Il Crocifisso: Uomo – Dio fra gli uomini

 

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

La Croce, con l’inserimento di Cristo e in alcuni casi di altre figure secondarie, non ha più solo il valore di simbolo puro ma, a vantaggio di una raffigurazione più esplicita, diventa “il Crocifisso”. Come opera di arte sacra, lo troviamo dipinto su tavole a croce, in sculture lignee dipinte, in bronzo o di materiale misto, collocato abitualmente in chiesa, posto in luogo visibile dall’ingresso, non necessariamente sull’altare, collegato alla celebrazione liturgica. La visibilità della croce d’altare è presupposta dall’Ordinamento Generale del Messale Romano: «Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato» (n. 308).

Nel racconto dei Vangeli canonici si omettono i particolari di Gesù morto sulla croce, così dall’osservazione dei dettagli dei Crocifissi possiamo comprenderne i significati, come la postura del corpo, la forma del volto, gli occhi aperti o chiusi, la disposizione delle braccia, delle mani, delle dita; il costato, la presenza e le dimensioni del perizoma e della corona di spine o dell’aureola, la posizione dei piedi, il numero dei chiodi.

Gli esempi di crocifissi che riporto sono stati scelti tra gli innumerevoli sviluppi iconografici che nel tempo hanno interessato questo tema e in particolar modo quelli in cui gli artisti hanno dato valore alla natura umana di Gesù. La progressiva umanizzazione delle figure avvicina la catechesi al popolo e spinge gli artisti a rappresentare i soggetti sempre più in maniera veritiera e credibile; le raffigurazioni non perdono il loro mistero e la loro sacralità, ma appaiono al fedele più vicine alla propria esperienza sensoriale.

 

 

Il Crocifisso che completa il passaggio da un’immagine prettamente iconica a una storica, già avviato in quelli di Giunta Pisano e Cimabue, è il primo dei quattro crocifissi realizzati con certezza da Giotto, quello sagomato e dipinto su tavola alta 5,40 metri tra il 1290 e il 1295, di Santa Maria Novella a Firenze.

 

Il corpo di Cristo non è più arcuato, ma abbassato sotto il proprio peso, le mani semichiuse, viste di scorcio, non bloccate rigidamente dai chiodi, ma delicatamente contratte. Le gambe sono piegate e i piedi uniti, fissati da un solo chiodo, con un rivolo di sangue che sgorga dalle membra di Gesù a ricadere sulla roccia del Golgota, rappresentato nel piede trapezoidale della croce insieme al teschio di Adamo. Anche il capo è completamente libero nello spazio, il ventre gonfio con il chiaroscuro che disegna una volumetria naturale che ritroviamo anche nella muscolatura tesa delle braccia e nei fasci delle ginocchia. Le figure della Vergine e Giovanni Evangelista, cosiddette dolenti, rivolte verso Cristo, isolate alle estremità del braccio trasversale della croce, amplificano lo strazio e personificano il dolore dei fedeli che si identificano in esse.

Qui il particolare del piede trapezoidale: 

 

Nel Rinascimento si riaffaccia l’idea del Cristo glorioso: la bellezza del corpo appeso alla croce suggerisce la natura divina, sottolineata in alcuni casi anche dalla presenza dell’aureola, e la possibilità di superare l’umiliazione di una morte atroce anticipando la Resurrezione.

Tra i crocifissi scolpiti a grandezza naturale tra ilprimo e l’ultimo decennio del Quattrocento fiorentino, quelli di Donatello della Basilica di Sant’Antonio (1444 – 1447) in bronzo, e quello di Santa Maria dei Servi, in legno di pioppo (1443-1445 circa), entrambi a Padova, esprimono in modo esemplare il pensiero umanistico cristiano.

Il Crocifisso bronzeo di Padova ha il corpo robusto e anatomicamente dettagliato, armoniosamente proporzionato, non alterato dal dolore, dalle percosse e dalle piaghe; non pende passivamente dalla croce, bensì si pone di fronte allo spettatore in un atteggiamento eroico che comunica un’impressione di vitalità; singolari le gambe accavallate all’altezza delle caviglie, che creano un effetto più serrato nel contorno. La testa è esattamente in corrispondenza del punto di intersezione delle due travi della croce ed é inclinata a destra con il volto dagli occhi infossati, le palpebre abbassate, la bocca appena socchiusa, che ha appena esalato l’ultimo respiro. Il dolore è come interiorizzato, riassorbito nella classica compostezza del corpo. Nulla può alterare la sua bellezza.

 

 

Quello in legno di pioppo ha il corpo nudo, esile, ma di forte tensione emotiva, resa ancor più evidente dagli occhi gonfi e dalla bocca socchiusa come in un gemito, che coinvolge drammaticamente lo spettatore alle sofferenze di Cristo.

 

Un altro crocifisso significativo anche per il materiale utilizzato, è quello realizzato tra il 1470-80 da Antonio detto del Pollaiolo, che troviamo nella Basilica di San Lorenzo a Firenze:

è costituito da vari strati di sughero uniti tra loro con ganci e spago, con sovrapposto un sottile strato di gesso poi completamente dipinto, che hanno consentito di creare l’espressione del volto in una tragica maschera con zigomi sporgenti, occhi infossati e labbra grosse, chiuse sopra i denti. I materiali leggeri utilizzati per la sua realizzazione sono legati all’uso per cui era previsto: essere trasportato durante le processioni religiose. Anche qui il corpo di Cristo è atletico,cin contrapposizione al volto.

Anche se non vi è alcuna violenta deformazione delle fattezze fisiche, la sofferenza della Passione è percepita comunque su un piano spirituale, nel Crocifisso ligneo policromato (il corpo) stoppa e stucco modellati e policromati (i capelli), scolpito da Michelangelo Buonarroti tra il 1492-93 per la Chiesa di Santo Spirito a Firenze.

La figura di Cristo ha un aspetto giovanile ed efebico, la struttura corporea è tenera e delicata, alcuni dettagli fisici, come i peli del pube e la morbidezza dei capelli marcano un deciso realismo. Il capo inclinato verso la sua spalla destra ha il volto che esprime un dolore intimo e trattenuto. La postura determina una leggera serpentina che imprime otticamente un movimento ascensionale con una leggera torsione del bacino, permettendo di valorizzare anche la visione laterale del Crocifisso.

 

 

Un elemento nuovo aggiunto nel crocifisso lo osserviamo in unopera contemporanea in bronzo, di don Battista Marello, prete e scultore casertano, “Il velo nel tempio”, nella Chiesa Santa Maria della Libera a Marcianise.

In sovrimpressione sulla croce c’è un velo che si rifà a tutti e tre i vangeli sinottici  “Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo spirò.” (Lc 23,45-46) e lo squarcio simboleggia l’apertura definitiva del cielo agli uomini. È un’opera di imponenti proporzioni  (misura 4 metri per 2) collocata in corrispondenza dell’altare che, come un tutt’uno, costituisce il punto focale dell’intera aula; il Cristo, con le braccia distese e con i segni dei chiodi, è vivo e proteso nel manifestare il velo del tempio squarciato.

 

Scompaiono del tutto i dettagli del corpo di Cristo nell’opera, non esposta in una chiesa e non eseguita a fini liturgici (1995-2002) dal titolo TW (I.N.R.I.) di Kendell Geers, artista bianco e attivista sudafricano contro l’apartheid.

 

È un comune crocifisso usato per la devozione religiosa, ma completamente ricoperto con il nastro segnaletico a strisce bianche e rosse normalmente usato nelle strade per indicare i lavori in corso e indurre attenzione. È Cristo che nasconde al mondo le sofferenze del proprio martirio presentandosi con la sintetica e muta immagine del cadavere avvolto e sigillato nel suo sudario, imponendo allo “spettatore” una costante partecipazione del corpo e dello spirito.

 

L’arte di Geers è permeata dal rifiuto delle verità assolute: in ogni concetto è insita un’ambivalenza, un nuovo possibile significato. Nel suo manifesto del 1995, Geers scrisse che “l’arte è l’unica forma legale di trasgressione morale“. Il suo obiettivo è rendere l’arte rilevante, contribuendo al rifacimento della società.

Corpo e sangue

 

 

Riscrittura per il Corpus Domini.

 

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

“Mi capita di partecipare oggi a una Messa in ospedale – luogo di corpi per eccellenza.

Qui ha un suono preciso sentire dire dall’altare. ” Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue…”

Perché qui li vedi, il corpo e il sangue veri.

