In principio…era la Parola

 

Scritto da MARIA NISII.

 

Nel principio era la Parola. La Parola era presso Dio, significava la Parola di Dio, la Parola che era Creazione. Ma, nel corso di secoli di cultura umana, la parola ha acquisito altri significati, tanto secolari che religiosi. Avere la parola è divenuto sinonimo di autorità suprema, di prestigio, di potere, di persuasione enorme e talvolta pericoloso, di facoltà di apparire nella fascia oraria di massimo ascolto o in un talk-show televisivo, di dono dell’eloquenza o delle lingue. […]” (Nadine Gordimer, Scrivere ed essere)

Quando riceve il Nobel nel 1991, Nadine Gordimer ( nell’immagine di copertina ritratta con Nelson Mandela) pronuncia questo discorso richiamando l’incipit giovanneo per la potenza del termine Logos. Il significato assunto dalla scrittrice comprende infatti un asse semantico molto ampio, che va potenzialmente dalla scrittura (il suo è un Nobel per la letteratura) alla politica (è stata un’attivista anti-apartheid in Sudafrica).

 

 

Sta scritto: “In principio era la Parola”.

Ed eccomi già fermo. Chi m’aiuta a procedere?

M’è impossibile dare a “Parola

tanto valore. Devo tradurre altrimenti,

se mi darà giusto lume lo Spirito.

Sta scritto: “In principio era il Pensiero”.

Medita bene il primo rigo,

ché non ti corra troppo la penna.

Quel che tutto crea e opera, è il Pensiero?

Dovrebb’essere: “In principio era l’Energia”.

Pure, mentre trascrivo questa parola, qualcosa

Già mi dice che non qui potrò fermarmi.

Ma dà aiuto lo Spirito! Ecco che vedo chiaro

E, ormai sicuro, scrivo: “In principio era l’Azione”!

(Goethe, Faust, vv. 1224-1237)

 

Il dottor Faust ha trascorso la sua vita alla ricerca di un sapere che si è rivelato vano e deludente. Al colmo della disperazione pensa di non avere altra via che il suicidio, ma quando sta per bere il veleno ode il suono delle campane di Pasqua e i cori liturgici lo frenano da quel gesto anticonservativo. Ripensa all’infanzia e si commuove. Alla sera nel suo studio si accinge a tradurre i primi versi del vangelo di Giovanni, ma il cane che ha portato con sé dalla strada si rivelerà essere Mefistofele. È l’inizio della storia. Un inizio che, non casualmente, attinge al principio fondativo.

Hitler richiamerà questo passo del Faust deformandolo a suo piacimento, ma pure cogliendone la portata: “Io non amo Goethe. Ma sono disposto a perdonargli molto per via di una sola parola: ‘In principio era l’azione”.

Victor Klemperer, docente ebreo di letteratura francese nell’università di Dresda, che scampa al lager solo perché la moglie ariana si rifiuta di lasciarlo come avrebbe dovuto fare secondo le leggi dell’epoca, lavora come operaio in fabbrica nei reparti speciali dedicati agli ebrei, e dal 1933 al 1945 tiene un diario. Nel suo diario, egli racconta le parole in quanto fatti, realtà oggettive, testimonianze. Parole che raccontano chi le pronuncia, magari in modo inconsapevole o automatico. La lingua che per dodici anni un popolo ha usato per comunicare. In breve Klemperer racconta come le parole siano diventate “azioni”.

Anche la lingua del Terzo Reich ha quindi mostrato la sua potenza rivelatrice (nel senso che ha mostrato il vero volto delle cose) nell’occultare, distorcere, mistificare: “perfino in coloro che erano le vittime più perseguitate e che necessariamente dovevano essere nemici mortali del nazismo, perfino fra gli ebrei, dappertutto, nei loro discorsi, nelle loro lettere e anche nei loro libri finché poterono pubblicarli, altrettanto onnipossente quanto povera, resa anzi onnipossente dalla sua povertà, regnava la lingua del Terzo Reich”. Secondo Kemplerer, finendo col parlare la stessa lingua, si spiega come sia stato possibile che le vittime diventassero vittime di se stesse, accettando di consentire a quella logica perversa. Perché la lingua “ dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei”.

 

 

 

Della lingua allora bisogna essere consapevoli, attenti al suo potenziale manipolativo. Il poeta polacco Czesław Miłosz, a sua volta Nobel per la letteratura, che ha vissuto la persecuzione e l’esilio, osserva a questo proposito: “Chiunque detenga il potere può controllare anche il linguaggio, e non solo con le proibizioni della censura, ma cambiando il significato delle parole”. E chi con le parole lavora è più consapevole di altri che cambiare i significati o eliminarne (oggi si parla anche di cancel culture) cambia il modo di pensare. “I confini del mio linguaggio sono i confini del mio mondo”, diceva infatti Wittgenstein. Se non conosco le parole, se non so nominare le cose, non so neppure pensarle.

L’in principio è stato riscritto molte volte e in molti linguaggi da chi le parole le possedeva e sapeva maneggiarle. Non sempre a buon fine. Il riscrivere ha infatti anche un potenziale perverso, piegabile a ideologie malate e l’unico nostro vaccino è l’abitudine alla lettura, attenta paziente attiva. Leggi, lettore! Leggi! Sii co-creatore del testo che hai davanti e dagli forma plasmandolo con la tua immaginazione.

I Beatles e la fede

 

 

Scritto da DARIO O. COPPOLA.

 

 

George Harrison scrive una canzone, che qui riportiamo, intitolata The inner Light:

Senza uscire di casa/posso conoscere tutte le cose della terra./ Senza guardar fuori dalla finestra/ potrei conoscere le vie del cielo./ Più lontano si viaggia, meno si conosce,/ meno si conosce veramente./ Senza uscire di casa/ potete conoscere tutte le cose della terra./ Senza guardare fuori dalla finestra/ Potete conoscere le vie del cielo […] Arriva senza viaggiare/ Vedi tutto senza guardare./ Fai tutto senza fare“.

 

 

Questi versi fanno diretto riferimento al Tao Te Ching (il Libro della Via e della Virtù), che appartiene alla letteratura religiosa cinese, e precisamente al taoismo (III sec. a. C.).

Già in WithinYou WithoutYou abbiamo notato una tendenza religiosa,volta soprattutto all’interiorità, alla profonda meditazione tipicamente orientale. Fu Lao-Tze a fondare le basi filosofiche del taoismo nel VI secolo a. C., ma sino al II secolo a. C. non si può parlare di taoismo come religione strutturata, imperniata sull’autonomia individuale legata soltanto ai cicli naturali. L’interiorità è talmente importante da annullare in sé l’esteriorità: il tao è il divenire di ogni cosa, causato dall’alternarsi del principio femminile – freddo e passivo – (yin) con quello maschile – caldo e attivo- (yang). Da questo movimento ha origine ogni esistente, ogni individuo che reca già in sé tale opposizione (essere/non-essere; vivere/morire): conformandosi al tao, ognuno senza muoversi più (wu-wei) muta, senza agire progredisce.

Dice Harrison: “Arriva senza viaggiare/ Vedi […] senza guardare/ Fai […] senza fare“.

In cinese tao significa “via”, ed è un concetto presente già nel confucianesimo, ove indicava un rigoroso principio di comportamento sociale nell’etica religiosa.

