomo che è anamnesis, reminiscenza, il riflesso nel mondo sensibile di ciò che l’anima ha visto nel mondo intellegibile.

 

 

Evemero da Messina disse che il mito di Ercole (Eracle, per i greci), ad esempio, non è che il legame consistente in un ricordo sublimato di ciò che era stato, in vita, un grande re, che organizzò un risanamento del suo paese in dodici fasi (una manovra economica riuscita…): esse divennero le dodici fatiche!

Quando le esperienze sono passate vengono rimosse (quelle negative) o mitizzate (quelle positive). Nell’età contemporanea Freud riprende il linguaggio del mito nella psicanalisi: si pensi al complesso di Edipo, di Elettra e ogni altro che si riferisce alla mitologia greca.

Ancora oggi ciò avviene. I nostri miti (termine vivo più che mai) sono anche presenti nel cinema, nell’arte, nel rock. Dal prossimo intervento ci occuperemo, per qualche tempo, di quel mitico gruppo – i Beatles – che ha segnato la fede di generazioni nelle cose passate, esaltando l’amore sopra ogni valore, con versi come “Oh, I believe in yesterday”.

 

 

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  • Questo articolo di Dario Coppola è un ampliamento di quello pubblicato sul Corriere di Torino e della Provincia il 20/04/96

 

La trasfigurazione rovesciata

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Pietro prese allora la parola e disse a Gesù: «Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando quando una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo». All`udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: «Alzatevi e non temete». Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo. E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell`uomo non sia risorto dai morti»

 

 

Narrativamente parlando, l’episodio della Trasfigurazione è un piccolo capolavoro di stringatezza evangelica. In poche righe viene raccontata l’ esperienza, letteralmente stra -ordinaria,  che tocca a Pietro, Giacomo e Giovanni. Non solo vengono presi “in disparte” da Gesù che li porta con sé sull’alto di un monte, ma lì si svela loro: con i segni e la potenza della divinità. I tre vivono in successione , appena accennata e riassunta al massimo, una triplice ed indicibile esperienza: fisica – vedono con i loro occhi Gesù trasfigurato nell’aspetto visibile – spirituale – l’apparizione di Elia e Mosè che “conversano” con Lui  – e mistica – la nube luminosa,  e la voce di Dio stesso. Non basterebbero i più sofisticati effetti speciali di ultima generazione per rendere plausibile e intellegibile una esperienza di questo genere… dunque il consueto stile asettico e prosciugato del Vangelo è alla fine quello che maggiormente riesce a dare una idea dell’ineffabile.

C’è poi un seconda parte del racconto che interseca la prima e la sopravanza: si tratta della reazione degli apostoli e del Maestro stesso. Pietro, che nei momenti che contano riesce (quasi) sempre a buttare il cuore oltre l’ ostacolo e a prender la parola, se ne viene fuori con una richiesta che appare umanissima quanto stridente rispetto al soprannaturale dell’accaduto: lasciami costruire tre tende! Una per Te, una per Mosè e una per Elia. E’ bello per noi restare qui! C’è una nota sognante e infantile in questa constatazione. Deve essere stata la beatitudine di quell’incontro inaudito che ha parlato in lui, e il desiderio struggente quanto ingenuo, di prolungarla indefinitamente. E lo si puo’ ben capire, specie pensando alla radicalità della scelta di questi uomini nel seguire Gesù solo sulla Sua parola, alla  fatica quotidiana di confermare quella scelta, ai dubbi e alle difficoltà nel capire e nel credere. Ora, d’improvviso, in cima al monte, tutto sembra sciogliersi , appianarsi, risolversi  e tutto sembra compiersi. Inaspettatamente, in quella rivelazione di luce, di sensi, di visioni che li coinvolge interamente  e in un attimo fa assaporare loro la realtà stessa di Dio. Tuttavia  questa beatitudine non si fa nemmeno tempo a esprimerla compiutamente (mentre ancora parlava) che risuona la Voce e li avvolge la Nube. Allora è timore, inadeguatezza, prosternazione: la presenza di Dio che, prima  e aldilà di tutto, sgomenta e atterra.

 

 

Nell’ultima parte del racconto la scena se la prende  tutta  Gesù. Tornato quello di sempre, si  avvicina. Tocca. Calma. Rincuora. Dopo essersi svelato in una dimensione ultraterrena, è come se si volesse  mostrare particolarmente corpo: si fa prossimo, allunga la mano, parla. Ristabilisce la sua umanità integrale, si riappropria della solitudine nostra: cioè  senza più luci, splendori, viventi del passato, nubi, voci tonanti.  Il divino evidente è refluito; il normalissimo umano è ripristinato. Eppure, quanto poco “normale” doveva risultare, dopo quello che era stato rivelato. Alla fine, il racconto si conclude con quell’ordine, imperioso e misterioso allo stesso tempo, comunque inquietante, con quel vincolo a tacere fino alla resurrezione dai morti, che suggella un implicito legame tra la gloria inebriante intravista e una oscura tappa di morte precedente.

 

La Trasfigurazione raccontata nel Vangelo è dunque una rivelazione per quanto fugace e provvisoria, della vera natura di Gesù Cristo. Ora: se si compie un salto di duemila anni, e ci si paracaduta  su una delle riscritture più celebri e pop che siano state concepite, il Jesus Christ Superstar degli anni 70 del novecento, di questo episodio non troviamo traccia. Ci imbattiamo invece in un’altra storia, che ha anch’ essa a che fare con la natura del Maestro e su come essa possa essere percepita. In questo caso è Maria Maddalena che, nella solitudine di una notte e davanti al volto addormentato di Gesù , ha una intuizione su chi Lui sia veramente.

 

 

 

Lui è un uomo. Lui è solo un uomo

E ho avuto così tanti

uomini prima

In molti modi

Lui è solo un altro ancora.”

 

Anche in questo caso e ai suoi occhi  Gesù in un certo senso si trasfigura, ma è lei a renderlo possibile: in modo per così dire rovesciato, completamente terreno e recisamente umano.  Non è il divino ad irrompere, ma la concretezza tutta terrena e carnale che ad un tratto sembra giustificare pienamente il suo “ He’s just a man”. Logico che, in questo caso , davanti a questo flash che sembra comunque fare luce, non c’è beatitudine estatica e desiderio di contemplazione sospesa. Al contrario nascono domande e dubbi su umanissimi comportamenti che ne possono derivare:

 

Dovrei farlo cadere?

Dovrei urlare e gridare?

Dovrei parlare d’amore

Lasciar uscire i miei sentimenti?

Non ho pensato che sarei arrivata a questo.

Che cosa significa?

 

Come Pietro nel Vangelo, anche Maddalena   sembra cullarsi per un attimo nell’illusione fanciullesca  di tenersi tutto per sé quel Gesù  appena “scoperto”. Poco prima infatti, aveva cantato:

 

“…perciò dimenticati di tutti noi, stanotte

 Va tutto bene, sì, va tutto bene, sì

Dormi, allevierò le tue pene, ti calmerò e ti ungerò

Mirra per la tua calda fronte, oh

E poi sentirai

Che va tutto bene, sì, è tutto a posto

È fresco e dolce l’unguento

Per il fuoco nella tua testa e nei tuoi piedi

Chiudi gli occhi, chiudi gli occhi

E rilassati, non pensare a niente, stanotte

 

 

 

 

Ma anche nel suo caso, le illusioni sembrano  infrangersi su una nota di inquietudine e paura:

 

lui mi spaventa

Non ho pensato che sarei arrivata a questo.

Che cosa significa?

Eppure,

se lui ha detto che mi ama

Potrei essere perduta.

Potrei essere impaurita.

Non potrei farcela,

non potrei proprio farcela.

Potrei girare la testa.

Potrei indietreggiare.

Non vorrei sapere.