Mentre sono in fila per la Comunione – una strana fila piena di vestaglie, pigiami, ciabatte, flebo sui trespoli, sacche del catetere al fianco, carrozzine – penso che unirsi a Gesù nell’Eucarestia non solo ci fa una cosa sola con Lui, ma ci trasforma e ci assimila a Lui stesso: il Suo corpo e il Suo sangue diventano il nostro corpo e il nostro sangue…

La conseguenza pratica e oggettiva della Eucarestia è questa: che in un certo modo, non solo davanti all’ostia consacrata, ma anche davanti a ciascuno di questi poveri e fortissimi corpi, feriti in mille modi diversi, che tornano con difficoltà ai banchi, Gesù può dire adesso a pieno titolo: “Ecco il Mio corpo!Ecco il Mio sangue!

Uniti a lui. Fatti una cosa sola con Lui. Allora anche noi possiamo incredibilmente dirci Cristo.

Ciascuno di questi ammalati accanto, puo’ dirmi (se lo vuole, se ci crede, se ama): “Ecco il mio coprpo offerto in sacrificio” “Ecco il mio sangue versato per la remissione dei peccati“. Mi arriva addosso questa verità pazzesca; per davvero, ognuno di noi puo’ continuare a rivivere in sé il dono e l’offerta di Gesù, divenendo così un pezzo di salvezza per tutti.

E la conseguenza seconda e ancora più forte è questa: il Signore non solo si mette nelle nostre mani per far viaggiare nel mondo il Vangelo con la nostra vita di ogni giorno, ma si mette “nei nostri corpi” per portare a compimento, con chi lo vuole, in modo sempre rinnovato, la redenzione di tutti.

Fatti come Cristo, fatti di Cristo, possiamo diventare in qualche modo Cristo noi stessi.

Immediatamente, adesso.

Guardo queste persone  che senza tante storie, nella concretezza della malattia e di un banco qualunque di una cappella, uniscono e travasano le loro sofferenze nella sofferenza mai finita e misteriosa del Signore. Gesù questa sera è proprio qui. Qui: e in chisssà quali e quanti altri posti ignoti e senza gloria del modo, in quante case sconosciute, in quanti letti senza nome, in quante sofferenze anonime, che nessuno conoscerà mai. E io non so pensare quale e quanta salvezza, quanta benedizione, quanta vita piovano sul mondo e su tutti noi per l’azione silenziosa e trasfigurata di queste persone.”

 

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  • Da ” Il viaggio indesiderato“, Effatà Editrice, pagg. 45/46.

Compagni di solitudine. Klara e il sole

 

 

Scritto da MARIA NISII.

 

Quando eravamo nuove, Rosa e io stavamo a metà-negozio, sul lato del tavolo delle riviste, e vedevamo più di mezza vetrina. Perciò potevamo guardare fuori: i lavoratori di ufficio che andavano in fretta, i taxi, i runner, i turisti, Mendicante e il suo cane… (Kazuo Ishiguro, Klara e il sole)

Chi si esprime in prima persona all’inizio di questo romanzo del premio Nobel Ishiguro è Klara, un robot umanoide, che attende di essere acquistata da uno dei bambini che guardano la vetrina del negozio. Nel frattempo però si gode tutto quello che riesce a scorgere dalla postazione in cui la direttrice del negozio la sposta ogni settimana, perché – neanche a dirlo – Klara è affamata di conoscenze e soprattutto vuole comprendere tutta la gamma di emozioni che provano gli esseri umani: “Mi rendevo conto che se non fossi riuscita a decifrare almeno alcuni di quei misteri, quando fosse arrivato il momento non avrei saputo rendermi utile al mio bambino come dovevo” (p. 18-9). E una delle cose di cui si accorge è che i bambini hanno dipinta sul volto una specie di tristezza, anche se l’istante dopo possono scoppiare a ridere. Gli altri robot del negozio non notano niente e quando lei lo racconta, ne sminuiscono le impressioni. Solo la direttrice (o Direttrice, come lei la nomina – senza articolo e con la maiuscola, come non distinguesse i nomi propri dagli altri appellativi) comprende la sua speciale sensibilità.

Josie, una bambina di 14 anni, inizia a comunicare con lei attraverso la vetrina e sin dalla prima volta le strappa la promessa di essere ancora lì quando lei tornerà ad acquistarla. Naturalmente Klara sarà fedele all’impegno preso, anche se dovrà attendere molto più a lungo del previsto. E quando infine Josie tornerà con la madre, ci vorrà del tempo perché ritrovi il suo AA (amico androide, ovvero robot da compagnia per bambini): Klara infatti era finita nel retro del negozio per essersi mostrata restia ad altri tentativi di acquisto. Nelle settimane di attesa, mentre può ancora guardare fuori dalla vetrina, Klara ha notato diversi AA con i loro bambini e gli atteggiamenti assunti da entrambi. Anzitutto i robot non desiderano passare davanti al negozio, come preoccupati che i loro bambini si accorgano dell’esistenza di nuovi modelli più avanzati e volessero magari rimpiazzarli. Nota inoltre come alcuni bambini trattano i loro AA, tenendoli a distanza e con un certo autoritarismo.

 

 

Quando finalmente si trasferisce nella casa di Josie può vedere il luogo dove il sole (citato con la maiuscola, Sole, come personificandolo) va a riposare. L’alimentazione solare dei robot è interpretata da Klara come “un nutrimento speciale”, di cui possono beneficiare anche gli umani. Quando era nella vetrina del negozio aveva assistito a un “miracolo del sole” sul mendicante e il cane che stazionavano lì davanti e che un giorno aveva visti riversi a terra senza vita, mentre l’indomani erano lentamente tornati a vivere grazie al beneficio che il sole aveva riversato su di loro. I palazzi di fronte al negozio le impedivano di scorgere il percorso giornaliero del sole, ma dalla casa di Josie può perfettamente vedere l’orizzonte e il luogo in cui scompare: il palazzo del Sole, come lei e Josie chiamano il fienile di un vicino che vive al di là dell’ampio prato. Josie abita infatti in campagna in una casa isolata, dove non c’è nulla che possa impedire ai raggi solari di penetrare nelle stanze.

Molto presto Klara scopre che Josie è malata e, nonostante la presenza di una domestica, la bambina vive di fatto da sola perché la madre (la Madre) è fuori tutto il giorno al lavoro e lei segue una scuola domestica con lezioni impartite da pc (che Klara chiama l’oblungo come tutti gli apparecchi con schermo). Il male di Josie è misterioso e peggiora gradualmente dopo l’arrivo di Klara, costringendo la bambina a restare a letto sempre più a lungo per recuperare le forze. Ma i misteri non finiscono qui: Josie è una studentessa speciale e pertanto segue un percorso scolastico adatto a ragazziche sono stati “potenziati” con un intervento di editing genetico. Questo la isola dai coetanei, al pari degli altri ragazzi nella sua stessa condizione di “privilegio”. Ma in vista del reintegro a scuola con l’ingresso al college, i genitori di questi figli speciali organizzano “incontri di interazione” allo scopo di abituare i ragazzi a stare con gli altri. “Quando ci arrivai io, al college, avevo passato anni con gli altri ragazzi tutti i santi giorni. Ma per te e per quelli della tua generazione sarà dura se non vi allenate un po’. I ragazzi che si trovano male al college sono sempre quelli che hanno frequentato poco gli incontri” (p. 59), risponde la madre alle proteste di Josie.

 

 

A quegli incontri Josie non è più se stessa, quasi assumesse un volto “pubblico”, adatto alla socializzazione che ci si attende da lei. Per questo “cambia” e non difende Klara dai soprusi degli altri ragazzi che la trattano come fosse un giocattolo, e di fronte al rifiuto del robot di assecondarli, si lascia anche scappare una frase infelice – forse avrebbe dovuto comprare la versione più avanzata, ammette dopo il suggerimento delle coetanee. Ma poco dopo sembra tornare in sé, affermando qualcosa che dimostra come abbia compreso molto bene la natura del suo speciale AA: Lei nota cose che nessun altro nota e le custodisce(p. 71).

A parte Klara, Josie non è però completamente sola, in quanto nell’unica casa accanto alla sua abita un ragazzo (anche lui vive solo con la madre). I due coetanei sono cresciuti insieme e desiderano persino condividere il resto della vita. L’unico ostacolo al loro “progetto” è il diverso destino di Rick, che “non ce l’ha fatta” – eufemismo per dire che non è stato potenziato. Rick in realtà è un ragazzo geniale, ma la sua è un’intelligenza “diversa”, che si sviluppa al di fuori dai canali istituzionali e per questo dovrà faticare per trovare la sua strada.