 

 

Un trionfo religioso dell’Oriente, e non solo, possiamo ascoltare nel celebre testo di Harrison My Sweet Lord:

Mio Dolce Signore/ Mio dolce Signore/ Hm […] Voglio davvero vederti/ Voglio davvero stare con te/ Davvero voglio vederti, Signore/ Ma ci vuole così tanto tempo, mio Signore/ Mio dolce signore Hm,/ […] Hm, mio signore/ Voglio davvero conoscerti/ Davvero voglio andare con te/ Davvero voglio mostrarti, Signore/ Che non ci vorrà molto, mio Signore (hallelujah)/ Mio dolce Signore (hallelujah)/ Hm, mio Signore (hallelujah) […] Voglio davvero vederti […] Ma ci vuole talmente tanto tempo, mio Signore (hallelujah) Mio dolce Signore (hallelujah)/ Hm, mio Signore (hallelujah)Mio, mio, mio Signore (hallelujah)/Voglio davvero conoscerti (hallelujah)/ Davvero voglio andare con te (hallelujah)/ Davvero voglio mostrarti Signore (aaah)/ Che non ci vorrà molto, mio Signore (hallelujah)/ Hmm (hallelujah)/ Mio dolce Signore (hallelujah) Ohhm, mio dolce Signore (krishna, krishna)/ Oh-uuh-uh (harehare) Davvero voglio vederti (hare rama)Davvero voglio stare con te […] Ma ci vuole così tanto tempo, mio Signore (hallelujah)Hm, mio Signore (hallelujah)Mio, mio, mio Signore (hare Krishna)/Mio dolce Signore (hare Krishna)[…] Hm, hm (Gurur Brahma) […] (Gurur Vishnu)/ Hm, hm (Gurur Devo)/ Hm, hm (Maheshwara) […] (GururSakshaat) […] Parabrahma) Mio, mio, mio signore (Tasmayi Shree)/ Mio, mio, mio, mio signore (GuruveNamah) […] (Hare Rama) /A svanire[…]“.

Questi versi, tra gli altri, sono un crogiuolo, un vero e proprio melting-pot religioso.

 

 

Proseguiamo ora nella nostra analisi del linguaggio religioso utilizzato da Lennon-Mc Cartney.

In Happinessis a warm gun leggiamo: “Madre Superiora, parti prima del colpo“. Così John Lennon chiamava Yoko Ono in privato… Madre Superiora…

 

 

 

 

 

In The Ballad of John and Yoko compare spesso l’invocazione

“Cristo! Sapete non è facile […] Finiranno col mettermi in croce […] Ho detto cerchiamo solo di ottenere un po’ di pace […] La notte scorsa la moglie ha detto, oh ragazzo, quando sei morto/ Non porti con te nient’altro che la tua anima/ Rifletti […] I giornali han detto […] Sembran proprio due Guru travestiti“.

 

 

 

Un panteismo cosmico emerge inoltre in Because, che rileggeremo la prossima volta, di Lennon-Mc Cartney.

(2. Continua)

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  • Questa è la rivisitazione di un precedente articolo di Dario Coppola già pubblicato sul Corriere di Torino e della Provincia del 29/06/1996
  • Puoi ascolater i brani citati nell’articolo ai link seguenti

The inner lighthttps://www.youtube.com/watch?v=swT6YTPYwgM

My sweet Lordhttps://www.youtube.com/watch?v=04v-SdKeEpE

Happiness is a warm gun : https://www.youtube.com/watch?v=vdvnOH060Qg

The Ballad of John and Yoko : https://www.youtube.com/watch?v=v-1OgNqBkVE

 

La stagione nuova

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

Riscrittura per il tempo di Pasqua.

 

Nel finale di GESU DI NAZARETH,  la sceneggiatura e Zeffirelli rielaborano e riscrivono la vicenda rispetto alla narrazione evangelica.

Il racconto procede fedele sino alla andata di Maddalena al sepolcro e alla sua scoperta della pietra rovesciata e della tomba vuota. L’apparizione del Risorto alla donna e il “ noli me tangere” non vengono rappresentati, ma fatti raccontare  agli apostoli, dai quali Maria di Magdala si reca per portare l’annuncio inaudito. Come nel racconto dei vangeli, non viene creduta.

Da questo momento il film  segue una linea narrativa sua propria. Gli apostoli dubitano: ma non Pietro, che fa immediatamente la sua proclamazione di fede, ancor prima di andare a verificare di persona con Giovanni  (cosa che non viene mostrata). Contemporaneamente, manifesta agli amici increduli  il suo essersi pentito per il rinnegamento del Maestro, protesta – e implicitamente rivendica – il suo avere da sempre riconosciuto in Gesù il Cristo. Infine afferma la sua convinzione, meglio il suo intimo convincimento, di essere stato perdonato. Insieme agli altri apostoli. A tutti quanti.

Dopo una breve parentesi dedicata al sopralluogo dei funzionari del Sinedrio al luogo del presunto furto del cadavere, la ripresa indugia sul sepolcro vuoto, e poi torna all’interno del luogo a porte chiuse in cui gli Undici erano nascosti dal momento della crocifissione. Qui, in un’unica scena, viene  mostrato  il Risorto tra i suoi, in una sorta di concentrato di frasi e insegnamenti tratti  dalle varie apparizioni di Gesù raccontate dai Vangeli.

 

 

Manca il triplice interrogatorio a Pietro ( mi ami tu?) , la sua triplice professione (Signore, lo sai che ti amo) e il vaticinio sul destino che lo attende (stenderai le braccia e un altro ti condurrà dove tu non vuoi). In compenso, in bocca a Pietro, vengono messe le parole che i discepoli di Emmaus pronunciano dopo averlo riconosciuto con lo sguardo della fede : Signore, resta con noi! La notte è vicina, il giorno è già alla fine . A questo viene fatta seguire la risposta  del Maestro: Non abbiate paura, Io sarò con voi ogni giorno, fino alla fine del tempo.

La richiesta di Pietro e la promessa del Risorto vengono rappresentate  mentre Gesù lo abbraccia con tenerezza  insieme a Giovanni, uno appoggiato su ogni spalla, nel gesto più affettuoso e fraterno dell’intero film. Proprio questa inquadratura finale, aldilà delle scelte di sceneggiatura, ci racconta qualcosa di molto sottile e profondo rispetto allo stato d’animo di Simone dopo la Risurrezione. In lui non  c’è stato solo il passaggio dalla incredulità alla fede, la gioia del vedere il Maestro vivo, lo choc visivo e sensoriale che si imprime in mente e cuore e  li trasforma per sempre, la spiegazione del non compreso in precedenza e l’insegnamento per il futuro. In lui non solo si concretizza la missione, si attua il consolidamento della fede, si compie l’atto sacramentale della confermazione mediante lo Spirito. Ma si adombra un tratto umanissimo, del tutto verosimile, che deve necessariamente esserci stato. Si tratta della voglia di non perdere il Maestro per la seconda volta, il voler restare per sempre insieme a lui, la nostalgia precoce e anticipata  della sua presenza, che serpeggia da un momento dopo che se ne ha la certezza fisica e provata.  E’ di  nuovo il Pietro del monte Tabor, quello che esclamava “Signore, è bello per noi stare qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia.”  Ma questa volta non è una mistica Trasfigurazione, è una Risurrezione in carne ed ossa.

A differenza di prima, gli Apostoli ora sanno.

E, soprattutto, gli Apostoli ora sono.

E’ delicato e bello che l’opera di Zeffirelli si chiuda su un gesto e con una immagine di grande e forte amicizia fraterna. Nel momento in cui Gesù , risorgendo, vince la morte e si appresta a ritornare anche fisicamente al Padre, la storia si chiude su accenti tutti umani: quelli  in cui la Sua divinità ormai conclamata ha scelto di manifestarsi e di essere.  D’altra parte è così anche nel Vangelo: il Risorto vuole rivelarsi  prima di tutto corpo, vivo e vero: parla, tocca, mangia, beve. Dal canto loro, nel momento in cui  prendono  la strada per diventare colonne e fondamento  della Sua Chiesa, Pietro – e Giovanni in altro modo – prima di tutto , si espongono  e si dichiarano  per quelli che amano Gesù: i suoi amici.