Lui mi spaventa davvero”

 

 

Se nel racconto del Vangelo, il desiderio di Pietro di restare così per sempre   deriva dall’aver colto per un attimo il Gesù vero Dio, nella storia di JC Superstar l’invito di Maddalena a chiudere gli occhi , rilassarsi e non pensare a null’altro  deriva  dal cogliere  appieno il  Gesù il vero Uomo. In entrambi i casi, alla scoperta fulminante segue un momento di intensa paura. Come se avere un desiderio appassionato di Cristo, comunque lo si desideri,  e trovarsi improvvisamente di fronte alla vera sostanza della sua natura significhi essere anche obbligati a prendere coscienza della propria realtà,  del film che ci si è fatti in testa, delle idee  tutte personali  che si sono  fatte su di Lui, della lontananza tra queste  e una verità sul suo conto che continua a sfuggire ad ogni schema. Una prova che disorienta, scuote, butta all’aria.

Vivere la Trasfigurazione, o una trasfigurazione rovesciata, mostra in definitiva che amare, per quanto intensamente, ma inevitabilmente a modo proprio, non basta. Viene per tutti  il momento in cui dal monte si discende, in cui una calda notte accanto al fuoco, finisce. Allora, sollevando gli occhi, non si vede più nessuno, se non Gesù, solo. Non Quello che ci piacerebbe vedere.

 

 

Il principio… nella Scrittura

Scritto da MARIA NISII.

 

Se la presenza di due racconti della creazione (Gen 1 e Gen 2) implica l’inesauribilità del tema, il loro accostamento quasi aproblematico sembra indicare che nessuno dei due possa essere bloccato e fissato come unico detentore del marchio di autenticità. La verità nella Bibbia va cercata su un altro piano e certo non nella letteralità della narrazione. Tale molteplicità suggerisce peraltro la presenza di una comunità orante, dialogante e battagliera (con Dio, tra di loro, con l’altro…). Una comunità che ri-leggendo, ri-scrive i racconti che circolano, li ri-pensa e ri-mastica a ogni nuova ripetizione.

Il racconto della creazione è ancora presente, in modo quantitativamente e qualitativamente rilevante, in altri testi biblici, specie nei Salmi, nei profeti e nel libro di Giobbe, senza escludere il Nuovo Testamento. Ma più ancora della creazione, il fenomeno della riscrittura all’interno della Bibbia è particolarmente evidente nell’evento dell’Esodo, in quanto ritenuto momento fondativo della costituzione del popolo e dunque da ripensare costantemente (persino quale esodo escatologico). Proprio per questo è interessante notare come il racconto dell’Esodo riproponga elementi desunti dai testi della creazione. La comunità che rilegge la sua storia ha infatti la coscienza di non essere sempre stata in quella terra, ma di provenire da altrove, da luoghi dai quali ha avuto bisogno di essere “salvata”:

“Dio ha creato il suo popolo salvandolo dalle forze di annientamento, si trattasse di ostacoli naturali, di nemici o degli uni e degli altri messi insieme. Dio ha separato gli elementi perché Israele potesse venire alla vita e perché ricadessero nel caos originale le forze di morte capaci di distruggerlo” (Gibert, Bibbia miti e racconti dell’Inizio, p. 170).

 

 

Marc Chagall, Mosè e l’attraversamento del mar Rosso

 

 

21Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero22Gli Israeliti entrarono nel mare sull’asciutto, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra. 23Gli Egiziani li inseguirono, e tutti i cavalli del faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri entrarono dietro di loro in mezzo al mare.24Ma alla veglia del mattino il Signore, dalla colonna di fuoco e di nube, gettò uno sguardo sul campo degli Egiziani e lo mise in rotta. 25Frenò le ruote dei loro carri, così che a stento riuscivano a spingerle. Allora gli Egiziani dissero: «Fuggiamo di fronte a Israele, perché il Signore combatte per loro contro gli Egiziani!».26Il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani, sui loro carri e i loro cavalieri». 27Mosè stese la mano sul mare e il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto, mentre gli Egiziani, fuggendo, gli si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare. 28Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno. 29Invece gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra. (Es 14)

Le acque divise e poi di nuovo riunite, il vento d’oriente che fa ritirare il mare, l’asciutto e il cammino in mezzo al mare, rinviano tutte alla terminologia del primo racconto di creazione e in parte al racconto del diluvio: siamo di fronte ai concetti di creazione e de-creazione. Le acque minacciose prima e separate poi rimandano infatti al primo racconto, ove devono essere separate affinché la terra possa emergere e con essa vegetazione, animali e umani. E tale separazione avviene su una parola divina, in Esodo come in Genesi, mentre prima di tale parola tutto è avvolto dal caos, gli ebrei come la terra informe e deserta. Dall’altra parte del mare, gli egiziani fanno appunto esperienza di tale ritorno al caos primordiale al pari dell’umanità del diluvio.

 

 

 

 

Troviamo altre riscritture della creazione nel libro del Salterio, che invita l’orante a pregare Dio nella sua qualità di creatore e a innalzare lodi alla bellezza e maestosità del creato: Se guardo il cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate (Sal 8, 4). Simone Weil sostiene che la bellezza presente in natura sia una delle forme implicite dell’amore di Dio. Per questo il riferimento va nella duplice direzione: si loda il creato per lodare il Creatore e si accede al Lui tramite la contemplazione delle sue opere.

Il Salmo 19 si apre con un altro richiamo alla creazione: I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani (v. 1). La creazione parla del Creatore, suo fattore, ma lo fa nel silenzio (senza discorsi e senza parole– v. 4); insieme ne proclama il senso, il suo essere portatrice di significato (il giorno affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette la conoscenza– v. 3). Non casualmente infatti il primo atto creativo secondo Gen 1 è la separazione della luce dalle tenebre, ovvero un’azione capace di portare alla conoscenza-luce. Riconoscervi un atto creativo implica accettarne l’offerta di senso (e non credere che si tratti di una verità scientificamente intesa). Ma il senso ivi contenuto si dà nel silenzio della parola divina, in contrapposizione al rumore delle parole umane. I cieli sono personificati, fungendo da testimoni dell’opera creatrice, annunziando e narrando.

Ancor più spostato sul versante della lode gioiosa e di ringraziamento è il Salmo 104, che appare meno una riscrittura e più una contemplazione della creazione agli occhi di colui, che vi riconosce la propria dipendenza dal Creatore  –Tu stendi i cieli… ponesti la terra sulle sue basi… Tu fissasti loro un confine… Tu fai scaturire le fonti… Tu fai piovere… fai crescere i prati… Tu hai fatto la luna… Tu distendi le tenebre… Quante sono numerose le tue opere, Signore! Tutte le hai fatte con sapienza… Tutti fanno conto su di te, per ricevere il cibo a suo tempo… Mandi il tuo spirito – in una riflessione che rilegge quell’atto del passato come qualcosa che avviene nel presente. Qui Dio non ha creato, ma crea. E questo fa guadagnare una prospettiva attualizzante alla vita stessa del salmista: “Dio crea parlando… Dio crea tacendo… Dio crea ora…” (Paul Beauchamp, Salminotte e giorno, p. 220).

Non mi soffermo su tutti, ma segnalo che sono rinvenibili richiami alla creazione anche nei Salmi 29, 33, 65, 67, 145-149, 150.

 

 

Tintoretto, La creazione degli animali (1550-53)

 

 

Credo in un solo Dio,

Padre onnipotente

Creatore del cielo e della terra

E di tutte le cose visibili e invisibili.

L’attributo di “creatore” è essenziale nella confessione di fede cristiana, indispensabile a dire chi sia il Dio in cui si crede. L’oggetto di tale creazione è molto genericamente rivolto a “tutte le cose”, come a dire che non c’è niente che non sia frutto di tale creazione. Di fronte alla domanda filosofica “perché esiste qualcosa e non il nulla”, il cristiano crede che se esiste qualcosa è perché Dio lo ha voluto. Non è volontà dell’uomo né il puro caso, ma vi è una volontà divina a chiamare le cose all’esistenza. Tale fede vede in Dio l’origine (il principio) della propria identità. Parlare di creazione è allora parlare dell’origine, della provenienza. La creaturalità, l’essere creatura, dice quindi che tutto quello che esiste è in relazione con Dio.