 

 

La malattia di Josie non è però l’unico punto oscuro della famiglia. Klara viene infatti a sapere che in passato è morta la sorella maggiore di un male simile a quello di cui soffre ora Josie. Un giorno la madre porta Klara fuori casa e le chiede di “fare Josie”, cioè di cercare di imitare la figlia; il robot si presta senza fare domande ma raccoglie elementi che alla fine saprà mettere insieme. Pochi giorni dopo la salute della ragazza ha un brusco peggioramento e da quel momento si alza sempre meno dal letto, dormendo quasi tutto il giorno. Klara allora si chiede perché il sole non mandi “il suo aiuto speciale come aveva fatto per Mendicante e il suo cane […] Capivo ad esempio che, nonostante tutta la sua gentilezza, il Sole era molto occupato; che c’erano tante persone oltre a Josie bisognose di attenzione” (p. 103). E così decide di pensarci lei stessa: esce di casa risoluta a recarsi al palazzo del Sole.

Ma per un robot non è così facile orientarsi fuori casa, in mezzo all’erba alta e senza punti di riferimento in uno spazio tanto ampio. Il terreno poi sembra continuamente cederle sotto i piedi e lei teme di non arrivare in tempo per l’arrivo del sole al suo riposo serale. Per fortuna Rick l’ha vista dalla finestra e arriva in suo soccorso, aiutandola a raggiungere il luogo desiderato, salvo lasciarla sola per la sua “missione”, come lei stessa gli chiede.

Non pronunciai di fatto le parole ad alta voce, perché sapevo che al Sole non occorrevano. Ma desideravo essere più chiara possibile, perciò articolai nella mente qualcosa di simile a quelle parole, in modo rapido e silenzioso.

  • Per favore, guarisci Josie. Come hai fatto con Mendicante […] Josie è ancora una bambina e non ha fatto niente di poco gentile (p. 145)

Per compensare la richiesta, Klara contratta con il Sole promettendo di fare qualcosa contro l’inquinamento che “tanto lo rattrista e fa arrabbiare”. Nei giorni in negozio aveva infatti notato una macchina che produce tanto fumo da oscurare il Sole, e che lei ora spera di riuscire a distruggere durante un’uscita in città con Josie e la mamma. Il piano di Klara sembra impossibile, ma quel giorno la famiglia si riunisce con il papà ingegnere, ed è grazie a lui se l’AA riesce nel suo piano. Tuttavia per danneggiare irreparabilmente la macchina inquinante, è necessario inserire al suo interno una sostanza che possa penetrarne gli ingranaggi, e secondo il padre la soluzione P.E.G. che si trova nella nuca di Klara potrebbe fare al caso loro. Si tratterà di prelevarne la metà di quanto occorre al robot per il suo funzionamento, dice il padre che pensa non dovrebbe nuocerle in modo significativo visto che la sua fonte energetica è soprattutto solare. Klara non ha esitazioni e lascia che il padre di Josie operi su di lei pur di salvare la ragazza malata.

 

 

Mentre Klara cerca di capire fino a che punto le sue funzioni siano state compromesse, purtroppo i giorni passano e Josie non migliora. La ragione è presto chiara anche al robot, che già sulla strada di ritorno verso casa aveva avvistato un’altra macchina inquinante come quella che aveva fatto sabotare. Il suo sacrificio sembra quindi essere stato inutile, tanto più che Josie ha un nuovo aggravamento, dal quale sembra non ci potrà essere ripresa alcuna. Klara però non si arrende e ancora una volta torna al palazzo del Sole, ma questa volta quello che offre è l’amore di Rick e Josie:

so quanto è importante per te che chi si ama possa tornare insieme, anche dopo molti anni. So che il Sole augura a quelle persone ogni bene, forse le aiuta perfino a trovarsi. Perciò, ti prego, considera il caso di Josie e Rick. Sono giovanissimi. Se Josie dovesse andarsene ora, sarebbero separati per sempre (p. 240)

Mentre Klara sta ancora formulando la sua richiesta, si accorge della presenza di una diversa fonte luminosa nel fienile: sette lastre di vetro accatastate hanno raccolto i raggi solari che ora riflettono. Ed è lì che Klara crede di scorgere riflessa “la faccia del Sole”, nelle sette figure sovrapposte che lei fissa intensamente fino alla fine del tramonto.

Questa volta Klara è certa che il Sole abbia ascoltato la sua richiesta.Sei giorni dopo un mattino il cielo si oscura insolitamente – e quasi apocalitticamente (in Ap 9 il suono della tromba del quinto angelo causa l’oscuramento del sole in pieno giorno, segno dell’intervento di Dio nella storia). Klara è all’erta e attende speranzosa. Mi fermo qui prima di rivelare il seguito per non far perdere il gusto della lettura, ma persuasa di aver seminato elementi sufficienti da raccogliere ora per comprendere il senso di questo lungo racconto che in apparenza non sembrerebbe offrire ragioni per essere ospitato in questo spazio dedicato alle riscritture bibliche e al tema religioso in letteratura.

 

 

Il palazzo del Sole di Klara richiama curiosamente il monolite di 2001 Odissea nello spazio di Stanely Kubrick, una presenza misteriosa che appare già all’inizio del film quando la Terra primordiale è abitata da un gruppo di ominidi. Il parallelepipedo nero e lucido attira l’attenzione di questi antenati degli umani, ispirando il leader del gruppo nel gesto di afferrare un osso e usarlo come un utensile (o arma). La musica che caratterizza per tutti quel passaggio è Alsospracht Zarathustra di Strauss, caricando di inquietudine il futuro che si delinea per quel mondo in auge, col movimento in ralenti, le inquadrature sulle ossa e sugli altri animali uccisi.

Il monolite di Odissea nello spazio secondo alcuni critici è una rappresentazione geometrico-tridimensionale, perfetta ma oscura, dell’idea del divino, che in un film di fantascienza aggiunge una nota di mistero che non si chiarirà neppure a conclusione del film. Analogamente nel romanzo di Ishiguro il Sole è una sorta di divinità per i robot che da esso traggono l’energia (nutrimento) necessaria al loro funzionamento. Sensibile e attenta a tutto quanto la circonda, Klara lo personalizza ritenendolo in grado di compiere azioni miracolose, tanto da rivolgergli quella che a tutti gli effetti è una preghiera di richiesta, controbilanciata da un’offerta di sacrificio che richiederà il sacrificio di sé perché Klara di fatto dopo il prelievo della soluzione P.E.G. non sarà più la stessa, ma rallentata e con la vista molto peggiorata.

La prima volta che scorge il palazzo del Sole, Klara lo descrive come “una forma scura fatta a cubo” (p. 50). E in effetti il fienile del vicino è più una tettoia che un vero capanno, in quanto aperto sui due lati. Anche qui troviamo dunque una rappresentazione geometrica, scura e misteriosa, associata all’idea del divino che parrebbe ben adattarsi al genere fantascientifico. Inoltre alla seconda visita Klara ottiene una visione del Sole che sembra quasi richiamare Mosè quando dialoga con Dio faccia a faccia. E non casualmente la luce è uno dei simboli per il Dio biblico (cfr https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/stelle-leva-gli-occhi-al-cielo).

 

 

Klara si fida del dio-Sole mentre gli uomini e le donne con cui vive e interagisce si fidano solo della tecnica, affidando le loro speranze all’impiego manipolativo della genetica,all’interno di quello che a tutti gli effetti è un regime che seleziona e scarta. In questo delirio collettivo, molti genitori sono disposti a sacrificare i loro figli: la sorella di Josie è morta e la madre rischia ancora potenziando anche la seconda figlia, nonostante il dolore che questo le arreca, come se non ci fosse altra possibilità. O il successo o la morte: “in Josie, ogni cosa dal momento in cui l’ho avuta in braccio per la prima volta, tutto in lei mi diceva che aveva fame di vivere. Il mondo intero la entusiasmava. Ed è per questo che ho sempre saputo, fin dal principio, che non avrei potuto negarle l’opportunità. Josie esigeva un futuro all’altezza della sua energia” (p. 245).

In questo romanzo tutto quello che il lettore ha per comprendere il mondo distopico di Klara e il sole è il punto di vista infantile del robot umanoide, spesso spiazzante perché richiede di decodificare l’uso insolito delle parole, il suo rivolgersi agli altri alla terza persona o il tentativo di comprendere quanto la circonda in mancanza di spiegazioni o di una guida che la istruisca. La sua vista poi in alcune circostanze si presenta a griglie, divisa in tanti quadrati come in una scomposizione cubista, segno di una percezione astratta e quasi incomprensibile del mondo degli umani: “La Madre si sporse un po’ di più sul tavolo sempre strizzando gli occhi e ora la sua faccia riempiva otto riquadri, lasciando solo i periferici alla cascata, e per un momento mi parve che la sua espressione variasse da un riquadro all’altro. In uno, per esempio, i suoi occhi ridevano in modo cattivo, ma in quello accanto erano pieni di tristezza” (p. 93). Un tale punto di vista crea volutamente una distorsione percettiva, perché chiede al lettore di ricomprendere l’umano per quello che appare agli occhi di un robot. E in fondo anche il robot-narratore è una specie di manipolazione genetica della letteratura…!