C’è un brano di Mogol – Battisti, bellissimo e non tra i più celebri, che, pur occupandosi di tutt’altro, evoca e puo’ esprimere bene il pensiero e il sentimento di Pietro dopo la Resurrezione, autentica Stagione Nuova. A ripensare il suo incontro con il Maestro, il modo in cui abbia cambiato e lanciato per sempre la sua vita, i momenti di abbandono confidente e le grandi paure, il desiderio finalmente chiaro sopra ogni cosa di seguirlo, a morire e poi a rivivere, per sempre… Una ennesima riscrittura inconsapevole? Ebbene: sì.

Siamo fin troppo abituati a fare di questi cosiddetti  giganti della fede delle statue aureolate. Eppure se dimentichiamo le loro umanissime storie e il loro essere di carne e sangue  – Gesù per primo – non entreremo ma nella logica e nella dinamica della storia della Salvezza.

 

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Testo di “Vento nel Vento” di Mogol.

Io e Te, io e Te
Perché io e Te?
Qualcuno ha scelto forse per noi

Mi son svegliato solo
Poi ho incontrato Te
L’esistenza un volo diventò per me

E la stagione nuova
Dietro il vetro che appannava, fiorì
Tra le Tue braccia calde anche l’ultima paura morì

Io e Te
Vento nel vento
Io eTe
Nodo nell’anima
Stesso desiderio di morire e poi rivivere
Io e Te

E la stagione nuova
Dietro il vetro che appannava, fiorì
Fra le Tue braccia calde
Anche l’ultima paura morì

Io eTe
Vento nel vento
Io eTe
Nodo nell’anima
Stesso desiderio di morire e poi rivivere
Io e te

In principio… era il Verbo

 

Scritto da MARIA NISII.

 

In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
(Vangelo secondo Giovanni)

L’inizio del quarto vangelo richiama in modo esplicito la prima pagina della Bibbia, una ripresa utile a sostenere come la creazione fu compiuta mediante il Logos. Nella filosofia greca questa parola indica sia la ragione umana che l’insieme delle leggi che reggono l’universo, mentre nel linguaggio teologico del Nuovo Testamento indica la rivelazione, il Verbo, la Paola di Dio rivolta agli uomini nella persona di Gesù di Nazareth. Negli scritti giovannei va dunque intesa come il Figlio nella sua preesistenza divina.

Secondo alcuni autori a fondamento di questo prologo vi è un inno cristologico preesistente e adattato dal redattore del Vangelo. Invece la ripresa dell’in principio genesiaco introduce “al di là dell’inizio della creazione e penetra nel mistero stesso di Dio e della sua eternità. Chi vede nel prologo un forte richiamo alla prima creazione, interpreta l’azione del Verbo come una nuova creazione” (Giuseppe Segalla, Giovanni)

Prima che Abramo fosse, Io sono (Gv 8,58): queste parole di Gesù ribadiscono lo stesso concetto espresso nel prologo, ovvero la preesistenza di Gesù (prima che Abramo fosse) e la sua identità divina (Io Sono), che intende richiamare il nome divino di Es 3,14 (anche in Gv 6,20 e 18,5).

 

 

…come era nel principio

e ora e sempre

nei secoli dei secoli

 

Il Gloria, preghiera di lode al Dio trinitario che afferma a parole quanto si compie nel segno della croce, si conclude con una dossologia che richiama il carattere eterno del divino. E l’eternità, ovvero l’essere fuori dal tempo così come lo concepiamo noi esseri umani, è espressa con la formula riportata, in cui – riprendendo l’in principio – si richiama pure l’attributo di creatore.

Questa affermazione è stata inoltre una risposta all’obiezione degli ariani, che ritenevano il Figlio la prima delle creature e dunque un essere creato nel tempo. Ragione per cui nel Credo è stata inserita la frase “Generato e non creato…”.

L’in principio indica invece un concetto di atemporalità quasi incomprensibile per chi vive nel tempo e nello spazio. Il Salmo 90 (89) lo dice in forma poetica:

Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte.

Nessuno di noi riesce a immaginare un tempo superiore a quello che ha vissuto; tanto meno un’unità temporale tanto vasta e imprendibile. È in tale incommensurabilità che il credente pensa il divino, consapevole che una vita intera non esaurirà la ricerca, ma che pure tale ricerca gli è indispensabile.

Così noi poniamo il principio che parlare di inizio riguardo a Cristo non significa soltanto riconoscere o designare uno o più inizi relativi supplementari nel corso di una storia capace di sopportarne all’infinito; significa anche dire un inizio, ultimo, che non potrà, al modo dell’inizio assoluto di creazione, non relativizzare tutti gli altri” (Pierre Gilbert, Bibbia miti e racconti dell’inizio p. 213)

 

 

Nella basilica di san Marco a Venezia vi sono una serie di mosaici del XII-XIII sec. (ispirati a modelli bizantini rinvenibili anche nella cattedrale di Monreale e probabilmente tutti dipendenti da iconografie precedenti, quali la Bibbia Cotton, codice del V-VI sec.), in cui si dà riscontro iconografico del brano giovanneo in quanto il protagonista della creazione ha le sembianze del Figlio e non del Padre. È così in tutta l’arte rinascimentale, che rappresenta Dio creatore con le fattezze del Figlio.

D’altronde la resurrezione, avvenuta il primo giorno dopo il sabato, indica simbolicamente l’inizio di una nuova creazione: nel quarto vangelo quella sera stessa Gesù entra nel cenacolo, alitando sui discepoli lo Spirito santo (Gv 20,22) mentre qualche capitolo prima Gesù aveva guarito un uomo cieco dalla nascita impastando del fango e stendendolo sui suoi occhi (9,6-11), ovvero riprendendo il secondo racconto della creazione.

 

 

Nella cappella Sistina, e da quel momento in poi, al Creatore sono attribuite le fattezze di Dio Padre, un vecchio dai capelli lunghi e dalla barba bianca (riferimento al libro del profeta Daniele – 7,9 – che ha la visione di un vegliardo assiso in trono con i capelli candidi come lana), perdendo il richiamo del Logos creatore.

Nel nostro blog Norma Alessio ha già parlato di creazione nell’arte:

https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/creazione-1

https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/creazione-2

Tutto finito

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

Una riscrittura per il Sabato Santo.

 

Dunque, tutto è finito.

La vicenda  raccontata da Jesus Christ Superstar non contempla Risurrezione. Il reclinare il capo di Cristo in croce, è come se spegnesse  tutto. The show must go on, ma non in questo caso. Cala il sipario sulla vita di JC, e pure sullo spettacolo.

Ma l’orizzonte, sorprendentemente, non si chiude.

Le parole tacciono, il set smobilita, la musica s’ incanala in una melodia conclusiva di archi e fiati che creano un’atmosfera pensosa e sospesa. Proprio qui sta il primo seme di futuro. Non c’è una pietra a chiudere un sepolcro, ma uno skyline dominato dalla croce, su un sole calante infuocato: più che tramontare, sembra suggerire un’alba.

Il secondo seme sta proprio in quella croce, che resta.

I personaggi della storia, ritornano gli attori che li hanno interpretati. Pilato, Erode, Caifa, Anna, gli Apostoli, Maddalena e Giuda: tutti abbandonano il ruolo giocato in commedia. Finita la loro parte, risalgono sull’autobus della compagnia di giro e tornano alla vita di tutti i giorni.