 

 

 

 

Oltre alla versione poetica dei salmi, si può esprimere tutto questo anche in forma narrativa. Come fanno due bellissimi romanzi, in cui la fede dei protagonisti– persino nei momenti estremi – si mostra pure nella capacità di contemplare il mondo naturale:

“Oggi piove. La montagna d’agosto ama la pioggia che spesso ci sorprende senza preavviso nel mezzo del pomeriggio, quando il sole d’alta quota ha accumulato calore nell’aria per tutta la giornata. All’inizio le gocce non arrivano a toccare la terra. Poi il caldo le trasforma in vapore sottile che aleggia appena sopra i prati. Poi il vapore diventa uno scroscio e sembra di essere nel mezzo della creazione, quando i fiori e le piante uscivano nuovi e brillanti dalle mani di Dio (Mariapia Veladiano, Il tempo è un dio breve p. 148).

 

 

 

 

È ancora un personaggio in fin di vita a tornare alla creazione come all’origine datrice di senso e insieme alla bellezza di cui è prodiga, che non si finisce mai di ammirare e lodare:

“Quanto amo la prateria! Quante volte ho visto l’alba arrivare e la luce inondare la regione e ogni cosa risplendere all’improvviso, con quella parola, ‘bene’, tanto profondamente incisa nella mia anima da farmi stupire che mi sia concesso assistere a un simile spettacolo. Forse c’è stato un primo momento più meraviglioso ‘mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio’, ma, a dispetto di ogni indicazione contraria, ancora continuano a gioire e a plaudere, e certamente dovrebbero farlo. Qui nella prateria non c’è nulla che distolga l’attenzione dalla sera o dal mattino, nulla all’orizzonte che abbrevi o ritardi. Da questo punto di vista, le montagne sarebbero un’insolenza (Marilynne Robinson, Gilead, p. 256).

 

 

 

 

Chiudiamo allora, per una volta, con la riflessione di una filosofa che tiene insieme i diversi piani qui presentati, quello della fede (anche implicita) catturata dal sentimento del bello che nella bellezza del mondo trova la sua via più naturale:

“Nella nostra epoca, nei paesi di razza bianca, la bellezza del mondo rimane quasi la sola via attraverso la quale si possa lasciar penetrare Dio […] Il sentimento del bello, sebbene mutilato, reso deforme e corrotto, persiste irriducibilmente nel cuore umano come un forte movente. Se ne scorge la presenza in ogni preoccupazione della vita profana. Qualora diventasse autentico e puro, trasporterebbe tutta la vita profana in blocco ai piedi di Dio, rendendo così possibile la totale incarnazione della fede.” (Simone Weil, “Forme dell’amore implicito di Dio” in Attesa di Dio)

 

 

Calpestami

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

Per il mercoledì delle ceneri.

“Polvere sei, e polvere ritornerai”.

“Con il sudore della fronte mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai” (Gen 3,19)

Quando mi hanno consegnato le ceneri di mia madre, ero troppo svuotata per provare altro dolore . Troppo strazio avevo sopportato in quei lunghi giorni della terribile agonia. Solo, provavo un gran stupore e una incredulità anestetizzata; una vita, una vita intera ridotta in quella scatoletta, che non sapevo bene come toccare, come guardare, come sentire. Poi, chiarissimo, mi è arrivato dal recondito dei miei ricordi, la frase “ricordati uomo, che polvere sei e polvere ritornerai”. E non era ancora più assurdo, che nel vuoto di quei momenti, proprio quelle parole giganteggiassero nel silenzio? In me, che non credo più da quando sono bambina? In me, che ho smesso la fede come ho riposto  le bambole, chiuse tutte e due nel baule dell’infanzia? Eppure, più me le lasciavo risuonare, più mi sembravano le uniche capaci di reggere l’assurdità sospesa di quella circostanza. Quella polvere, quelle ceneri io le avevo in mano, in braccio, nella mia vita, nel  mio cuore.Questo siamo, questo ritorniamo. Non era religione, era la verità.” (1)

 

 

Ecco l’esempio di una ri-scrittura esperienziale diretta. La tua vita ti riscrive sotto il naso un pezzo di Scrittura, ed è tanto più vero e incisivo dal momento che succede e viene avvertito da una persona che si definisce “ non più credente”. A dimostrazione del fatto che la Parola è detta per tutti, ed è in grado di parlare anche a chi non crede.

 

Convertiti e credi al Vangelo

Già: convertiti. Non tutto fila via semplice e chiaro. Anzi. La nostra storia ci dimostra che quella stessa Parola, anche se crediamo, anche se crediamo fermamente e con passione, in certi casi sembra non bastarci. Penso a tutte quelle che persone per le quali la vita è una lunga e ininterrotta quaresima, se non addirittura una lunghissima settimana santa che sembra non arrivare mai alla pietra rotolata via della domenica mattina. Penso a quali echi può suscitare, in questi casi, l’invito  quaresimale alla “ conversione”.

Gli ho urlato contro molte volte, e ho paura che non sia ancora finita.Non me ne vanto certo, ma mi domando come sia possibile evitarlo. Ci sono momenti in cui l’assenza di Dio diventa insopportabile e la fede deve resistere  a forza agli urti del sentimento, della ragione e soprattutto, del dolore. Bestemmiare è orrendo. Contrariamente a come suona, sono convinto però che possa anche essere una amara e disperata lingua di preghiera. “Riconoscere” Dio, in certi momenti, anche solo per protestare e urlargli contro, è già tanto, è fede pura. Il Dio di Gesù Cristo questo lo sa. Continuare ad accettarlo, e a sentirlo Dio, anche in quei “ momenti” ( che magari durano anni) di Suo vuoto e di Sua assenza, è in fondo il riconoscimento più forte e più vero che possiamo offrirgli. La Provvidenza di Dio non si spaventerà certo per la tua unghiata rabbiosa  e pienamente giustificata: tacerà e piangerà con te, ne sono convinto, rivivendo quell’urlo di Gesù in croce che aveva in fondo lo stesso sapore accusatorio delle tue parole “ Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (2)

In una scena intensa del film SILENCE di Martin Scorsese, uno dei missionari gesuiti, devastato dalla persecuzione e dall’essere obbligato ad assistere alle torture a cui sono sottoposti i cristiani “da lui” convertiti, in ultimo cede al ricatto e alla abiura e calpesta l’immagine del Cristo. Un momento prima, si sente risuonare all’orecchio queste parole.

Vieni avanti, adesso. Va tutto bene. Calpestami. Comprendo il tuo dolore. Sono nato in questo mondo per condividere il dolore degli uomini. Ho portato questa croce per il vostro dolore. La tua vita è con me, adesso. Calpestami.” (3)

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  1. Brano di una corrispondenza privata
  2. Da ” Il viaggio indesiderato“, pag.(106,107)
  3. Silence, film di Martin Scorsese.

In principio, bereshit

Scritto da  MARIA NISII.

 

Bereshit – quel “principio” arriva dopo, quando si stava appunto ri-leggendo la propria storia a partire da un’esperienza forte che aveva bisogno di fondarsi nelle origini. L’in principio non ha quindi un significato cronologico né storico bensì di carattere sapienziale. Ed è in questa accezione che bereshit esprime il senso fondativo, “il principio ordinatore dello spazio che si prepara a contenere l’infinito di cui ignoriamo tutto e che da alcune migliaia di anni ci facciamo raccontare dalla magnifica storia di Bereshìt” (Erri De Luca, “Bereshìt” in Nocciolo d’oliva). L’umanità non ignora solo l’infinito, ma pure – nonostante la pretesa dell’incipitquello stesso inizio, come racconta il Nobel per la fisica Steven Weinberg:

All’inizio si ebbe un’esplosione. Non un’esplosione come quelle che possiamo vedere sulla terra, che partono da un centro determinato e si estendono inglobando un volume sempre maggiore dell’aria circostante, ma un’esplosione che ebbe luogo dappertutto simultaneamente, riempiendo tutto lo spazio dall’inizio, fuggendo ogni particella tutte le altre. Qui ‘tutto lo spazio’ può significare tanto lo spazio dell’universo infinito, quanto tutto lo spazio di un universo finito, ricurvo su se stesso come la superficie di una sfera. Né l’una né l’altra di queste eventualità è facile da concepire, ma questa difficoltà non ci fermerà: che lo spazio sia finito o infinito praticamente non ha importanza alcuna all’inizio dell’universo.