Sebbene composta di circuiti, Klara apprende a provare sentimenti, si affeziona, prova gioia e dolore. Sacrifica perfino se stessa per la ragazza a cui è stata assegnata e alla fine accetta di essere tenuta nel ripostiglio fino al suo “lento declino” quando è oramai diventata inutile. È stata compagna di una solitudine incurabile, sostituto di amicizie e attenzioni, ma sarà messa da parte come qualunque oggetto che non serve più, come un’aspirapolvere che ha smesso di funzionare. Nella sua “coscienza” di robot però non teme quel momento – al contrario dei giocattoli umanizzati di Toy Story che guardano con orrore al loro bambino che sta crescendo. Klara non è un giocattolo, ma non farà una fine migliore. Gli umani non hanno pietà per i loro simili, come potrebbero averne per i loro Amici Artificiali?

 

 

In questa storia il mondo degli androidi appare meno inquietante di quello degli umani. Sono loro ad aver creato una separazione tra i ragazzi perchè migliorino le loro capacità e prestazioni, ma pure causandone il male che può portarli alla morte. Klara si è subito accorta di questo male oscuro, notando la tristezza negli occhi dei bambini che passavano al di là della vetrina. Ma una delle questioni cruciali che pone questa storia dal tono solo apparentemente infantile è se l’essere umano possieda qualcosa di unico e irripetibile o se sia, come sostiene uno dei personaggi, assolutamente “sostituibile” e “riproducibileda un robot – la Madre aveva infatti chiesto a Klara di imparare a “fare Josie”, per sostituirne (o prolungarne) la presenza nel malaugurato caso in cui la figlia non fosse sopravvissuta.

La nostra generazione si trascina appresso sentimenti del passato. Una parte di noi si rifiuta di lasciarli andare. La parte che si ostina a voler credere che ci sia qualcosa di inaccessibile dentro ognuno di noi. Qualcosa di unico e non trasferibile. Ma non esiste niente di simile, e ora lo sappiamo […] Non c’è niente là dentro. Niente dentro Josie che le Klare di questo mondo non possano proseguire. La seconda Josie non sarà una copia. Sarà esattamente identica e tu avrai tutto il diritto di amarla come ami Josie, né più né meno. Non è di fede che hai bisogno. Solo di razionalità(p. 184-5).

Questa tesi è persino sostenuta dal padre di Josie:

Credo di odiare Capaldi perché in cuor mio sospetto che abbia ragione. Che quanto sostiene sia vero. Che la scienza abbia ormai dimostrato al di là di ogni dubbio che non c’è niente di tanto unico in mia figlia, niente che i nostri strumenti moderni non sappiano portare alla luce, copiare, trasferire. Che le persone sono vissute insieme per tutto questo tempo, per secoli ormai, amandosi e odiandosi e sempre sulla base di un presupposto sbagliato. Una specie di credenza superstiziosa che abbiamo mantenuto in vita, per ignoranza(p. 196-7).

Nonostante la sorte avversa, questo padre ingegnere sembra accettare la nuova versione delle cose offerta dalla ricerca scientifica e tecnologica. L’amore per la figlia è ancora un ostacolo per la piena accoglienza, ma quanto a sé ritiene che quel cambiamento sia una sorta di necessità: “Vivo con persone veramente in gamba, gente a cui perlopiù è toccata la mia stessa strada. Ormai abbiamo tutti ben chiaro che sono tanti i modi in cui si può vivere una vita piena e dignitosa. […] E comunque non ho esattamente perso il lavoro. Fa parte dei cambiamenti in atto. Ciascuno ha dovuto trovare vie nuove” (p. 203). L’anelito alla dignità non è venuto meno, ma si cercano “vie nuove” per realizzare una pienezza di vita. Amore e odio, famiglia e lavoro esistono ancora come parole ma i concetti sono ormai ritenuti superstizioni, legati a un passato in cui non si possedevano le attuali conoscenze.

 

 

Il padre di Josie, che pure era “era un vero talento”e “un astro nascente” come racconta la moglie, ha vissuto tutto questo sulla sua pelle per essere stato a sua volta rimpiazzato da un androide in grado di fare tutto quello che lui faceva, forse meglio, sicuramente in modo più veloce e indubbiamente più controllato. Eppure questa sua esclusione dal mondo produttivo ufficiale, che lo ha confinato in una comunità di esclusi geniali, lo ha liberato da un sistema costrittivo. In quel sistema però moglie e figlia sono totalmente immerse, persuase della sua giustizia al punto da accettare la separazione dal congiunto. Una separazione che sembra essere toccata alla gran parte delle famiglie, visto che tutte quelle presentate appaiono monoparentali, per quanto tale condizione parepiù una necessità del sistema in atto che frutto di conflitti di coppia.

Un mondo siffatto separa, isola ed esclude. In modo diverso tutti i personaggi (umani) della storia sono quindi “soli”, ma come comprende Klara questa solitudine è per loro insopportabile: “ciò che mi diventava ogni giorno più chiaro era fino a che punto gli umani, pur di evitare di sentirsi soli, potessero compiere manovre molto complesse e pressoché incomprensibili” (p. 101). Non per niente ai bambini vengono regalati robot da compagnia, le madri si fanno produrre bambole con le fattezze dei figli che hanno perduto, gli adolescenti hanno bisogno di incontri organizzati con i coetanei perché non sanno interagire tra di loro, gli adulti single finiscono col riunirsi in piccole comunità (le madri dei potenziati, i lavoratori sostituiti).

 

 

A questo mondo distopico non si attribuisce un nome, ma in un paio di occasioni fa capolino la parola “fascismo”, assieme all’istanza di sicurezza e ad alcuni pericoli e disordini, che inevitabilmente una tale società causa e dai quali è bene proteggersi quasi in ogni modo.Sin da bambini gli uomini e le donne si preparano a competere tra di loro e con i robot, dei quali devono temere la concorrenza. I bambini però trattano i loro amici androidi come schiavi da comandare, mentre gli adulti presentano ancora un atteggiamento ambivalente, ritenendoli un’opportunità o al contrario fonte di angoscia.

Ma come sempre accade, questi specchi distorti stanno in realtà rappresentandoil nostro mondo e perché questo sia più chiaro deve poter apparire l’altra possibilità, per quanto impossibile. E tuttavia di questa possibilità impossibile si deve sentire una vaga nostalgia, che in questo romanzo è espressa da un androide:

quel giorno il Sole sorvegliava il cortile, perciò deve sapere quanto ci ho provato e come mi sono sacrificata, cosa di cui sono molto contenta, anche se forse le mie capacità non sono più quelle di un tempo. E deve anche aver visto come il Padre abbia fatto del suo meglio per aiutare, pur non sapendo nulla del gentile accordo del Sole, solo perché aveva visto la mia speranza e aveva avuto fede(p. 238).

 

 

Nel linguaggio di Klara ritroviamo i concetti di fede, speranza e carità (dimostrata dal sacrificio), o quel che resta delle virtù teologali, nella “preghiera” rivolta al Sole. Gli umani hanno perso quelle parole né sono più capaci di rivolgersi al divino, ma ne hanno trasferito la possibilità nei robot, che assecondano nelle loro “superstizioni” (il rivolgersi al Sole), convinti che la cosa non possa far del male. Speranza e carità sono però attribuite al robot ed è ancora il robot che crede nella possibilità del miracolo. All’umano resta la fede– e il timore –non in Dio, ma nelle macchine.

 

 

Bellocchio ci ha rapiti

Scritto da  DARIO  COPPOLA.

 

L’opera ultima di Marco Bellocchio, il film Rapito, appena uscito nelle sale cinematografiche,è esteticamente gradevole e accattivante, e conferma il talento polemico del regista.

Compaiono trovate ai limiti del comico per narrare una tragedia e un dramma umano. Gli attori sono bravissimi: soprattutto Enea Sala, che interpreta Edgardo bambino e Paolo Pierobon nel ruolo di Pio IX: sono perfetti. A nostro giudizio, Fabrizio Gifuni, nella parte dell’inquisitore Feletti, è un po’ meno adatto a questo ruolo, ma se ne può discutere.