Con una sottile valenza che il praticante afferra: non è un poco quello che abbiamo fatto noi in questi giorni, partecipando ai riti della Settimana Santa? Chiesa, piazze, strade: il nostro posto, le nostre parole recitate, le palme, il Passio, la Coena Domini, l’altare della deposizione, le vie crucis, la celebrazione della passione, l’adorazione della croce. Poi, un bel sospiro, un segno di croce, passata la commozione, archiviate le funzioni, si guadagna l’uscita, si riaccende il cellulare e si ritorna a casa. Alla vita di tutti i giorni. Alla vita fuori. Alla nostra vita vera. Già: ma allora, quella che abbiamo brucato un pochino nel recinto sacro e dedicato della chiesa, che cosa era?  Anche noi è come se salissimo su quell’autobus, riprendendo la strada verso il nostro tran tran quotidiano.

Tornando a Jesus Christ si potrebbe obiettare: la fine è il percorso logico e contrario, rispetto all’inizio del film. Che consisteva proprio nell’arrivo della compagnia di scena a bordo di quel  suo torpedone scarcassato. C’è tuttavia una differenza sostanziale: prima di iniziare,  insieme ai costumi, gli attori scaricavano anche la grande croce imbragata sul tetto, il più ingombrante e più importante pezzo della scenografia in allestimento. Quella croce, al momento del ritorno, non c’è piu. La croce resta.  A significare: abbiamo recitato, tutto è stato fiction. Ma la Croce, no. Quella è vera. Quella resta, come un albero piantato in mezzo all’orizzonte: e lo cambia, in modo permanente.

Il terzo seme di futuro, sta in chi manca  su quell’autobus, che se ne torna indietro per il viaggio di ritorno. A ben vedere: salgono tutti, ma Gesù non sale. Potrebbe stare a rappresentare il compimento massimo della separazione tra il personaggio del Maestro e tutti gli altri,  il filo rosso che segna tutto il film e che va allargandosi in tutte le direzioni, aggiungendo incomprensione a incomprensione. Tra Lui e i suoi; e la folla, i lebbrosi, i romani, il procuratore, i soldati, Erode. Mondi che interagiscono, ma come mantenendo orbite indipendenti , anche se intersecate per un breve periodo di tempo.

Ma la lettura puo’ anche essere un’altra: come e piu’ che per la croce, per Gesù vale la differenza tra la finzione della messa in scena e la sostanza della realtà. Tutti gli altri, finito di interpretare il loro ruolo, se ne vanno. Gesù no, perché non interpreta: Lui “è”. Ed è quello che progressivamente e drammaticamente si va chiarendo nel corso del film: “He’s just a man” come cantano prima Maddalena e poi Judas, ma a man che parla con Dio, da pari a pari, faccia a faccia, che si confronta con Lui, grida e gli chiede conto, per poi accettare e farne la volontà,  fino a chiamarlo Padre , come da Vangelo, sul patibolo. Un Gesù che progressivamente si divinizza, nell’incomprensione tragica e generale che lo circonda da ogni lato. Un equivoco gigantesco va montando intorno a Lui: quelli lo credono solo un uomo, ma superstar, taumaturgo, portentoso, leader di piazza, re. Lui – non creduto – smentisce tutti, delude tutti nelle rispettive aspettative  e, completamente misconosciuto, sulla croce si rivela Figlio di Dio. Come potrebbe, a quel punto, Lui, risalire su quell’autobus?

Qualcuno ha parlato di una ” Risurrezione implicita” adombrata in questa monumentale e spettacolare riscrittura. A me pare  più semplicemente, che la narrazione ripercorra a modo suo quello che anche i Vangeli in qualche misura lasciano trasparire. Che cioè nessuno se la aspettava , la Risurrezione, quella stessa  che noi diamo per scontata oggi al terzo giorno. Che gli apostoli se ne stavano asserragliati. dopo la deposizione nel sepolcro, nella paura di essere arrestati, e non nell’attesa della pietra rotolata via. Tant’è che la povera Maddalena, la prima testimone visiva del Risorto, quando si precipita a raccontar loro il suo incredibile incontro, non viene creduta. La tentazione del ” tutti a casa” , quel salire metaforico sull’autobus di ritorno, è stata  la pulsione – e anche la via obbligata – per i protagonisti veri di quella vicenda. Ce la esprime bene l’episodio dei  discepoli di Emmaus:

Si fermarono, col volto triste;  uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?».  Domandò: «Che cosa?». Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo;  come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute.

E’ come se questo Cleopa avesse anche lu il suo bravo piede  sul predellino del torpedone, un ultimo sguardo triste all’orizzonte, a quella sagoma di croce a stagliarsi in cielo, e poi via: noi speravamo, e invece…

Non solo c’è da essere comprensivi con tutti coloro che contro l’esperienza della Risurrezione di Cristo hanno sbattuto la faccia e indulgenti verso la loro naturalissima, giustificata, sana difficoltà a credere alla sua realtà effettiva e materiale. Ma bisognerebbe cogliere l’occasione – magari quella di questa riscrittura -, per recuperarla anche noi, un po’ di quella difficoltà, di quello stupore, di quello sbalordimento necessari per rendere la nostra fede un motore di cambiamento di vita, e non solo una enunciazione di verità a parole.

 

 

La croce e il crocifisso

Scritto da  NORMA ALESSIO.

Per il Venerdì Santo.

 

La Croce è il segno per eccellenza riconosciuto del cristianesimo che anticipa e va oltre i suoi limiti spazio-temporali. La Croce non è nata con il cristianesimo ma è un simbolo di antica origine e la si trova sia nelle culture precristiane che in quelle non cristiane, dove ha in gran parte un significato cosmico o naturale. In taluni casi è rappresentata in forma di Tau, ultima lettera dell’alfabeto ebraico, usata come segno di riconoscimento da Dio per evitare lo sterminio (Ezechiele 9,4-6). Per ogni credente il solo segno cruciforme ha sempre avuto e ha ancora un suo importante significato ed è tutt’oggi un simbolo universale comune a tutte le confessioni. Recentemente abbiamo visto una Croce portata in processione a Cutro, realizzata dall’artista Maurizio Giglio, con i legni, i bulloni e i chiodi del barcone naufragato, di migranti di culture diverse. Da un’intervista rilasciata a Ida NUCERA per il sito web della Comunità di vita cristiana, Giglio ha motivato così la sua riscrittura della croce. “Ero incerto sui bracci della croce, poi ho avuto un’intuizione e ho detto a don Francesco (il parroco di Isola Capo Rizzuto): “Se questo è il braccio di Cristo appeso alla croce, perché non immaginiamo che l’altro, più lungo, lo stende verso l’umanità?”.

 

 

La Croce per i cristiani è il principale attributo di Cristo e simbolo del messaggio evangelico attraverso la simultaneità dei suoi significati: l’incarnazione, la passione, la morte, la risurrezione e il suo ritorno in gloria. Nei secoli gli artisti hanno sintetizzato la Croce, con innumerevoli invenzioni e sviluppi iconografici, condizionati anche dalle interpretazioni dei primi autori cristiani del I-III secolo d.C., i cosiddetti Padri Apostolici e i primi Apologeti. Nelle Sacre Scritture, solo nel Nuovo Testamento è citato diverse volte il termine Croce, sempre riferito all’avvenimento della crocifissione di Gesù. Appare nel Vangelo di Giovanni, al versetto 19 del capitolo 19 “Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”, ancora al versetto 25“Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala” e al versetto 14 della seconda lettera di San Paolo ai Colossesi “…e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”. Studi del XXI secolo sui testi neotestamentari affermano che “nei Vangeli canonici la croce non è descritta” e“si può affermare con tranquillità che le tradizionali rappresentazioni della croce corrispondono sostanzialmente al vero”.