Dopo circa un centesimo di secondo, l’istante più antico di cui noi possiamo parlare con una certa sicurezza, la temperatura dell’universo è salita a circa cento miliardi di gradi centigradi…” (Weinberg, I primi tre minuti dell’universo, p. 14)

Un centesimo di secondo non è l’inizio, anche se ci va molto vicino. Dunque che cosa sia successo all’inizio non lo sappiamo, a dispetto dell’attacco. E poi, a ben pensarci, chi l’avrebbe mai detto che avremmo trovato una riscrittura di Genesi persino in un racconto del big bang!

 

Giovanni di Paolo, Creazione del mondo ed espulsione dal paradiso terrestre (1445)

 

Nel libro di Genesi però di inizi ce ne sono due, in quanto compaiono due racconti, due diverse tradizioni della creazione. Composte in epoche differenti e dunque riflesso delle rispettive sensibilità culturali, queste due storie sono tuttavia state lette in continuità, quasi obliando che alla fine della prima si ricominciasse daccapo con un’altra come se niente fosse.

1 In principio Dio creò il cielo e la terra. 2 La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.3 Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. 4 Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre 5 e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.6 Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». 7 Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. 8 Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno…

Il primo racconto (Genesi 1) risale a un periodo che va dalla seconda metà del VI secolo al IV secolo, attestando una riflessione maturata alla fine dell’esilio. Di tale esilio si trova traccia per l’affinità con analoghe rappresentazioni che circolavano nel contesto culturale babilonese, di cui il popolo aveva recente esperienza (epopea di Gilgamesh, poema di Atrasis, Enuma Elish). Inoltre questo capitolo di Genesi pare particolarmente influenzato dal sistema cosmogonico babilonese, che nei secoli VI e V disponeva di metodi elaborati di osservazione degli astri, il che non esclude “che esso testimoni, al di là del mitico tradizionale, uno spirito protoscientifico di cui Babilonia è uno dei luoghi di nascita” (Pierre Gibert, Bibbia miti e racconti dell’inizio, Queriniana, p. 57).

Il racconto biblico della creazione è dunque il frutto di un momento traumatico nella storia del popolo, quando cioè tutti i punti di riferimento sono venuti meno (terra, monarchia, tempio). Ci si interroga allora se vi sia un punto fermo nonostante tutto (la distruzione di Gerusalemme, del tempio e la deportazione). In questo periodo Israele ritorna al Dio dell’esodo con nuovo vigore, dando vita al corpo delle Scritture che fissa il millenario patrimonio religioso-culturale. Ed è in questa ripresa che si compie inoltre il passo dell’universalizzazione: il Dio di Israele è il Dio di tutte le genti, ragion per cui il racconto fondatore di Israele non può che aprirsi con la creazione.

4 Queste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati.Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, 5 nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo 6 e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo -; 7 allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente…

Da Genesi 2,4 inizia un altro racconto probabilmente più antico del precedente, risalente almeno al VI a.C. ma per alcuni potrebbe risalire fino all’epoca regale prima o dopo lo scisma del 931. In ogni caso la distanza temporale che separa queste due tradizioni è di circa tre o quattro secoli. Questo secondo racconto conserva tratti di miti mesopotamici: l’uomo impastato con l’argilla, i due alberi, i quattro fiumi, il serpente astuto. La storia di “Adamo ed Eva”, nonostante il carattere generico dei nomi (Uomo e Donna), si è fissata con l’immagine di questi progenitori tanto che essi sono diventati esseri personalizzati; e la drammatizzazione del racconto che li riguarda spiega perché questa storia sia la più presente nell’immaginario collettivo, a discapito della precedente.

Il secondo racconto segue il primo senza cesure apparenti, con il versetto 4 che sembra fungere da cerniera, come chiusura del primo e apertura del nuovo: Queste sono le origini del cielo e della terra, quando vennero creati. Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo. In molti altri testi biblici confluiscono varie e, a volte, eterogenee tradizioni precedenti, esse però vengono per lo più fuse in un unico racconto; la scelta compiuta di tenere distinte queste due narrazioni è quindi alquanto singolare. Più che indicare un’incertezza, sembra voler esprimere una sorta di duplicità insita nella creazione tutta e in particolare nell’essere umano, la cui origine avviene sia sotto il segno della grandezza, per essere stato creato a immagine e somiglianza di Dio (1,27), sia della fragilità per il fatto di provenire dalla polvere del suolo (2,7). E secondo il nostro schema, perché no?, potrebbero essere anche considerati uno la riscrittura dell’altro.

Una collezione di venerabili ma ancora piuttosto primitive leggende”, pare li abbia definiti A. Einstein in un tempo in cui gli studi biblici avevano già chiarito il carattere mitico dei racconti delle origini, su cui – pare – non tutti abbiano ancora oggi le idee chiare, come il parco a tema creazionismo del Kentucky sembra attestare (riscrittura kitsch di un certo protestantesimo made in Usa).

 

https://creationmuseum.org/

https://www.youtube.com/watch?v=KsrtuvxDfrs

La Torà non è un testo scientifico! Essa non è impegnata nella ricerca delle origini antropologiche dell’uomo, né della sua evoluzione fisica e materiale. La Torà è una guida per la nostra ricerca ideologica ed etica della ragion d’essere, della creazione e della posizione dell’uomo nella creazione. Se insistessimo sulla sua verità scientifica, ci esporremmo inevitabilmente alle critiche degli scienziati. Che, d’altronde, navigano anch’essi nella più completa incertezza, annaspando alla ricerca della verità nell’imperscrutabile mistero della nascita dell’universo, dei mondi, dell’uomo […] Fin dall’inizio della Torà, quindi, ci rendiamo conto che le Sacre Scritture si interessano dell’Universo etico-spirituale piuttosto che di quello fisico” (Elia Kopciowski, Invito alla lettura della Torà, Giuntina p. 19).

I racconti di Genesi non sono un testo scientifico, anche perché la mentalità scientifica moderna ha origine nel XV d. C. circa. Questo però non significa che prima di allora non ci fosse altro che mito, teologia e metafisica, come il biologo François Jacob ci ricorda: “La scienza occidentale è fondata sulla dottrina monastica di un universo ordinato, creato da un Dio che resta fuori dalla natura e la governa per mezzo di leggi accessibili alla ragione umana” (Le Jeu des possibles. Essai sur la diversité du vivant).

 

William Blake, Urizen (1824)

 

Per questi racconti e in genere per i primi 11 capitoli del libro di Genesi si usa molto genericamente la categoria di “mito”. E per mito biblico si intende “una storia che mette in scena Dio, con tutte le prerogative dovute alla sua natura, ma in cui l’uomo svolge il ruolo di creatura familiare da lui giudicata. Come il mito pagano, esso ha lo scopo di rispondere alle grandi domande che l’umanità si pone: il che fa sì che ciascuna generazione, da quando si legge la Genesi fino ai giorni nostri, vi ha proiettato i propri pensieri più profondi” (Gilbert, cit., p. 81). Rispetto ai miti pagani, gli studiosi considerano i racconti di Genesi già un’opera di demitizzazione che Israele avrebbe prodotto, integrandoli nella storia biblica tanto da caratterizzarli appunto con i tratti della storia (concatenazione degli eventi e reazioni dei personaggi fuori da qualsiasi regime di fatalità che ne annullerebbe la responsabilità). L’umanità messa in scena in Gen 2 è infatti tutt’altro che idealizzata, in quanto mostra i caratteri dell’umanità di sempre, chiamata a scegliere liberamente, a confrontarsi con il limite e la possibilità di trasgressione che la legge simboleggia.