Liberamente tratto, soprattutto, dal romanzo di Daniele Scalise  Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa (1996), il film rispecchia la Chiesa dell’ultimo papa-re, che vede la fine del potere temporale come un’ossessione ai limiti della criminalità. Follia, dimensione onirica e ricostruzione storica sono ben armonizzate nella trama scorrevole e chiara. Il contenuto contribuisce certo a gettar fango sulla religione in sé e, in particolare, sul cattolicesimo di vecchio stampo, che temeva e demonizzava la libertà religiosa. Oggi non è così, almeno nel cattolicesimo.

 

 

Bellocchio – non distinguendo gli aspetti dogmatici da quelli morali – confonde fra loro i diversi piani teologici con l’estetica dell’arte figurativa, unica arte divina, il cui deus ex machina è proprio il regista stesso. A lui solo ci si deve sottomettere. Tuttavia, Bellocchio approfondisce e inserisce anche la psicoanalisi, indagando con attenzione nell’umanità dei personaggi: gli antagonisti non appaiono ostili fino in fondo perché mossi da un’etica che li supera e li divora nel tempo che si nutre dei poteri più dispotici, come insegna il mito di Crono.

Alcune scene sono dei veri capolavori artistici:

le animazioni delle caricature d’epoca su Pio IX sono meravigliose, e ricordano quelle (vent’anni fa meno raffinate tecnologicamente) del bassorilievo della Gradiva già citato nel film L’ora di religione da Bellocchio stesso;

 

 

E ancora:

il sogno grottesco di Pio IX che teme d’essere circonciso;

Edgardo che causa la goffa caduta del papa, scena prefigurante la breccia di Porta Pia.

Soprattutto, è superba e suggestiva la scena nella quale Edgardo delicatamente schioda il Cristo crocifisso. Risuona ancora nella nostra mente la voce di Giorgio Bassani (che doppia Orson Welles) ne La Ricotta di Pasolini: «Schiodateli!» diceva là un altro regista, riferendosi ai ladroni e al Cristo. Qui Bellocchio rappresenta Edgardo nell’atto di schiodare il Cristo stesso.

Il rapito è Edgardo.

A noi pare proprio rapito sì, ma in estasi, da quando sulla barca (simbolo della Chiesa) vede per la prima volta un crocifisso. Edgardo si trova a porre riparo al male fatto dagli ebrei, che la liturgia preconciliare del venerdì santo apostrofava come perfidi giudei. Edgardo, rapito, paradossalmente schioda il Cristo che scende dalla croce, ed è così libero, così come è libero ognuno di credere in una religione o nell’altra, grazie a lui.

Il principio di san Cipriano Extra ecclesiam nulla salus, cristologizzato dal IV Concilio Lateranense (1215) e poi ripristinato nel V Concilio Lateranense (1512-1517), si è prolungato troppo nel tempo, raggiungendo una Chiesa cattolica che, nella seconda metà dell’Ottocento, temeva la fine. Col Concilio Vaticano II, la libertà religiosa diventa invece prima preoccupazione della Chiesa stessa: la Gaudium et Spes (76) la auspica e ne è icona tutta la Dignitatis Humanæ.

Geniale è la rappresentazione di un papa che gioca col mondo come un bambino, e nasconde Edgardo, avvolgendolo come la Madonna della misericordia sotto il suo manto, mentre il bambino gioca a nascondino.

E, soprattutto, in una trovata iconica senza pari, il papa dai canuti e fluenti capelli tiene in braccio Edgardo, come ha fatto la Madonna stessa con Gesù: non poteva esserci migliore locandina per il film, quasi un tableau vivant. L’ironia e l’arte di Bellocchio qui raggiungono un vertice estetico dell’opera intera che rapisce lo spettatore, in particolare chi vi scrive.

 

 

La forza di Bellocchio non è perciò la logica dell’etica, non scevra di sofismi e fallacie, ma l’estetica, la filosofia dell’arte, secondo l’accezione di Baumgarten, proprio perché supera ogni logica umana e perciò ci appare sublime.

Peccato che la consulenza pur seria – e si vede davvero tutto il rigore della ricerca nella realizzazione dell’opera – non abbia evitato un errore di pronuncia nella recita dello Shemà Israel, celeberrima e principale preghiera ebraica tratta da Deuteronomio 6.11 e da Numeri 15: anziché Adonai elohenu, gli attori dicono infatti Adocai, e lo reiterano per tutto il film.

Un vero peccato… ma solo estetico.

Procede e irrompe

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Riscrittura di Pentecoste

 

Lo Spirito Santo è come un vento forte e libero, cioè ci porta forza e ci porta libertà: vento forte e libero. Non si può controllare, fermare, né misurare; e nemmeno prevederne la direzione. Non si lascia inquadrare nelle nostre esigenze umane – noi cerchiamo sempre di inquadrare le cose –, non si lascia inquadrare nei nostri schemi e nei nostri pregiudizi. Lo Spirito procede da Dio Padre e dal suo Figlio Gesù Cristo e irrompe sulla Chiesa, irrompe su ciascuno di noi, dando vita alle nostre menti e ai nostri cuori. Come dice il Credo: «È Signore e dà la vita» (Papa Francesco, Regina Coeli del 23 maggio 2021).

 

Già: noi cerchiamo sempre di inquadrare le cose. Comprese le cose della Fede.

A tal punto che, consciamente o no, cerchiamo a modo nostro di farle quadrare con la nostra  propria visione .

Per questo lo Spirito, resta per noi misterioso, poco conosciuto, quello che maggiormente sfugge alla nostra esigenza di un rapporto diretto e personale: non riusciamo a inquadrarlo nei nostri schemi e nei nostri pregiudizi. A rappresentarcelo in qualche modo.

Se ci pensiamo, ciascuno di noi, a partire dalla Fede e  dai Vangeli,  si fa una sua idea, una sua immagine di Dio e di Gesù Cristo: ne addomestichiamo i tratti e li personalizziamo. Ma con lo Spirito, la musica cambia.

Impossibile domarlo. Non si può controllare, fermare, né misurare; e nemmeno prevederne la direzione. C’è in Lui qalcosa di irriducibile e di selvaggio, e se proprio dobbiamo utilizzare una categoria che ce ne faccia intuire la sostanza, sembra essere quella delle forze primigenie della natura. Lo Spirito  procede e irrompe: due verbi che non ci sono familiari, per nulla. Sanno di potenza libera e assoluta. E’ Signore e dà la vita  dice il Credo.

 

L’economia dell’alleanza nuova ed eterna ha come protagonista lo Spirito santo, il quale rende i credenti atti a ricevere l’eredità di Gesù, la porta a compimento, le conferisce pienezza. E necessario riconoscerlo in ciascuno di noi, nella chiesa, nell’umanità, nella storia, perché è lui lo Spirito creatore, lo Spirito di profezia che conduce al discernimento della parola di Dio nella parola umana, lo Spirito di resurrezione che sempre sprigiona energie capaci di vincere il potere della morte. La via maestra per accostare le epifanie dello Spirito santo consiste nell’esplorare le tracce lasciate dallo Spirito nella Scrittura. Come è stato compagno inseparabile di Cristo in tutta la sua vita, così lo Spirito è costantemente all’opera nel cuore del credente; egli ci accompagna e ci soccorre nelle nostre insufficienze con amore fedele, ci risolleva dalle nostre cadute. Vero maestro interiore, lo Spirito inizia il cristiano all’ascolto della parola di Dio e plasma in lui il suo volto sempre diverso, sempre nuovo.

Ma come parlare dello Spirito senza imprigionarlo nelle nostre povere parole? Gesù ha detto di lui: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va” (Gv 3,8); dello Spirito dunque il cristiano può fare esperienza, ma se tenta di parlarne, le parole vengono meno. Tuttavia è necessario riconoscerlo.” ( Enzo Bianchi, cfr: https://www.qiqajon.it/libro/8032275000494)

Riconoscerlo. Invocarlo. Pregarlo. Come la Chiesa ci insegna  con il Veni Creator . Poi, puo’ capitare di imbatterti in questo:

 

 

No, nessuna preghiera, e nessun testo teologico. Solo una traduzione di “You’re simply the best“, il brano iconico di TINA TURNER.  Che parla, naturalmente, di tutt’altro. Eppure, all’orecchio del credente, queste parole riescono ad evocare un riflesso dello Spirito che irrompe. Nessuno si scandalizzi per questa piccola domanda conclusiva: ma se lo Spirito è libero e soffia dove vuole, perché non potrebbe  regalarmi una folata inaspettata e gagliarda  dalle note e dalla voce graffiata di Lovely Tina?

(La vignetta è di GIOBA, alias don Giovanni Berti.)

 

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In Paradiso… con i Beatles

 

 

Scritto da  DARIO O. COPPOLA.