Le croci si differenziano in Croci e Crocifissi, le prime come segno crucifero senza Cristo, in legno o altro materiale, sagomato a croce o a tau; i secondi, con Cristo solo, appeso alla croce con il corpo posizionato in molte varianti o in forma di racconto della crocifissione. La vediamo nella narrazione della Passione di Gesù fino alla crocifissione, attraverso le stazioni di via crucis, per far meditare passo dopo passo il fedele, immergendolo nell’esperienza umana di Cristo che porta la Croce e percorre il cammino del Calvario andando incontro alla morte.

Gli artisti del Novecento e quelli contemporanei, anche se non dichiaratamente cristiani, essendo più liberi nelle loro modalità di espressioni artistiche, hanno trovato in questo tema la fonte di ispirazione per rappresentare le inquietudini, i drammi del loro tempo e il loro personale senso religioso. Nella prima parte della mia ricerca, possiamo scoprire come la sola immagine della croce o “telaio della croce” è stata riscritta in vari contesti che coinvolgono emotivamente l’osservatore e il suo senso del sacro. Come fece il noto pubblicitario e disegnatore grafico Armando Testa nell’immagine “Manifesto Vota no”, per molti versi provocatoria, a favore del “No” al referendum sul divorzio del 1974, in cui utilizza questo simbolo per un messaggio che si opponeva a uno schieramento guidato dalla Chiesa: vi sono due dita che formano una croce tenute insieme da un chiodo con lo slogan “meglio il divorzio che inchiodati nell’odio”.

 

 

 

Anche negli ultimi anni della sua vita (1992) si dedicò alla figura della Croce, evidenziandone il pathos drammatico, nella sua essenzialità contemporanea, in numerose versioni.

 

 

Così si è espresso al proposito: “Sono sempre stato affascinato dalla croce, uno dei segni più elementari creati dall’uomo. La forza, l’essenzialità della sua forma e la storia che narra nella tradizione religiosa ne fanno l’emblema più significante del mondo”.

 

Parole confermate anche a riguardo di “Segno, una delle croci, del 1990: “ho sempre amato la croce per la sua bellezza formale e per la sua forza strutturale, al di là del significato religioso che l’accompagna”.

 

 

Lo scultore Giuseppe Spagnuolo con il materiale, la forma e la collocazione della sua opera “Croce”, realizzata nel 1992, ha voluto dare un messaggio inducendo chiunque la guardi ad avvicinarsi e toccarla per entrare dentro il Mistero e percepire, indipendentemente dal suo credo, il calore dell’amore che Cristo lascia diffondere dalla croce. La croce, collocata all’esterno del Santuario San Gabriele dell’Addolorata, a Isola del Gran Sasso (Teramo), è realizzata in ferro, come una tau che proietta l’ombra sulla terra, che ne diventa il piedistallo; è esposta al sole in ogni stagione così che alla fine della giornata ne assorbe i raggi e, scaldandosi al tramonto, toccandola, emana il suo calore.

 

 

Il tema è interpretato dal punto di vista dell’Apocalisse, la rivelazione, evento di liberazione, nell’opera “Senza Titolo, Svelamento” del2012, da Jannis Kounellis (1936 – 2017) artista protagonista dell’arte povera, di origine greca. Solo da un’osservazione diretta, dal vero, di quest’opera riusciamo a cogliere al massimo grado il suo radicale segno poetico e spirituale. Essa è collocata nel sacello della cripta della chiesa San Fedele di Milano, costituita da un grande sacco appeso con una corda a una trave. Il suo contenuto non è visibile, ma è rivelato dal peso che l’oggetto misterioso esercita sul tessuto: è una grande croce che preme infatti sulla tela, rendendo percepibile la sua presenza manifestandone la sagoma. Il telo del sacco è teso, quasi portasse un carico che non può sopportare a lungo, e appare destinato a essere squarciato dagli spigoli vivi dei bracci di legno.

 

 

Chi tra i vari artisti si è dedicato al tema della croce declinandolo in innumerevoli variazioni, con continuità e profonda convinzione, è l’artista austriaco Arnulf Rainer, nato nel 1929. Per Rainer la croce è una sintesi del volto umano: «Mettiti davanti allo specchio, osserva il tuo volto, vedrai che all’interno vi è tracciata una croce, ovunque».

 

 

Nelle sue prime serie di croci non vi dipinge un corpo ma vi sono solo i colori che lasciano una traccia sulla sagoma della croce, depositati dall’artista con violenza, applicati con le mani o con le dita, per essere poi spalmati in diverse direzioni suggerendo dramma e dolore a chi li osserva.

 

 

Visto che sempre più spesso l’arte contemporaneasi distacca dall’aspetto visivo per concentrarsi sugli elementi intellettivi, è necessaria la spiegazione dei presupposti che hanno condotto all’espressività di Reiner: “[Il Crocifisso] È iniziato come una struttura figurale nera. Ho tentato di fare una figura crocifissa. All’inizio era una specie di allungamento cubico. Ma non ha avuto successo. Era una banalità stilistica. Così ho continuato a dipingere e la figura di Cristo è diventata una croce. E infine, questa croce è stata velata da una nuvola oscura. Ma sono abbastanza soddisfatto che qualcosa sia ancora percepibile.Non deve nemmeno essere percepibile consapevolmente.Egli [Cristo] si ritira quando tentiamo di rappresentarlo. Forse è lì in un accenno, in modo spento, frammentario. In certi segni. Eppure si ritira anche lì. Non appena lo si ripete sconsideratamente”.

Per quel che ve ne importa…

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

Una riscrittura per il Giovedì Santo

Il credente è spesso fortunato ad avere a disposizione qualcuno che rilegga e interpreti un brano di Vangelo inforcando le lenti della assoluta laicità. Questo – quasi sempre – gli permette di recuperare una freschezza di visione e l’impatto originario di quel che è scritto ed è avvenuto, superando la spessa patina della abitudine all’ascolto  e della stessa  devozione che talvolta finiscono per smorzarne la forza dirompente.

Prendiamo, senza che nessuno si scandalizzi, l’ Ultima Cena, momento fondante e cruciale per ogni cristiano. Quando, cinquant’anni esatti fa, nel 1973, Norman Jewison firmò la versione cinematografica del già celebre musical Jesus Christ Superstar  di Rice & LLoyd Webber, il capitolo dedicato a questo episodio (The Last Supper) fu quello che suscitò fra i cattolici maggiori perplessità e polemiche. Privo di qualunque prospettiva sacramentale, letto in chiave tutta umana, l’episodio ci viene raccontato come momento di fondamentale incomprensione e quasi incomunicabilità tra Gesù e i suoi apostoli, distanti anni luce dalla consapevolezza dei fatti e dalle intenzioni profonde del loro Maestro. Momento di drammatico confronto con Giuda – che da lì parte per consumare materialmente il suo tradimento – di solitudine crescente e pesante per il Rabbi, che assaggia tutta intera la lontananza siderale tra se stesso e i suoi seguaci pronti, da lì a poco, a lasciarlo solo.