Per essere ancora più precisi dobbiamo perciò parlare di eziologie, ovvero racconti intesi a spiegare l’origine di uno stato di cose, di un costume, di una festa, di un luogo sacro, di un nome proprio. L’eziologia mostra cioè il valore fondativo che si riconosce a un evento del passato, in quanto capace di dare valore alla storia presente. Perché ogni evento viene prima vissuto come tale e solo dopo può assumere un significato ulteriore, diventando eventualmente evento di inizio. Nello specifico dei racconti delle origini, cioè che è accaduto in principio è stato desunto da quanto conosciuto e sperimentato nel presente storico della scrittura. L’intento è stato produrre una storia simbolica dell’umanità, affinché il lettore potesse comprendere che quanto è sotto i suoi occhi (ad es. guerre fratricide) è così da sempre (Caino e Abele).Le narrazioni bibliche di conseguenza sono molto di più di un’ipotesi scientifica, molto più di una venerabile leggenda primitiva. Le narrazioni bibliche creano e fondano l’identità di un popolo (P. Ricoeur).

 

 

[continua]

 

 

Margherita e il caregiver innamorato

Scritto da  LORENZO CUFFINI  per San Valentino 2023.

 

Esistono delle figure /tipo che sono diventate simboli e archetipi  di pezzi di Vangelo.

Faccio per dire: il pastore, seppure buono, è immagine e riscrittura  del Cristo. I pescatori, seppure di uomini, sono divenuti immagine e riscrittura  degli apostoli. Il padre, ciascun padre, dal Vangelo in poi, richiama il concetto di Dio/ Abbà,  papa’ buono. Mi disse un amico quando sperimentò  la paternità: solo adesso capisco per davvero il Padre Nostro. E ancora: ogni mamma in attesa,  rimanda alla Madre per eccellenza , a colei che attende, per sé e per tutti, il salvatore del mondo.

Ora. C’è una figura, tipica dei nostri tempi, una creatura per certi versi indefinita e ancora misteriosa, che va popolando le pagine dei giornali e fa, nebulosamente,  capolino dalle parole dei politici e dalle promesse elettorali scritte sull’acqua: è quella del caregiver. Rimanda a qualcosa o a qualcuno di evangelico? Che cosa evoca nella sensibilità e nella mente di un credente? Di cosa puo’ essere ri-scrittura?  La domanda sembra fortemente balzana, ma non lo è troppo, tanto da avere una risposta abbastanza diretta e precisa: di Maria ai piedi della croce. Intendiamoci: a chi è caregiver, per scelta o per ventura, non è che questa immagine piaccia poi molto. Troppo il preponderare della croce, troppo il suo peso, con tutte le  implicazioni ben note, per consentirgli  una immedesimazione o una empatia. Nessuno, per quanto percosso dal destino e dalla malasorte, ama sentirsi collocare in una prospettiva Golgota. E poi, nonostante certa omiletica ricorrente, la vita di caregiving NON è croce.

Ma se si supera questa istintiva repulsione psicologica che funge da  autodifesa, ecco che  si possono cogliere le somiglianze e le connotazioni comuni. Come nel caregiving, sul Calvario c’è una persona – e una sola – colpita e impossibilitata a tutto; e un’altra, che  ama visceralmente la prima, apparentemente integra e libera,  che invece  sta con lui,  non volendo fare altro che questo: stargli insieme. Cercando, senza poterlo fare come vorrebbe, la condivisione e la comunanza di vita e di sentimento. Non per chissà che erosimo, ma perché semplicemente è quella, che c’è sempre stata tra di loro. Immagine di una presenza più forte di ogni ostacolo e di ogni condizione avversa, di una passione fondante che sembra far  mettere le radici proprio in quel  luogo della impossibilità totale.

Pur riconoscendo questo, la scena  fortissima del crocifisso e di sua madre resta troppo impattante e troppo dolorosa per essere accettata e assorbita dai protagonisti del caregiving in modo completo. Il caregiver, piuttosto,  si ritrova – sempre con quel certo imbarazzo che l’aura religiosa comporta – ad immedesimarsi  con il Gesù dei Vangeli che tutto prende su di sé e tutto cura. CURA, attenzione: non guarisce. Il caregiver puo’ essere affetto da sindrome di onnipotenza, ma non pecca di megalomania. Sa che puo’ curare, non guarire: quello non lo puo’ fare, anche se  sarebbe l’unica cosa che veramente, con tutto se stesso, vorrebbe. Ma portare vita, dignità, speranza, sempre sempre sempre, quello lo puo’ fare, eccome: e come lui, puo’ farlo solo lui. E, paradosso incomprensibile a chi non lo sperimenti, è proprio dalla persona che “ assiste” che puo’ ricevere la motivazione, la gratificazione, la naturalezza, l’amore vivificante che null’altro  al mondo riesce a dargli.

 

Se il caregiver è per ventura il marito all’interno di una coppia, c’è un’altra figura evangelica di cui si trova – certamente suo malgrado – a vestire i panni: quella di Giuseppe. Un uomo che, di punto in bianco, si trova a dover considerare la donna della sua vita, quella dei sogni, dei progetti e delle scelte, come sottrattagli  nella sostanza e nella prospettiva, portata  in una dimensione diversa,  sulla quale non ha modo minimamente di influire. E Giuseppe, che potrebbe, se lo decidesse, rifiutare, gettare la spugna, cambiare cavallo, andarsene per la sua strada seppure col cuore in pezzi, che fa? Resta. Sta. Ama. In modo nuovo: tutto da inventare, tutto da scoprire, tutto da sperimentare. E decide  di  farsi amare secondo quelle stesse modalità per nulla incoraggianti e per niente desiderate. Certo: nel caso di Giuseppe arrivano un sogno e un angelo provvidenziali, che al comune  caregiver d’oggi non risulta si presentino ordinariamente. Eppure la vicinanza delle situazioni è talmente evidente, se e quando la si avverte, che proprio un caregiver sposato mi disse, con colorito neologismo: io mi sento un marito sangiuseppato.

C’è una canzone d’amore che riesce straordinariamente ad incarnare il caregiver innamorato. Si tratta di MARGHERITA di  Riccardo Cocciante. Naturalmente, è un canto d’amore universale, si sarebbe detto un volta: nel senso che vale per tutti. Eppure chi è caregiver,  e come caregiver ama, non puo’ non sentirsi profondamente rappresentato dai versi di questo brano.

Io non posso stare fermo con le mani nelle mani
tante cose devo fare prima che venga domani

e se lei già sta dormendo io non posso riposare
farò in modo che al risveglio non mi possa più scordare
Perché questa lunga notte, non sia nera più del nero
fatti grande dolce luna e riempi il cielo intero
e perché quel suo sorriso possa ritornare ancora
splendi sole domattina come non hai fatto ancora

E per poi farle cantare, le canzoni che ha imparato
io le costruirò un silenzio che nessuno ha mai sentito
sveglierò tutti gli amanti, parlerò per ore ed ore
abbracciamoci più forte, perché lei vuole l’amore.

Poi corriamo per le strade e mettiamoci a ballare
perché lei vuole la gioia, perché lei odia il rancore,
e poi coi secchi di vernice coloriamo tutti i muri,
case, vicoli e palazzi, perché lei ama i colori
raccogliamo tutti i fiori, che può darci primavera
costruiamole una culla, per amarci quando è sera
poi saliamo su nel cielo, e prendiamole una stella,
perché Margherita è buona, perché Margherita è bella.