 

Concludiamo con questo intervento il nostro viaggio intorno ai testi dei Beatles vicini al linguaggio religioso. Il quartetto più celebre di Liverpool ha cantato l’amore esaltandolo sopra ogni valore umano:

Quando i cieli non sono così blu, / non ho nient’altro da fare, / solo pensare a qualcosa di nuovo da dirti, / ma le parole mi restano sulla punta della lingua […] aspetto un’occasione / per provarti il mio amore“.
(da Tip of my tongue).

 

 

Così gli uccelli nel cielo non saranno tristi e soli, / perché sanno che possiedo il mio unico e solo amore […]“.
(da Bad to me).

 

 

 

Ed eternamente/ sarò sempre innamorato di te […]
(da Thank you, girl).

 

 

In questi testi ritornano, coniugati col tema dell’amore, i concetti dell’eternità e del cielo.

Più espressamente, ecco una chiarificazione tematica ulteriore:

Ogni volta che guardo nei tuoi occhi, / vedo che lì c’è il Paradiso”.

(da Love of the loved)

 

 

 

Anche nei miei sogni guardo nei tuoi occhi, / All’improvviso mi sembra di aver trovato un Paradiso“.
(da Nobody I know)

 

 

Un riferimento agli Hare Krishna, che incontrarono in un primo momento l’entusiasmo di Harrison, si trova in I am the walrus.

 

 

Qualcuno ha anche avanzato interpretazioni religiose di Hey Jude: in realtà Paul Mc Cartney dedicò questo testo al figlio di John Lennon, Julian (Jules), in crisi per ragioni legate alla difficile convivenza matrimoniale dei genitori: Jules fu cambiato per ragioni fonetiche in Jude.

 

 

Concordemente i critici non possono però che accogliere la dichiarazione di Harrison stesso, secondo la quale Long, Long, Long è dedicata proprio a Dio, attraverso riferimenti alla moglie di George. Compare una visione mistica e panteistica, se leggiamo i versi (che tuttavia non accennano a Dio) con la chiave di lettura teocentrica che l’autore ci indica:

È stato un lungo, lungo, lungo tempo, / come ho potuto perderti / quando ti amavo? / C’è voluto un lungo, lungo, lungo tempo, / ora sono così felice di averti ritrovato. / Come ti amo. / In quante lacrime cercavo […] Come posso mai metterti nel posto sbagliato? / Come ti voglio / Oh, ti amo / Sai che ho bisogno di te“.

 

 

 

 

Un intero album dei Beatles è intitolato Abbey Road. In esso Lennon-Mc Cartney, attraverso la canzone You never give me your money, riprendono modi di dire che rivelano ricordi d’infanzia, tenerissimi, della loro educazione religiosa:

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, / Tutti i bimbi buoni vanno in cielo”.

 

 

Già… il cielo… è un tema ricorrente cantato dai Beatles… come quello del Paradiso: si diceva del termine caelum che può evocare ciò che è nascosto, celato. Paradiso, dal greco paradeisos, significa “giardino”. Il giardino dell’Eden è, fra l’altro, il paradiso terrestre… Il Paradiso è un giardino di delizie, nelle religioni e nella Sacra Scrittura: questo concetto divenne presto atto a designare l’eterno soggiorno delle anime beate. E la musica dei Beatles ci ha fatto assaporare un po’ di paradiso, di beatitudine… e di eternità.

 

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L’Oriente religioso dei Beatles

 

 

Scritto da DARIO O. COPPOLA.

 

Across the universe è stata definita una sorta di manifesto poetico di John Lennon. In questa
canzone è vivo il richiamo religioso: il riferimento, sempre ricorrente, è questa volta diretto alla
cultura indiana, ove chi vuole iniziare il percorso religioso deve affidarsi a un guru, termine che,
in sanscrito, significa profondo; questi addita la via ai suoi seguaci che iniziano il discepolato
per arrivare, con la sua guida, alla più alta saggezza spirituale.
Dice John:
Le parole volano come pioggia senza fine in una tazza di carta, / scivolano mentre passano, si
disperdono per tutto l’universo. / Pozzanghere di dolore, onde di gioia fluttuano nella mia /
mente aperta./ S’impossessano di me e mi accarezzano. / Jai Guru Deva Om. / Niente cambierà
il mio mondo […] Immagini di luce spezzata che mi danzano davanti come / un milione di occhi,/ che mi chiamano per tutto l’universo […] Jai Guru Deva Om / […] Amore senza fine né limitiche mi splende intorno, come / un milione di soli, / mi chiama […] per tutto l’universo. / Jai Guru Deva Om […] “.
Un altro testo di Paul Mc Cartney, The long and winding road, appartiene a una ballata
dell’album Let it be. Ancora una volta, su musica di Lennon-Mc Cartney, emerge l’invocazione
tipica del linguaggio religioso, che Paul rivolge a un “tu” indefinito (si pensi alla corrente
filosofico-teologica del personalismo):
La strada lunga e tortuosa che porta a te, / non scomparirà mai, ho già visto quella strada. / Mi porta sempre qui, mi porta da te. / La notte di vento e tempesta che la pioggia ha lavato via, /
ha lasciato una pozza di lacrime piangendo per il giorno. / Perché lasciarmi qui, insegnami la
strada. / Molte volte sono stato solo e […] ho pianto, / […] Mi hai lasciato qui molto tempo fa. /
Non tenermi qui ad aspettare, guidami da te”.
Può essere un riferimento a una persona in particolare, ma richiama i versi dei salmi ebraici,
ove la ricerca di un amore protettivo in cui rifugiarsi è un leitmotiv
Un gioco di parole di Ringo Starr diede il titolo a Tomorrow never knows:
Spegni la tua mente e rilassati e abbandonati alla corrente, / non è morire […] arrenditi al
vuoto. / E’ risplendere […] che tu possa capire il significato del profondo, / è esistere. / Che
l’amore è tutto in tutti […] è sapere. / Quando l’ignoranza e l’odio possono piangere il morto, / è credere […] gioca il gioco dell’esistenza fino alla fine / del principio […] “.
Questo testo fu ispirato dal Libro dei Morti, testo sacro del Buddhismo tibetano.
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(4. continua)
  • Questo articolo di Dario Coppola è stato già pubblicato sul Corriere di Torino e della Provincia il 14/09/96
  • A questi link puoi ascoltare i brani citati nell’articolo:

https://www.youtube.com/watch?v=fR4HjTH_fTM

https://www.youtube.com/watch?v=pHNbHn3i9S4

 

 

Nel mio principio…

Scritto da MARIA NISII.

 

Agostino esclude la nozione di un tempo anteriore alla creazione. Allo stesso modo Heidegger, per cui Sein e Zeit, essere e tempo, sono coestensivi: il tempo avviene nell’essere e essere significa essere nel tempo. Ma queste interpretazioni richiamano l’associazione con il greco en arché (Gv 1,1), parola impiegata per esprimere la ricerca del fondamento di tutte le cose. Nella tradizione giudaica invece il termine bereshit deriva dalla parola rosh, capo, di norma inteso in senso temporale e direttamente riferito alle parole che seguono. Nel nostro contesto l’espressione è posta all’inizio dell’atto creativo di Dio, sorta di premessa alle parole “Dio disse”, che rappresentano l’irrompere di tale azione creatrice.

Ora, per quel che riguarda l’inizio assoluto o i tanti inizi relativi (storici, personali), si scopre che si tratta sempre di qualcosa di inafferrabile in quanto tale: lo è l’inizio del risveglio o del sonno di cui non si può essere consapevoli, lo è ogni nascita in quanto non lascia ricordo. Nella storia poi un evento fondatore viene riconosciuto in questa sua qualità sempre a posteriori. E ogni volta che si racconta una storia si risale il tempo, ricordando e individuando un’origine. Ma l’origine è qualcosa in mano ai discendenti, mai a coloro che quell’evento l’hanno vissuto. La storia di Israele inizia da Abramo o da Giacobbe-Israele? Oppure va fatta risalire fino alla Creazione?

J.M.W. Turner, Snow Storm

 

L’In principio dice qualcosa di più dell’inizio temporale, parla delle origini, di una genesi e derivazione di tutto quanto esiste.