Ecco i testi in italiano:

Giovedì notte, l’ultima cena
[Apostoli]
Guarda tutte le mie prove e tribolazioni
Che affogano in un bel calice di vino
Non disturbatemi ora, perché vedo le risposte
Finché questa sera sarà questa mattina, la vita è bella
Ho sempre sperato di diventare un apostolo
Sapevo che ce l’avrei fatta se ci avessi provato
Così quando andremo in pensione potremo scrivere i vangeli
Così parleranno ancora di noi quando saremo morti.
[Gesù]
La fine…
È solo un po’ più dura quando arriva portata da degli amici
Per quel che ve ne importa questo vino potrebbe essere il mio sangue
Per quel che ve ne importa , questo pane potrebbe essere il mio corpo
La fine!
Questo è il mio sangue che bevete
Questo è il mio corpo che mangiate18
Se vorrete, ricordatevi di me quando mangiate e bevete…
Devo essere impazzito se penso che sarò ricordato, sì
Devo essere uscito di senno!
Guardate le vostre facce vuote!
Il mio nome non significherà niente
Dieci minuti dopo che sarò morto!
Uno di voi mi rinnegherà
Uno di voi mi tradirà –
[Apostoli]
Non io! Chi potrebbe? Impossibile!
[Gesù]
Pietro mi rinnegherà tra poche ore soltanto
Tre volte mi rinnegherà e questo non è tutto ciò che vedo
Uno di voi che siete qui a cena, uno dei miei dodici prescelti
Se ne andrà per tradirmi –
[Giuda]
Piantala con questi discorsi teatrali! Tu sai bene chi –
[Gesù]
Perché non vai a farlo?
[Giuda]
Vuoi che lo faccia?
[Gesù]
Sbrigati, ti aspettano
[Giuda]
Se tu sapessi perché lo faccio…
[Gesù]
Non m’importa perché lo fai!
[Giuda]
Pensare che ti ammiravo
Ma ora ti disprezzo
[Gesù]
Bugiardo, Giuda!
[Giuda]
Tu vuoi che lo faccia!
E se io restassi qua a rovinare le tue ambizioni?
Cristo, te lo meriti!
[Gesù]
Sbrigati, sciocco, sbrigati e vai
Risparmiami i tuoi discorsi, non voglio sapere – VA’!
[Apostoli]
Guarda tutte le mie prove e tribolazioni
Che affogano in un bel calice di vino
Non disturbatemi ora, perché vedo le risposte
Finché questa sera sarà questa mattina, la vita è bella
Ho sempre sperato di diventare un apostolo
Sapevo che ce l’avrei fatta se ci avessi provato
Così quando andremo in pensione potremo scrivere i vangeli
Così parleranno ancora di noi quando saremo morti.
[Giuda]
Uomo triste e patetico, guarda dove ci hai portato
I nostri ideali ci muoiono attorno è tutto per colpa tua
Ed ora la cosa più triste di tutte –
Qualcuno doveva consegnarti
Come un criminale qualsiasi, come un animale ferito
Un’autorità sbiadita
Un’autorità sbiadita
Un’autorità sbiadita, sbiadita ed esaurita
[Gesù]
Vattene! Stanno aspettando! Vattene!
Stanno aspettando te!
[Giuda]
Ogni volta che ti guardo, non capisco
Perché lasci che le cose che hai fatto ti scappino così di mano
Le avresti gestite meglio se tu le avessi pianificate –
[Apostoli]
Guarda tutte le mie prove e tribolazioni
Che affogano in un bel calice di vino
Non disturbatemi ora, perché vedo le risposte
Finché questa sera sarà questa mattina, la vita è bella87
Ho sempre sperato di diventare un apostolo
Sapevo che ce l’avrei fatta se ci avessi provato
Così quando andremo in pensione potremo scrivere i vangeli
Così parleranno ancora di noi quando saremo morti.
[Gesù]
Nessuno vuol vegliare con me?
Pietro? Giovanni? Giacomo?
Nessuno vuole aspettare con me?
Pietro? Giovanni? Giacomo?
Puo’ risultarci ostico e sgradevole quel Per quel che ve ne importa premesso alle parole per noi divenute parte della liturgia eucaristica, pronunciate per giunta al condizionale della possibilità   (potrebbe essere il mio corpo, potrebbe essere il mio sangue), e dunque per noi  teologicamente scorrette. Ma, qui più che mai, giova ricordare che una riscrittura è, appunto, ri-scrittura: non sostituisce in alcun modo la Scrittura stessa. E dunque nulla interferisce con il piano della fede e del Credo. Puo’ però aiutarci a riscoprire il significato sconvolgente, letteralmente, di quelle parole, che noi ormai ascoltiamo come fossero piane e naturali, dopo una vita di consuetudine e di pratica che ce le rende talmente familiari da addomesticarcele  e depotenziarne la portata.
Interessante ricordare  anche  un film di decadi successivo, assai popolare e discusso anch’esso, ma per motivi tutti diversi e in certo senso opposti, La Passione di Cristo di Mel Gibson, che si proponeva al contrario un chiaro intento apologetico nel raccontare gli ultimi tre giorni di vita di Gesù. Ebbene anche qui, in un’ atmosfera  completamente differente, è raccontato di come il solo Giovanni, rimasto con Maria ai piedi della croce, viva in quel momento e sotto l’urto emotivo e concreto della esperienza visiva diretta della crocifissione, la rivelazione del significato vero e sconvolgente di quella cena. In un rimando di immagini tra il vedere la croce innalzarsi davanti a lui e ripensare al gesto del pane levato in alto in offerta, tra il vedere il legno intriso e gocciolante di sangue e ripensare al vino versato attorno alla tavola dell’Ultima Cena.
Insomma: lasciamoci provocare senza fuggire  davanti a quelle parole ” Per quel che ve ne importa” e, come inconsueto momento di riflessione sul Giovedì Santo, sentiamole come rivolte a noi, pronunciate per noi. Ne conseguono alcune domande non facili, ma provvidenziali:
Mi importa? Ci credo veramente? Quel pane, quel vino: potrebbero essere o “sono“?
GUARDA IL VIDEO A QUESTO LINK:

 

In principio…tu, dov’eri?

 

 

Scritto da MARIA NISII.

 

Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? (Gb 38,4)

 

Dio chiede a Giobbe dove fosse lui In principio, nell’incipit del mondo. E prosegue, rispondendo alle accuse di Giobbe, apparendo in mezzo all’”uragano”. Quindi gli pone davanti agli occhi, in una serie di domande, gli elementi della creazione (terra, mare, fenomeni metereologici, stelle) e l’ordine che regna nella vita dei diversi animali, per dimostrargli in questo modo la potenza e la maestà del Creatore, il solo a conoscere l’ordinamento del mondo, perché è stato Lui a crearlo con sapienza.

La risposta divina esibisce la bellezza del creato, ponendosi su un piano estetico:

 Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai,
o chi ha teso su di essa la misura?
Dove sono fissate le sue basi
o chi ha posto la sua pietra angolare,
mentre gioivano in coro le stelle del mattino
e plaudivano tutti i figli di Dio?
Chi ha chiuso tra due porte il mare,
quando erompeva uscendo dal seno materno,
quando lo circondavo di nubi per veste
e per fasce di caligine folta?
Poi gli ho fissato un limite
e gli ho messo chiavistello e porte
 e ho detto: «Fin qui giungerai e non oltre
e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde».
(Gb 38)

Nei capitoli precedenti Giobbe si rivolge ripetutamente a Dio, perché desidera ottenere ragione del male ingiusto che sente di vivere. È il tema del giusto colpito da ogni sorta di sofferenza (negli affetti, nei beni e nella sua stessa carne). I tentativi di consolazione degli amici vorrebbero che se ne cercasse la ragione in un qualche torto commesso (secondo la tradizionale teoria della retribuzione), ma Giobbe rifiuta questo paradigma sostenendo instancabilmente la propria giustizia di fronte a Dio e agli uomini. Al lungo protrarsi del grido giobbico Dio infine risponde, ma la sua è una risposta non poco misteriosa e certo non risolve tutti i dubbi sollevati. Si tratta infatti di una affermazione della massima alienazione e inaccessibilità dell’ordine del mondo alla mente umana.