Perché Margherita è dolce, perché Margherita è vera
perché Margherita ama, e lo fa una notte intera
perché Margherita è un sogno, perché Margherita è il sale
perché Margherita è il vento e non sa che può far male
perché Margherita è tutto, ed è lei la mia pazzia
Margherita, Margherita…Margherita…adesso è mia…

C’è tutto. Il delirio di cose da fare che si genera e rigenera ogni giorno,  portando  il caregiver a surfare sull’ansia e sulle liste di impegni reiterati. La contemplazione  della bellezza della moglie, di silenzio e sonno, che sembra intatta e integra nella dolcezza del riposo della notte. Quelle notti lunghe, che potrebbero  davvero essere nere più del nero, se non fosse per la potenza di chi vuole e di chi ama, che scavalca ogni oscurità e va a cercare lune e soli enormi, esagerati,  tanto più grandi, chimerici e splendenti quanto maggiore è la paura di non poterli più vedere. E come non ritrovarsi, si chiede il caregiver innamorato, nel farsi tutto e fare ogni cosa per tenere desto e acceso il sorriso di tutti e due, per creare comunque con l’immaginazione , il desiderio e la fantasia  camminate e corse e balli , e appassionarsi a cercare una tavolozza infinita di colori per ricacciare indietro l’aggressione del grigio, della mezza tinta, della noia del bianco e nero?  Come non ritrovarsi nella scommessa continuamente rilanciata, nell’iperbole portata a regola di vita, nel puntare ad astri e stelle, tanto più le cose, la situazione, il male, i collitorti di chi ti sta attorno vi vorrebbero rassegnati al poveretti! e alla compassione cimiteriale?

E allora sì: non solo o’ surdato, ma anche o’ caregiver è innamorato,  e spiega – come può –  il suo canto in crescendo emozionato:

perché Margherita è buona, perché Margherita è bella.

Perché Margherita è dolce, perché Margherita è vera
perché Margherita ama, e lo fa una notte intera
perché Margherita è un sogno, perché Margherita è il sale
perché Margherita è il vento e non sa che può far male
perché Margherita è tutto, ed è lei la mia pazzia

Margherita, Margherita…Margherita…adesso è mia…

 

 

 

In principio… il racconto

Scritto da  MARIA NISII.

 

Raccontare gli inizi è una questione di incipit.

Ogni storia si dà a partire da un luogo e un tempo in cui tutto ha avuto origine, ogni cosa è venuta alla luce, sottraendosi al non essere. La narrazione degli inizi e di ogni inizio è impastata di storia e fiction, scienza e racconto, rappresentazione e immaginazione. Pensare agli inizi, indagare il principio, implica un ritorno alla fonte, all’origine… è fare un viaggio a ritroso nel tempo. Un viaggio che è possibile solo preservando la distanza, assumendo lo sguardo di chi, ben posizionato nel suo presente storico, raccoglie e abbraccia quel tempo passato donandogli un senso.

L’inizio può essere ritenuto una necessità, ma nell’arte l’atto creativo contiene sempre un che di arbitrario. Tracciare un segno sulla pagina bianca è un gesto carico di implicazioni, apre al mondo dei possibili, in cui il lettore si immerge totalmente più o meno dimentico di quel che lo circonda. E quanto più l’incipit è buono, tanto meno si coglierà la presenza del narratore e di tutte le strategie letterarie poste in atto perché il racconto funzioni.

 

 

 

L’inizio è anche una promessa, crea un’attesa. Un attacco forte cattura immediatamente e tutti i grandi romanzi ne hanno uno, spesso memorabile. Perché non basta avere una storia da raccontare; bisogna anche saperla raccontare e saperla iniziare bene. E quando capita, il lettore è disposto a credere a qualunque cosa – anche che un uomo, alzatosi al mattino, possa scoprire di essersi trasformato in un insetto gigante. È il cosiddetto “patto con il lettore”, ovvero il sapere che la storia che si sta leggendo è immaginaria ma non per questo è una menzogna. Dunque bisogna anche che sia convincente, specie se si vogliono rompere alcune delle regole della vita reale.

In principio Dio creò il cielo e la terra… chi era presente per raccontarlo? Chi è questo narratore che sa quello che ha fatto Dio? Quale osservatore umano potrebbe divulgare ciò che ha preceduto la creazione dell’uomo? Questa voce si presenta come trascendente il sapere umano, oltre a godere del privilegio di entrare nell’interiorità divina – “Yhwh fu dispiaciuto di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo…” (Gen 6,6) – e in quella umana – “Abramo si prostrò col viso a terra e rise, dicendo in cuor suo: “Ad uno di cento anni nascerà un figlio?” (Gen 17,17). Siamo dunque di fronte al classico narratore onnisciente.

 

 

 

 

Sorgendo da un tempo successivo, l’incipit è già in sé una sintesi, un punto di approdo di quanto ha preceduto l’intuizione creativa. In principio Dio creò il cielo e la terra… Nel mezzo del cammin di nostra vita… Chiamatemi Ismaele… Per molto tempo mi sono coricato presto la sera… Come l’autore di Genesi 1, così Dante, Melville e Proust fissano nello scritto il risultato di una lunga riflessione sulla vita e sull’essere, pervenendo in un certo modo a un punto fermo. “È nel momento della fine (fine di un amore, fine di una vita, fine di un’epoca) che il tempo passato all’improvviso si rivela come un tutto e assume una forma luminosamente chiara e compiuta” (M. Kundera). È perché si conosce il seguito che si possono raccontare le origini.

 

[continua]

Io voglio sapere

Scritto da LORENZO CUFFINI.

Esiste une riscrittura per immagini?

La risposta è tanto ovvia da rendere provocatoria la domanda. Certo che sì: tutta l’arte figurativa sacra, il teatro dal tempo delle Laudi e delle sacre rappresentazioni in giù, fino al  cinema- dai suoi albori ad oggi- lo dimostrano senza dubbi.  Quello che è meno scontato è constatare che anche le “ semplici” immagini di cronaca possono riscrivere, magari senza volerlo, una pagina di Bibbia. Anche se scattate soltanto per  descrivere e documentare la realtà di un fatto.

 

 

Quella qui sopra, per esempio, è  la fotografia della statua di Gesù vandalizzata nella chiesa della Flagellazione a Gerusalemme, prima tappa della Via Dolorosa nella Città Vecchia. La statua lignea è stata  rovesciata e sfregiata con un martello, da parte probabilmente di un estremista religioso anticristiano, peraltro arrestato e attualmente indagato. Ma guardandola, più che la notizia, grave e odiosa di per sé, il credente sente risuonare al suo orecchio:

  • Frattanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo schernivano e lo percuotevano, lo bendavano e gli dicevano: «Indovina: chi ti ha colpito?». E molti altri insulti dicevano contro di lui.
  • I soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora; quindi gli venivano davanti e gli dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi.
  • Il  Figlio dell’uomo sarà consegnato ai pagani, schernito, oltraggiato, coperto di sputi e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno.. 
  • Disprezzato e reietto dagli uomini,
    uomo dei dolori che ben conosce il patire,
    come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
    era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
  •  Maltrattato, si lasciò umiliare
    e non aprì la sua bocca;
    era come agnello condotto al macello,
    come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
    e non aprì la sua bocca.

Ok: è solo una foto. Ok: è solo una statua. Il fatto è che la violenza di cui è stata fatta oggetto è vera e concreta, veri e concreti i colpi, segno di un vero e concreto odio, che richiama alla mente, attualizzandolo, quello esercitato duemila anni or sono, in ben altra tragedia, sull’Originale in carne, ossa e Spirito. E’ qualcosa di più di una suggestione: è la prova tangibile che la violenza e l’aggressività covano sotto la cenere e restano pronte ad esplodere . Questa immagine è ri-scrittura, seppur pallida, della violenza e della aggressività narrate dai Vangeli . Ed è in grado di colpire più e meglio di una pagina scritta.