Vi sono parole che scaturiscono da migliaia di cose, e parole che scaturiscono da altre parole: senza fine… Ma vi è una Parola che scaturisce dal silenzio, la Parola a fondamento dell’universo. Questa Parola non si può comporre. Non è frutto delle nostre mani, né dei nostri pensieri. Dobbiamo attendere in silenzio, finché non si faccia udire: Avvento… Grazia. Ascoltata questa Parola, tutto il corpo risuona e ci si rende conto che è stato il mistero del nostro Essere a parlarci, dal suo oblio. Il poeta francese Mallarmé sognava di scrivere un libro con una sola parola. Pensavo fosse pazzo… Adesso […] credo di capirlo: voleva cogliere la prima parola, il principio di tutte le altre. Questa è l’essenza della poesia: il ritorno alla Parola fondante, che scaturisce dall’abisso del silenzio (Rubem Alves, Parole da mangiare p. 13)

 

Temp’era dal principio del mattino,

e il sol montava in su con quelle stelle

ch’eran con lui quando l’amor divino

mosse di prima quelle cose belle

(Inferno, I, 37-40)

 

Si tratta del momento in cui il pellegrino intraprende la propria avventura ultramondana: è l’equinozio di primavera, il Venerdì santo del 1300. Ma tale momento è descritto anche come un tempo corrispondente all’istante della creazione, quando Dio per un puro atto d’amore dette impulso al sole, alle stelle e alle cose belle. Nel principio creativo sta il principio del viaggio, dal quale sgorga la creazione poetica. Un principio personale nel principio universale. È la parola poetica che ritorna alla Parola fondante, sgorgando dall’abisso del silenzio.

 

 

«Nel mio principio è la mia fine… Nella mia fine è il mio inizio»

(T. S. Eliot, inizio e conclusione di East Coker, secondo dei Quattro quartetti)

Prosegue la riflessione sull’in principio e il tempo, della parola poetica nel suo fondarsi, il poeta inglese T.S. Eliot, che in questo celebre verso richiama invece Eraclito, per cui “principio e fine sono la stessa cosa”, intendendo come nell’inizio (la nascita) sia già implicita la fine (la morte). La sua ripresa, rovesciata, a conclusione del quartetto indica invece come la morte sia inizio di vita nuova. La data in cui si fa memoria dei santi è infatti quella della morte, Dies natalis, ovvero il giorno della loro nascita al cielo.

 

Parole di… fede?

 

Scritto da   DARIO O. COPPOLA.

 

Ah […] L’amore è tutto, l’amore sei tu./ Perché il cielo è blu e mi fa piangere./ Perché il cielo è blu”.

Così recita Because di LennonMc CartneyHarrison. Non solo il cielo qui compare ma anche il vento, un forte vento che inebria il mondo rotondo: è un panteismo cosmico, traboccante nelle espressioni rivolte al cielo. Qualcuno ha anche associato l’etimologia del termine latino caelum a quella del verbo caelo, che indica ciò che non fa vedere oltre, che è nascosto, che è associato al mistero…

 

 

Lennon-Mc Cartney rapirono i nostri sentimenti quando scrissero un testo, immortale ancora nella memoria collettiva, che suona così:

Quando mi trovo in momenti difficili/ Madre Maria viene da me./ Con parole di saggezza, lascia che sia./ E nella mia ora di oscurità/ lei sta proprio davanti a me/ con parole di saggezza, lascia che sia, / lascia che sia, lascia che sia […] Sussurra parole di saggezza, lascia che sia./ E quando le persone dal cuore spezzato/ che vivono nel mondo andranno d’accordo, / ci sarà una risposta, lascia che sia/ perché anche se sono divise/ vedranno che c’è ancora una possibilità […] E quando la notte è piena di nuvole, / c’è ancora una luce che risplende su di me,/ risplende fino a domani, lascia che sia “.

Inutile citare il titolo (Let it be), inscindibile dalla musica dolce e malinconica che evoca. Madre Maria è la madre di Paul Mc Cartney (qualcuno pensò tuttavia a un riferimento religioso…). Indubbiamente il genere letterario è quello dell’invocazione religiosa: il già citato Salmo 23 (22) recita: “Se dovessi camminare in una valle oscura, / non temerei alcun male, perché tu sei con me […] Felicità e grazia mi saranno compagne/ tutti i giorni della mia vita,/ e abiterò nella casa del Signore / per lunghissimi anni”.

Troviamo facili consonanze fra questo celebre salmo e questi versi di Let it be:
Quando mi trovo in momenti difficili […] nella mia ora di oscurità / lei sta proprio davanti a me […] C’è una […] luce che risplende su di me […] fino a domani”.

 

 

La ricerca dell’amore fra i popoli, della concordia, della speranza è la preghiera di Paul… la ricerca di parole di saggezza. In greco la saggezza si esprime con termini come sofrosyne, fronesis, e deriva dall’esperienza. Per i cristiani, la saggezza, come la sapienza, derivano dal logos, che è Cristo stesso. Egli si è fatto logos, cioè Parola fra le parole, saggezza e sapienza, ragione… Sì, Cristo si fa ragione… e non fede. Anche se ciò richiede fede. Anche l’uomo senza fede può così sperare, se sa amare. E l’amore per gli uomini porta all’amore di Dio: “[…] nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni verso gli altri, Dio rimane in noi e l’Amore di lui è perfetto in noi” (Prima lettera di Giovanni, 1Gv 4).

E con l’amore e la speranza, qualche uomo ha – poi – raggiunto la fede.

(3. continua)

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Questo articolo di Dario Coppola è già stato pubblicato sul Corriere di Torino e della Provincia il 13/07/96

La pasqua laica della Liberazione.

 

 

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Dal punto di vista laico, civile, etico, il 25 aprile rappresenta per il nostro paese un momento di svolta e di ribaltamento. Dalla dittatura alla libertà riconquistata. Dalla guerra alla pace. Dall’oscurità alla speranza. Momento di passaggio, di cesura, di rinascita.

All’orecchio del credente, questi termini e questa situazione evocano direttamente il concetto della pasqua.

Quella dell’ Antico Testamento:  dalla schiavitù sotto il Faraone alla libertà di Israele. Quella del Nuovo: dal buio del sepolcro,  alla pietra rotolata via.

Si potrebbe obiettare che entrambi i casi riportati dalla Scrittura, sono manifestazioni principe  dell’intervento di Dio, mentre le vicende della Liberazione sono espressione della azione umana, anzi di azioni umane in lotta e contrapposte fra di loro. Vero. Se non fosse che anche là si trattava di vicende dove c’è un oppressore e un oppresso, una tirannide che prevarica , una violenza assassina che si impone con la forza.

Si potrebbe  osservare  che quella della Liberazione è stata nient’altro che una delle tante guerre civili nei secoli,  in cui alla fine una parte ha prevalso sull’altra, dettando a quel punto valori, lettura della storia, nuove forme sociali e politiche, fissando anche  nuovi riferimenti culturali, nuove  celebrazioni e perfino “liturgie” pubbliche. Insomma: niente di diverso dalla consueta dinamica vincitori/vinti, con i primi a stabilire le nuove regole del gioco e i secondi costretti alla “damnatio memoriae”. Vero. Se non fosse che ci sono stati uomini e donne, tanti, che al contrario hanno vissuto questa lotta come riproposizione dello scontro atavico tra il Bene e il Male; e, fra di loro,  alcuni lo hanno fatto con una forte ispirazione religiosa concretamente cristiana, incarnata e “attualizzata” in quel momento;  decidendo di testimoniare e di sacrificarsi personalmente  sulle orme e in nome di Gesù Cristo, alla cui croce hanno aderito con la propria, in uno spirito di offerta e di martirio.

Uno legge le loro storie e non può  che concludere di trovarsi di fronte a persone che hanno veramente “fatto Pasqua”, questa volta scrivendola con la P maiuscola, dopo aver avuto la coscienza e la volontà di passare per il Gestsemani e per il Calvario.

 

Teresio Olivelli

 

 

Una eco formidabile di questo modo di vedere, e soprattutto, di vivere le cose, si ritrova della celebre preghiera del ribelle di TERESIO OLIVELLI:

 

Signore,

che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce

segno di contraddizione,

che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito

contro le perfidie

gli interessi dominanti,

la sordità inerte della massa,

a noi,

oppressi da un giogo numeroso e crudele

che in noi e prima di noi

ha calpestato Te, fonte di libera vita,

dà la forza della ribellione.

 

 

Dio

che sei Verità e Libertà,

facci liberi e intensi:

alita nel nostro proposito,

tendi la nostra volontà,

moltiplica le nostre forze,

vestici della Tua armatura.

 

Noi ti preghiamo, Signore.

Tu che fosti respinto,

vituperato,

tradito,

perseguitato,

crocifisso.

Nell’ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria:

sii nell’indigenza viatico,

nel pericolo sostegno,

conforto nell’amarezza.

 

Quanto piú s’addensa e incupisce l’avversario,

facci limpidi e diritti.

 

Nella tortura serra le nostre labbra.

 

Spezzaci, non lasciarci piegare.