 

La risposta di Dio a Giobbe, serafini e cherubini che suonano musica galleggia in circoli intorno alla terra. In mezzo al vortice le lettere ebraiche per Jaweh

 

 

 Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine:
Chi è costui che oscura il consiglio
con parole insipienti?
Cingiti i fianchi come un prode,
io t’interrogherò e tu mi istruirai.
Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?
Dillo, se hai tanta intelligenza!
(c. 38)

Dio parla a lungo (per 4 capitoli), ma non risponde con il linguaggio degli uomini. Le immagini di grandiosità divina espresse in forma poetica rappresentano soprattutto l’alterità irriducibile del divino all’umano. E tuttavia Giobbe, a suo modo, comprende:

 Comprendo che puoi tutto
e che nessuna cosa è impossibile per te.
Chi è colui che, senza aver scienza,
può oscurare il tuo consiglio?
Ho esposto dunque senza discernimento
cose troppo superiori a me, che io non comprendo.
«Ascoltami e io parlerò,
io t’interrogherò e tu istruiscimi».
Io ti conoscevo per sentito dire,
ma ora i miei occhi ti vedono.
Perciò mi ricredo
e ne provo pentimento sopra polvere e cenere
.(c. 42)

Che cosa resta all’uomo, nella prospettiva di questo libro biblico, quando il mondo così com’è non può essere accettato né spiegato razionalmente? Quel che resta è la protesta di Giobbe, che rivendica l’ordine in mezzo al caos, lottando alla ricerca di una visione unitaria di un mondo contraddittorio. E la visione unitaria, inutile dirlo, riporta sempre a quell’in principio, origine e fonte di tutte le cose.

 

 

 

 

Eccezionale riscrittura di questo brano è Tree of life di Terence Malick, film del 2011, in cui compare una citazione esplicita del libro di Giobbe: “Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri?”. La vicenda della famiglia viene infatti accostata al celebre antenato biblico. Ma quello che ci pare più rilevante è l’aver rappresentato la risposta divina nella lunga sequenza cosmogonica, in cui si mostra l’origine dell’universo, dalla nascita delle stelle alla prima divisione cellulare. La scena è preceduta da una fiamma circondata dall’oscurità, segno della luce divina, mentre nello sfondo risuona la voce della madre che chiede conto a Dio della morte del figlio: “Signore, perché? Tu dov’eri? Rispondimi”. E la risposta di Dio si dispiega nel racconto della creazione, qui rappresentato dal punto di vista divino. Un tentativo audace quanto efficace.

https://www.youtube.com/watch?v=W6w_znQYEF4

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Nel Corano (Sura 36 Ya-Sin 77-8) troviamo un tema simile, ancora dal punto di vista divino, in un testo che richiama i libri di Giobbe ed Ezechiele:

“Non vede l’uomo che lo abbiamo creato da una goccia di sperma? Ed eccolo in spudorata polemica. Ci propone un luogo comune e, dimentico della sua creazione, [dice]: «Chi ridarà la vita ad ossa polverizzate?».

La Sura 86 At-tariqu 5-6ne ripropone il motivo:

“Consideri dunque l’uomo da che cosa fu creato! Da un liquido eiaculato”.

I riferimenti coranici fanno risuonare la medesima alterità tra il divino e l’umano che appare nel testo giobbico. E certo tale risposta ha attraversato i secoli e scaldato gli animi di molti esegeti e commentatori. Secondo Karl Barth è un’accozzaglia cosmologico-zoologico-mitologica, ma anche Paul Claudel non usa mezzi termini: “Che delusione! L’Architetto orgoglioso ci porta su e giù per le sue costruzioni”. Guido Ceronetti sostiene invece che “al culmine della carrellata teofanica non entra l’uomo”, in quanto la manifestazione divina mira a strappare Giobbe “dalla galera atroce dell’Io”.

Seguiamo allora in conclusione l’interpretazione che ne dà George Steiner in Grammatiche della creazione:

La litania dell’interrogatorio ci assorda. Un dio vulcanico è in piena eruzione di poesia disumana. (Credo incondizionamente a coloro che affermano che nessuna traduzione o perifrasi, né quelle di Wyclif o di Tyndale o dei virtuosi del tempo di Giacomo I, né le imitazioni di Dante o di Goethe si avvicinano all’enormità dell’ebraico originale in questo testo dei testi. Questa grandezza sostenuta e questa inventiva linguistica senza pari suscitano, almeno in me, perplessità quanto al suo autore. È possibile che un uomo o una donna, con doti accessibili anche a noi, abbia inventato Giobbe 38-41 e trovato il linguaggio adatto alla sua espressione, un linguaggio che permette a Giobbe di vedere Dio attraverso l’ascolto?). […]

La sua risposta è quella di un Maître che agita il catalogue raisonné della sua oeuvre. Essa si situa nella categoria dell’estetica, e mette in mostra un disegno e una bellezza incommensurabili: l’alba, le stelle mattutine, le ali che lo sparviero spiega verso sud, la grazia dell’unicorno. Esibisce forme di forza sovrana: i leoncini nella tana, il fulmine, le ‘piazzeforti’ dell’aquila. Il supremo artigiano allude ai segreti della sua abilità: le fonti del mare, i serbatoi della neve. E nel passato più noto, Dio esibisce con particolari stupefacenti Behemot e il Leviatan, due mostri altrettanto affascinanti e di casa nei nostri incubi di quelli che ruggiscono e smaniano nei Jurassic Park della nostra industria cinematografica. Come un Leonardo perfetto, Dio ci porta in visita guidata attraverso una galleria di capolavori, primi schizzi, motivi misteriosamente codificati, esseri grotteschi e studi anatomici… Dio si rivolge a Giobbe dal suo atelier di artista. (p. 47-9)

 

Dio e i Beatles

Scritto da  DARIO O. COPPOLA.

 

I Beatles, nei testi di John Lennon e Paul Mc Cartney, ci presentano anzitutto modi di dire del linguaggio religioso comune. Il dear di “Oh dear, what can I do?” (da Baby ‘s in black) corrisponde al nostro “mio Dio”: “Oh mio Dio, cosa posso fare?”. “Oh, io credo in ieri” (da Yesterday) è l’affermazione di una sorta di fede nel felice passato, ove l’amore era corrisposto.

 

 

È soprattutto George Harrison, tuttavia, a scrivere testi di profonda religiosità. In Withinyou, withoutyou, il rapporto fra la legge divina e il mondo è affrontato con un respiro che sa d’Oriente:

Parlavamo/ dello spazio tra tutti noi/ e della gente/ che si nasconde dietro un muro di illusione./ Non intravede mai la verità/ poi è troppo tardi/ quando va nell’aldilà./ Parlavamo/ dell’amore che tutti potremmo condividere/ quando lo troviamo/ fare del nostro meglio per tenerlo lì./ Col nostro amore […] potremmo salvare il mondo/ se solo sapessero./ Cerca di capire che è tutto dentro di te/ Nessun altro può farti cambiare/ E capire che in realtà sei soltanto molto piccolo, / e la vita scorre dentro di te e fuori di te./ Parlavamo/ dell’amore che è diventato così freddo a delle persone,/ che ottengono il mondo e perdono l’anima./ Loro non sanno/ non capiscono./ Sei uno di loro?/ Quando hai visto oltre te stesso/ allora puoi scoprire che la pace della mente è lì/ che aspetta/ e verrà il tempo in cui capirai che siamo tutti/ un’unica cosa,/ e la vita scorre dentro di te e fuori di te“.