Dunque: cronaca che, indirettamente, riporta alla mente la Scrittura. Ma il binomio, funziona anche in altro modo. C’è anche chi, muovendosi in senso contrario, per dir così, sente il bisogno di testare la Scrittura – e la fede di cui è espressione e rivelazione- passandole alla verifica della cronaca minuta e quotidiana. E’ il caso di quell’anima ardente e splendida, ma quanto scomoda nella sua fede accesa e ispida, di David Maria Turoldo. Il quale scrive una poesia, una preghiera non preghiera, come spesso si potrebbero definire le sue composizioni. Una manifestazione di fede, protesta, rivendicazione, passione, amore. La intitola “ Io voglio sapere”. Prete,  uomo di Dio, Turoldo è come se dicesse: tutto vero, tutto bello, ma… oppure: poche storie! Io voglio sapere come stanno le cose veramente. Sottintendendo che non gli bastano le enunciazioni di fede e di principio; i fatti di ogni giorno e della vita pongono domande urgenti e irrinunciabili proprio  a quelle enunciazioni e a quei principi. Nessuno si scandalizzi di questo atteggiamento: che è di grande fede. La fede non è dichiarare una verità conclamata e incontestabile: per dire che un geranio è un geranio, non occorre alcun atto di fede, solo una banalissima constatazione lapalissiana. L’atto di fede diventa necessario e si materializza quando, ponendosi domande , tante, tutte, comprese le più scomode e  le meno semplici, anche quelle che portano fino al confine labile e drammatico con la negazione di Dio, tu arrivi a poter dire  : le conosco, le riconosco, me le pongo e mi interrogo. Per qualcuna ho una  risposta, per molte altre no: ma è che chiudo gli occhi e salto, dalla terraferma della certezza tangibile al vuoto senza rete della fede nel mio Dio.

Questo lungo elenco di questioni, che Turoldo cocciutamente ripropone, con quel suo insistere sull’Io voglio sapere, trova , nel rapporto tra fede e cronaca e storia, continui rimandi e agganci. Ne fornisco qualche esempio tra i tanti possibili, pescato dalla lettura dei giornali di questa ultima settimana.

 

IO VOGLIO SAPERE  (David Maria Turoldo)

.

Io voglio sapere

se Cristo è mai stato creduto,

se è venuto e viene e verrà;

o sia appena un’invenzione

per un irreale gioco del Signore

di contro al cupo

giorno dell’uomo

 

 

Io voglio sapere

se veramente qualcuno crede

e come è possibile credere:

se almeno i fanciulli

-avanti ogni cultura-

vedono ancora il Padre.

 

 

 

 

Io voglio sapere

se l’uomo è una fiera

ancora sulle soglie della foresta:

se la ragione è una rovina

 

.

 

Io voglio sapere

se il nostro vivere è appena una difesa

contro la vita degli altri:

questo uomo bianco

il più feroce animale

sempre all’assalto

contro ogni altro uomo,

o maledetto occidente.

 

 

Io voglio sapere

se ci sono ancora gli assoluti,

o se io sono sacerdote

di colpevoli illusioni;

se è vero che saremo

finalmente liberi

se saremo ancora liberi

se saremo mai liberi.

 

 

 

 

Io voglio sapere

qual è il potere di resistere,

se sopravvivrà ancora l’amore,

se pure è mai esistito.

 

Io voglio sapere

se resisterà ancora Cristo,

perché, se no, mi ammazzo

 

 

 

Io voglio sapere

se l’uomo cresce

e quale sarà l’intelligenza

d’un abitante della metropoli:

se la scienza non sia la morte

e questa macchina

non sia la nostra bara d’acciaio

 

 

 

Io voglio sapere

se esiste una forza salvatrice

e se nasce a Natale;

che almeno la Chiesa non sia

la tomba di Dio,

l’ultima sconfitta dell’uomo.

 

 

 

Io voglio sapere

se la pace è possibile

se la giustizia è possibile

se lo spirito è più forte della forza.

 

Io voglio sapere

se qualcuno ha fede ancora

in un futuro.

Io voglio sapere

se Cristo è veramente risorto,

se la Chiesa ha mai creduto

che sia veramente risorto.

 

 

 

Io voglio sapere

perché allora è una potenza,

e perché non va per le strade

come una follia di sole

a dire: Cristo è nato! Cristo è risorto!

E perché non rinuncia alle ricchezze

per questa sola ricchezza di gioia.

Perché?

 

 

 

 

 

Mia chiesa amata e infedele,

mia amarezza di ogni domenica,

chiesa che vorrei impazzita di gioia.

Perché?

 

Io voglio sapere.

 

 

 

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  • Le immagini sono tratte dai siti online di Avvenire, Vatican news, L’Osservatore Romano, Agensir

 

L’utilità delle cose inutili

Scritto da  MARIA NISII.

 

Per la giornata della memoria

 

Ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile”, sosteneva Montale in occasione del conferimento del Nobel. “Inutile utilità della poesia”, la definisce Robert Desnos, poeta surrealista francese,dal campo di concentramento. Ed erano versi di poesie quelli che in tanti si sono ripetuti nei campi: Osip Mandel’stam recitava Petrarca, Etty Hillesum leggeva per sé e per altri Rilke, Primo Levi declama il canto di Ulisse di Dante a un compagno di prigionia. (https://www.youtube.com/watch?v=C7ebABkx9RA)

 

 

In questo senso la poesia è inutile come la preghiera, ovvero improduttiva, inefficace o – come sostiene Nietzsche – un borbottio di formule vuote, simile a un lungo meccanico lavoro delle labbra. Ma prima di cestinare tutto nell’indifferenziato, occorre valutare quanto si rischia di perdere, perché la preghiera – secondo il teologo moralista G. Piana – “esige la presa di coscienza dell’utilità delle cose inutili, come la fantasia, il gioco, il mito, la poesia, l’amore; esige come terreno di impianto un diverso modello antropologico, capace di un respiro esistenziale più profondo nel quale è possibile un contatto esperienziale con il mistero; esige un’attitudine fatta di recettività, di ascolto, di intuizione, di disponibilità.E quanto qui detto della preghiera si può perfettamente estendere alla poesia, ugualmente capace di attingere alle profondità dell’essere e aprirsi al mistero.

Ne sa qualcosa D.M. Turoldo, religioso e poeta: “nulla di più gratuito della poesia […] Io stesso, nel mentre che lo sento e lo canto, non so neppure dire perché. Solo che non posso non cantare. Così la poesia sarebbe la gratuità più necessaria che si possa augurare a ogni esistenza”. Inutile e gratuita, ma vitale e indispensabile, come l’amore, capace di spingerci ad andare oltre e superarci. L’ossimoro di Desnos, a partire dal quale vogliamo riflettere, ci riporta ancora una volta ai tempi di crisi quando la poesia si è trasformata in atto di resistenza. Ne seguiamo alcuni esempi celebri.

 

 

Etty Hillesum, ebrea olandese e collaboratrice del Consiglio Ebraico di Amsterdam, rimane diverso tempo nel campo di smistamento di Westerbork, dal quale ha la possibilità di scrivere alcune lettere agli amici. In una missiva del dicembre 1942 indirizzata a due sorelle dell’Aia scrive: «Una sera d’estate ero seduta a mangiare il mio cavolo rosso sul ciglio del campo giallo di lupini, che dalla nostra mensa si estendeva fino alla baracca di disinfestazione, e riflettevo a voce alta, con aria ispirata, “si dovrebbe scrivere la cronaca di Westerbork”. Un uomo anziano seduto alla mia sinistra – anche lui con il cavolo rosso – aveva replicato: “Sì, ma ci vorrebbe un poeta”… Quell’uomo ha ragione, ci vorrebbe proprio un grande poeta, le cronachine giornalistiche non bastano più».