 

Se cadremo,

 fa’ che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente

e a quello dei nostri Morti

a crescere al mondo giustizia e carità.

 

Tu che dicesti:

“Io sono la resurrezione e la vita”

rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa.

 

Liberaci dalla tentazione degli affetti:

veglia Tu sulle nostre famiglie.

 

Sui monti ventosi e nelle catacombe della città,

dal fondo delle prigioni,

noi Ti preghiamo:

sia in noi la pace che Tu solo sai dare.

 

Signore della pace e degli eserciti,

Signore che porti la spada e la gioia,

ascolta la preghiera di noi ribelli per amore.

 

Teresio Olivelli  (Capitano degli Alpini ucciso da un kapo a Dachau – Medaglia d’Oro V.M.)

 

Qui, l’intervento di Dio è richiesto e pregato esplicitamente, con invocazioni secondo il linguaggio dell’Antico Testamento – Signore della pace e degli eserciti – e del Vangelo – Tu che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocifisso. E la prospettiva pasquale direttamente evocata: “Tu che dicesti: “Io sono la risurrezione e la vita” rendi all’Italia una vita generosa e severa.

Il cattolico resistente vede il suo destino unito e in prosecuzione a quello di Gesù Cristo. Scrive Olivelli: se cadremo, fa che il nostro sangue si unisca al tuo innocente. Per il credente, quella del sangue versato per  non è “solo” (!) atto di sacrificio personale e totale per un bene collettivo e superiore, come per tutti coloro che hanno dato la vita per la libertà. Ma è rimando immediato e vivo al significato sacramentale , a “ questo  è il mio sangue”  dell’Ultima cena, è risposta concreta all’invito “ fate questo in memoria di me”.

 

Gino Pistoni

 

 

I Ribelli per amore, ciascuno secondo la propria indole e secondo la propria vocazione personale, scelgono e  vivono l’offerta di sé in unione a quella di Gesù nell’orto, in strettissima partecipazione e comunione con lui stesso. Basti pensare a GINO PISTONI, il ragazzo che raggiunge le  formazioni partigiane, ma a patto di agire disarmato, colpito a morte in montagna, mentre cerca di soccorrere un fascista ferito in una azione. Lo ritrovano cinque giorni dopo, morto dissanguato, con accanto il tascapane, sulla cui tela è riuscito a scrivere, con il dito intinto nel proprio sangue: “Offro la mia vita per l’Azione Cattolica e per l’Italia. Viva Cristo Re!

 

Ignazio VIAN

 

O a IGNAZIO VIAN, imprigionato per  mesi, torturato per giornate intere , per poi essere impiccato a un albero di un viale di Torino, che ebbe modo di scrivere con il sangue sul muro della sua cella: «Meglio morire che tradire». Su una pagnotta che venne ritrovata successivamente e che ora è conservata dai familiari incise un brevissimo messaggio per la madre: «Coraggio mamma».

Resistenti. Resistenti ed eucaristici,  questi cattolici della Liberazione.

 La Resistenza non fu che una << rivolta dello spirito >> fatta di dolore e di fierezza contro una aberrante ed allucinante concezione del mondo, della storia e dell’uomo, che veniva a sovvertire i valori supremi della esistenza, le basi stesse della civiltà umana e cristiana. Proprio per questo noi cattolici, sentiamo vivi più che mai i valori della Resistenza. Perchè prima come Italiani, e sopratutto per coerenza religiosa,abbiamo opposto e vogliamo continuare ad opporre con estrema fermezza alla materia lo spirito, alla dittatura la libertà, al culto dell’odio e della vendetta,l’aspirazione cristiana ad una fraternità di uomini, di classi, di popoli. …. I cattolici aderirono perciò al movimento della Resistenza con un bagaglio ideologico e psicologico ben preciso. Erano in alternativa la dittatura con il suo retaggio di violenze e sopprusi, e la libertà, prerogativa dei popoli che si ispirano ad una civiltà cristiana. Essi scelsero la libertà e fu una strada dura, di torture, di sofferenze e di sangue…  

 “Dobbiamo ancora insegnare che la Resistenza non è finita. Perchè la libertà è un bene che, conquistato si mantiene con una continua vigilanza. Libertà di essere noi stessi nel rispetto degli altri,.La Resistenza ha posto le premesse per un mondo migliore, ci ha indicato che il totalitarismo è una offesa alla dignità dello spirito. Per questo i cattolici celebrano la Resistenza più come un impegno per il futuro che come un ricordo del passato…

Mario Deorsola, Centro Studi Giorgio Catti, https://www.centrostudicatti.it/wp-content/uploads/2017/03/2017-04-04_Mostra01.pdf

 

Renato Vuillermin

 

Relativamente a questo “impegno per il futuro”, che riguarda il nostro oggi, ma sarà centrale anche per il domani e il dopo, vale la pena ricordare le parole di RENATO VUILLERMIN,  giovane avvocato cattolico, militante e popolare che “pagò il suo impegno  con l’emarginazione prima, con il confino politico poi e, infine, con la fucilazione quando le camicie nere da arrabbiate che erano diventarono selvagge. Agli albori del fascismo, ne aveva già individuato le contraddizioni e la pericolosità che denunciò senza rancore ma anche senza timidezza, specie in un Discorso in veste di Presidente regionale piemontese della Gioventù Cattolica Italiana letto a Novara nel luglio 1923. Intervento quasi profetico il suo”

Di questo discorso, ritrovato e ripubblicato di recente, segnaliamo alcuni passaggi che si addicono anche al nostro contesto oderno , in modo particolare alla inconciliabilità tra cattolicesimo e determinate prese di posizione e visioni del mondo e azioni conseguenti. Esse restano antitetiche e inaccettabili per il cattolico, anche se coperte e accompagnate da pubbliche manifestazioni di atteggiamenti formalmente religiosi e devoti.

Venne il fascismo… ha evitato di compromettersi con qualsiasi dichiarazione ufficiale impegnativa, ma, per bocca di autorevoli capi, protesta il suo riconoscimento alla grandezza del Cattolicismo, fa un gran parlare di religione o almeno di religiosità, anche se richiesto non sa che contenuto abbia la sua religione . Passiamo decisamente all’esame della questione che ci assilla: è compatibile il fascismo col Cattolicesimo? Questo è il problema centrale. Risolto questo, poco importerà a noi il sapere se esso, per false concezioni e per tattica, si proclami rispettoso del Cattolicismo o magari anche Cattolico, se dal suo esame ne avremo rilevato il contenuto anticattolico. È un terreno oltremodo intricato quello che devo percorrere, perché il fascismo non è un partito con programma definito, con una faccia sola, ma un poliedro di diecimila lati diversi e sovente opposti, è un metodo più che altro, una specie di arca di Noè, in cui omne genus animalium è dominato dalla superiorità di chi ha esplorato molti ed opposti campi ed è più attività che pensiero.

Vuillermin  nota innanzitutto come il fascismo, dopo un periodo di ostilità e poi di ambiguità, si stesse rivolgendo ai cattolici in modo equivoco e strumentale: una mera patina di religiosità esteriore (“una fungaia di parole a tinta religiosa, in una coreografia a tinta mistica”) per conquistare l’appoggio politico dei cattolici e svuotarli  così dal loro interno. Questo potrebbe portare a far sì che la Chiesa diventi serva del potere fascista, “carica di onori e d’oro ma serva”. Un rischio sempre vivo nella storia, tra le alterne vicende, quello di una Chiesa che si metta al servizio, non del Vangelo, ma dei valori dominanti del potere di turno.

Una precisa condanna del fascismo,la sua,  che non ha avuto bisogno di attendere le “leggi fascistissime” del 1925-26, né l’asse Roma – Berlino del 1936, né le leggi razziali del 1938, né l’entrata in guerra nel 1940, per cogliere l’assoluta inaccettabilità della sua ideologia e della sua azione. Un discorso ammirevole, che conserva tutta la sua attualità, non solo contro i fascismi storici, ma anche contro le tentazioni nazionalistiche, imperialistiche, assolutistiche e violente (guerra compresa) che potrebbero esercitare un certo perverso fascino anche sui cattolici di oggi. (Paolo Milani)

https://www.sdnovarese.it/wp-content/uploads/2022/10/Il-metodo-fascista-incompatibile-con-il-Vangelo.pdf

 

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I materiali utilizzati per la stesura dell’rticolo provengono dalla consultazione di alcuni siti che ringraziamo:

  • https://www.anpisondrio.it/wp-content/uploads/2016/11/TERESIO-OLIVELLI.pdf
  • https://www.centrostudicatti.it/
  • http://www.sdnovarese.it/
  • https://www.isacem.it/