 

 

Lennon e Mc Cartney parlano di un “magico viaggio del mistero” in Magical Mystery Tour e, sia pur alludendo ai viaggi avventurosi di moda alla fine degli anni sessanta, indubbiamente è qui usata ancora una volta una terminologia legata all’irrazionale, con un linguaggio che pone l’uomo a contatto col mistero che lo origina e che sempre lo attende al varco.

 

 

Così anche Lady Madonna, pur rappresentando la tipologia comune della donna, come Mc Cartney ebbe a precisare nel 1986, inevitabilmente assolve a questo compito, facendo uso del linguaggio religioso, ricorrendo persino alle iniziali maiuscole e ad alcune immagini allusive:

Lady Madonna […] Pensavi che i soldi venissero dal cielo? […] Domenica mattina avanza furtiva come una suora […] Lady Madonna, il bimbo al tuo seno “.

 

 

 

Un esplicito cenno di Lennon-Mc Cartney al libro sacro delle religioni giudaica e cristiana si trova, infine, ascoltando Rocky Raccoon:

Rocky […] si sistemò nella sua stanza/ e ci trovò solo la Bibbia […] lasciata senza dubbio/ per aiutare il buon Rocky a riprendersi

 

 

(1. Continua).

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  • Ai link seguenti puoi ascolare i brani citati nell’articolo:

Baby ‘s in black :   https://www.youtube.com/watch?v=TJFpUb7JGYo

Withinyou, withoutyou:  https://www.youtube.com/watch?v=Mr54nqD1URA

Magical Mystery Tour:  https://www.youtube.com/watch?v=l8WMGBuNaus

Lady Madonna:  https://www.youtube.com/watch?v=czhd27cN2dg

Rocky Raccoon:  https://www.youtube.com/watch?v=sDcDCZGcZj8

  • Questo articolo di Dario Coppola è già stato pubblicato sul Corriere di Torino e della Provincia del 15/06/96.

 

 

 

 

Quando a riscrivere sono i giovani

Scritto da MARIA NISII.

 

 

Ho proposto a un gruppo di ragazzi la riflessione che avevo condiviso nel post  “Samaritani  improbabili” pubblicato qualche tempo fa  (https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/samaritani-improbabili), chiedendo loro di dividersi in gruppetti e produrre una riscrittura che raccontasse la storia dal punto di vista del ferito e individuando nel ruolo del samaritano quello che a loro sembrava meglio incarnare l’idea del nemico. Di seguito ripropongo, al meglio spero, i loro racconti.

 

Un giovane è afflitto da conflitti familiari che gravano su di lui come un macigno. Non sa con chi parlarne e vorrebbe tanto aprirsi con i suoi amici, ma nessuno di loro si accorge del suo malessere. Così tutto quello che gli resta da fare, quando sopportare le urla in casa gli sembra troppo, è uscire. Uscire, togliersi di casa e camminare, camminare il più a lungo possibile. In una di queste uscite, in cui il movimento e l’aria gelida sono già da sole un piccolo conforto, non si accorge di essere arrivato in un quartiere periferico della città. Ad un certo momento però la sua solitudine angosciata è interrotta da un ragazzo che gli si avvicina, cercando di vendergli qualche pasticca di acido. Un po’ per ingenuità, un po’ per disperazione il giovane accetta la proposta. Ma mentre si avvia alle trattative, spiega all’altro perché ha bisogno precisamente di quell’oblio e pian piano vuota il sacco, riferendo tutto quello che aveva trattenuto fino a quel momento. Lo spacciatore ascolta parola per parola e quando il giovane ha finito, cambia idea: “Questi non fanno per te, ti farebbero male”. E rifiuta di venderglieli.”

 

 

A una festa di compleanno, un sedicenne ha un attacco di panico. Era lì con i suoi amici, stava bene ed era allegro. Ma da sempre prova un terrore inesprimibile ogni volta che ode un rumore improvviso, e quel giorno alla festa i suoi amici hanno portato palloncini, vuvuzelas e tutto quello che può aiutare a divertirsi con il rumore giocoso e semplice, prediletto dai ragazzi di quell’età. Alla sua reazione di panico di fronte all’esplosione di un palloncino, tutto subito gli amici appaiono stupiti, ma molto presto attaccano con le prese in giro, che si fanno sempre più pesanti, perché certo in quell’atmosfera di caos sfrenato sono tutti galvanizzati. E questa paura dei palloncini è per loro semplicemente esilarante! Insomma, la storia non è nuova. Gli capita sin da quando era molto piccolo e suo fratello, maggiore di lui di alcuni anni, si divertiva a fargli esplodere dei petardi il più vicino possibile per osservarne le reazioni. Fintanto che era piccolo i genitori l’hanno consolato e coccolato. Ma ora è cresciuto, è grande. Quindi basta con queste paure ridicole. Un palloncino che scoppia è solo un palloncino che scoppia e non c’è niente da temere:che impari a farsene una ragione! Ma a quella festa il ragazzo non riesce a farsene una ragione e l’ansia sale al punto tale da non riuscire più a respirare. La stanza gli gira tutt’attorno, sente un dolore tra le costole… e non sa che fare… A quel punto gli si avvicina il fratello maggiore, che lo abbraccia e ne guida la respirazione finché non si fa più regolare.”

 

 

Siamo a Scampia. Il protagonista è un giovane cresciuto in una famiglia di malavitosi. Quel mondo è l’unico che egli conosca. Nessuno gli ha mai mostrato niente di diverso, nessuna riflessione morale è arrivata a intralciare la sua vita, a mostrarne il lato inefficace e debole. Infine arriva il giorno della sua iniziazione alla pistola: gli dicono quello che deve fare, lo istruiscono per filo e per segno. Era una cosa inevitabile come inspirare ed espirare; per questo lui non si stupisce, sapeva da sempre che sarebbe dovuto accadere. Così esce e si incammina verso la strada che gli hanno indicato, ripetendosi nella mente tutti i singoli passaggi che avrebbe dovuto compiere per portare la missione a buon fine. Non si sta chiedendo se sta facendo la cosa giusta, se può non farlo. Sta andando come tutti si aspettano che lui faccia. Ma mentre cammina, vede una volante. E senza averci riflettuto, d’istinto, sente all’improvviso che deve fare quella cosa: la ferma e si autodenuncia, raccontando della sua famiglia e di quello che avrebbe dovuto fare e che,senza sapere perché, ha deciso che non vuole più fare.

 

Ascoltando i racconti di questi ragazzi mi sono stupita di quanto fossero efficaci, di quanto un racconto (di Luca Bottura prima e di Carola Susani poi) fosse riuscito a mostrare all’opera il meccanismo di una parabola potente, tutt’altro che pacificante, con un’immagine degli attanti decisamente fuori dagli schemi, ma ancor più con un’idea di Gesù ben più complessa (quindi evangelica) del santino da immaginetta votiva.

Mi chiedo se questa riflessione-laboratorio si possa tradurre in gioco, in scenetta, in altri racconti ancora (a scuola, in parrocchia…). I nostri giovani sono creativi, pieni di inventiva e immaginazione; inoltre si immedesimano facilmente nelle situazioni, specie pensando a un protagonista che sia loro coetaneo. A partire dai loro racconti, si può proseguire riflettendo sul modo in cui li hanno costruiti e la ragione delle scelte operate.

Io ho deciso di concludere chiedendo loro perché Gesù sia sovente rappresentato nelle vesti del buon samaritano, oltre che in quelle del ferito. Infine ho mostrato questa riscrittura inaudita di Timothy Schmalz, Ama il tuo nemico, perché la commentassero liberamente. E ha funzionato. Un racconto e un’immagine per dire il Vangelo, riscritture e interpretazioni personali per comprendere e fare propri pochi versetti, ascoltati innumerevoli volte, eppure forse mai davvero compresi.