Per Hillesum quanto accade richiede più che mai un poeta, fondamentale proprio nei tempi di maggiore miseria spirituale e di eclissi del divino dall’orizzonte umano. Ed è emblematico come il Libro d’ore di Rainer Maria Rilke, che ha portato con sé nel campo, la aiuti a sopportare la drammaticità di quella situazione che ha messo a dura prova una fetta di umanità. Questo stesso libro diventa infatti occasione di una lettura speciale, una sera, con due membri della direzione ebraica del campo. Uno di loro, ricordandolo, inizia a leggerlo ad alta voce – un atto che sembra risvegliare in lui una coscienza dimenticata, tanto da apparire improvvisamente ringiovanito.

La giovane donna è persuasa che, quando tutto sarà finito, sarà necessario un nuovo linguaggio, nuove parole per raccontare l’esperienza della shoah: «Più tardi, forse molto più tardi, svilupperò e stamperò tutte queste immagini – quando avrò trovato il tono giusto per esprimere questo nuovo modo di sentire la vita. Tutto dovrebbe tacere finché questo nuovo tono non sia stato trovato” (10 luglio 1943). Le parole nuove richiedono tempo paziente di attesa, riposo, solitudine, grazia. Un compito adatto a un poeta – o a un mistico, come è il caso di Etty Hillesum, che purtroppo non sopravvive alla deportazione ad Auschwitz.

 

 

Il campo di Terezin,dove Desnos perde la vita, è diventato il simbolo della persecuzione degli artisti. Durante la seconda guerra erano lì internati musicisti e teatranti, oltre a letterati e poeti. E da lì in tanti vennero caricati sul Künstlertransport, il treno degli artisti: musicisti, scrittori, poeti, attori, compositori, accademici e scienziati che avevano animato l’esperienza del campo, usato come vetrina della propaganda nazista, che desiderava mostrare come i campi di concentramento fossero luoghi vivibili e allietati da spettacoli. Allo scopo a Terezin erano stati allestiti concerti e spettacoli, secondo l’intuizione perversa di Joseph Goebbels di creare un campo modello. (https://www.youtube.com/watch?v=29iPfoq-nPA)

 

I disegni dei bambini di Terezin

 

É da un altro campo di concentramento, Görlit al confine sud-est della Polonia, che Olivier Messiaen compone il Quatuor pour la fin du Temps (Quartetto per la fine del Tempo), richiamando motivi apocalittici tra cui l’ultimo angelo nel settenario delle trombe (Ap 11). Anche quest’opera si occupa del tempo, per questo la partitura si apre con una citazione dal cap. 10:

«E vidi un angelo, forte, scendere dal cielo, avvolto in una nube; l’arcobaleno era sul suo capo, la sua faccia era come il sole, le sue gambe come colonne di fuoco, […]. Pose il piede destro sul mare, e il sinistro sulla terra, e […] tenendosi ritto sul mare e sulla terra, alzò la mano […] al cielo, e giurò nel nome del vivente per i secoli dei secoli […] dicendo: “Non vi sarà più altro tempo! Nei giorni del suono del settimo angelo si compirà il mistero di Dio».

Il compositore dichiarò: “non ho voluto in alcun modo realizzare un commento al libro della Rivelazione, ma semplicemente giustificare il mio desiderio di cessazione del tempo”. (https://www.youtube.com/watch?v=wggLiCPjGZM )

 

 

Respirano lievi gli altissimi abeti
racchiusi nel manto di neve.
Più morbido e folto quel bianco splendore
riveste ogni ramo, via via.
Le candide strade si fanno più zitte:
le stanze raccolte, più intense.
Rintoccano l’ore. Ne viene
percosso ogni bimbo, tremando.
Di sovra gli alari, lo schianto di un ciocco
che in lampi e faville , rovina.
In niveo brillar di lustrini
il candido giorno là fuori s’accresce,
diviene sempiterno, infinito.

(Rainer Maria Rilke, Gennaio)

Riscrivere vivendo

 

 

 

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

 

Ci sono davvero tanti modi di riscrivere la Bibbia e il nostro blog considera diverse forme artistiche che si cimentano nell’impresa di riproporla in maniera più o meno fedele. Non dovremmo, però, dimenticare che uno degli ambiti più creativi della riscrittura biblica è quello della vita. È noto che, ad esempio, Francesco d’Assisi venne indicato come “alter Christus”, non soltanto in ragione delle stimmate che riprendevano le ferite del Crocifisso, ma per un percorso di vita che si modellava su quello del maestro. Di molte sante e santi si potrebbe dire che hanno rivissuto la vicenda biblica, imitatori dei discepoli e fedeli seguaci dei primi pastori, ma forse è più stimolante esaminare quelle forme di riscrittura che sono meno intuitive, cioè quelle vite che sono rimaste laiche pur essendo pienamente intrise dello spirito biblico.

Se pensiamo ai profeti della Scrittura, hanno meno epigoni rispetto ad altre figure. E non c’è da meravigliarsi: il profeta è un personaggio scomodo che riconosce i segni della presenza di Dio nella storia, li indica e interviene con un coinvolgimento diretto che spesso comporta gravi disagi per la sua vita. Certamente c’erano anche i cosiddetti profeti di corte che si allineavano ai gusti e al pensiero del sovrano di turno, ma di questi è bene dimenticarsi in fretta. Le grandi figure profetiche sono invece anime travagliate che sentono l’intimo tormento del messaggio che devono portare, come Geremia, o il peso della sfida alle istituzioni corrotte, come Elia. C’è una dimensione pubblica in questi profeti che non deve sfuggirci e – soprattutto – una dimensione politica.

 

 

Oggi molti credenti guardano con fastidio al coinvolgimento politico, urtati da commistioni indebite e da compromessi vergognosi che hanno screditato la chiesa nel suo cammino. Ma i profeti sono l’esatto opposto di questi accomodamenti. Nel suo linguaggio colorito, don Lorenzo Milani aveva come progetto di vita “star sui coglioni a tutti, come sono stati i profeti”. Il loro ruolo di denuncia non fu lo sfogo personale di chi sposa una causa, ma la missione che incarnavano a nome di Dio che li accreditava come portavoce autorevoli davanti all’autorità. E i re ne avevano rispetto anche quando erano in disaccordo, come mostrano molti esempi da Acab con Elia a Erode con Giovanni Battista.

 

 

 

 

Il 9 maggio 2021 è stato beatificato Rosario Livatino, primo magistrato nella storia a salire agli altari. Riconoscendo che il suo assassinio ad opera di quattro killer della stidda è avvenuto “in odio alla fede”, la sua morte si configura come un martirio. Tornano alla mente le parole di Gesù in Matteo 23,35 dove richiama il sangue innocente versato da Abele a Zaccaria, cioè dalla A alla Zeta.

Si dirà che la vita di un uomo che ha scelto di impegnarsi nella magistratura è diversa da quella di uno che il Signore ha chiamato direttamente dal suo lavoro di coltivatore di sicomori come Amos… Certamente sì! Ma la scoperta di una missione all’interno di un vissuto quotidiano rendono simile il cammino interiore del profeta biblico e quello del credente impegnato. Il senso del limite che sperimenta un Geremia o un Elia sul finire della sua opera assomigliano a ciò che scriveva nella sua agenda Livatino: “Il peccato è ombra, e per giudicare occorre la luce. Ma nessun uomo è luce assoluta”. Colpisce molto, poi, l’accostamento tra la nota espressione di Elia “per la vita del Signore alla cui presenza io sto” e la frase con cui Livatino iniziava i suoi appunti, “sub tutela Dei”. Il postulatore della sua causa ha evidenziato bene come il senso proprio di questa espressione sia non tanto “sotto la custodia” ma “sotto lo sguardo” di Dio, che sottolinea una presa di coscienza dell’agire davanti a Lui.

 

La camicia intrisa di sangue indossata al momento dell’assassinio.

 

Riscrivere, dunque, la Bibbia con la vita è un modo di raccogliere la testimonianza che si è ricevuta e ciò che è scritto col sangue è ancora più efficace di ciò che è vergato solo con l’inchiostro.