Nazaret, follia di Dio

Scritto da MARIA NISII.

 

«qui ci sono stati eroi, e santi e martiri… A guardarla, questa cittadina non è che un grappolo di case raccolte lungo poche strade, una piccola schiera di edifici di mattoni con negozi, un silo per cereali e un serbatoio idrico con la scritta ‘Gilead’ sul fusto, e l’ufficio postale e le scuole e i campi da gioco e la vecchia stazione ferroviaria, che ormai è bell’è coperta d’erbacce. Ma che aspetto aveva la Galilea? L’aspetto di un posto che non dice un gran che» (M. Robinson, Gilead).

Per parlare della cittadina attorno a cui ruotano i personaggi della vicenda, il narratore, che di quel luogo è il pastore, fa riferimento alla Galilea. Due luoghi che egli associa per destino di grandezza e apparenza di mediocrità. Il riferimento all’irrilevanza della Galilea è significativo non solo per il personaggio letterario di Marilynne Robinson che si esprime in un linguaggio intriso di richiami biblici, ma anche per John Meier, biblista e autore di una delle opere più importanti sul Gesù storico, intitolata appunto Un ebreo marginale.

È un dato teologicamente pregnante che marginalità e irrilevanza connotino il luogo che ha cambiato la storia. La Galilea ai tempi di Gesù era una zona di passaggio, sul confine – “Galilea delle genti” secondo Is 8,23 e Mt 4,15. Lontana dal centro politico e religioso che allora era rappresentato da Gerusalemme con il suo Tempio, la Galilea era una terra mista, la regione più profana della Palestina, attraversata e abitata da circoncisi e incirconcisi.

Tuttavia se la Galilea, per quanto di dubbia fama, è regione nota, non si può dire altrettanto di Nazaret. Mai citata nelle Scritture ebraiche né in Giuseppe Flavio o in altri testi antichi, a eccezione del suo riferimento a Gesù, compare nei documenti solo a partire dal III secolo. Alcuni ritrovamenti archeologici ne fanno risalire l’origine all’età del bronzo, ma evidentemente non vi era mai stata ragione per nominarla.

Fontana della vergine a Nazaret

 

Vivevano Giuseppe e Maria in un piccolo paese chiamato Nazaret, terra di miseri e di miseria, in quel di Galilea, in una casa pressoché uguale a quasi tutte le altre, una sorta di cubo sbilenco fatto di mattoni e argilla, povero fra poveri. Invenzioni dell’arte architettonica, nessuna, appena la banalità uniforme di un modello instancabilmente ripetuto. (José Saramago, Il Vangelo secondo Gesù Cristo)

Nel vangelo di Giovanni troviamo due allusioni attestanti i sospetti che emergono su Gesù per via delle sue origini: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?»(1,46), dice infatti Natanaele quando Filippo gli racconta di aver trovato colui di cui parlano le profezie. «Il Cristo viene forse dalla Galilea?…» (7,41) dicono di lui a Gerusalemme dopo le parole di Gesù sull’acqua viva. Le insinuazioni lasciano facilmente intuire quanto i natali pesassero in termini di attesa messianica.

 

 

Francisco de Zurbatan, La casa di Nazaret (XVII sec)

 

Derivavi da Nazaret e ciò, secondo il modo di pensare di allora, non era proprio una fortuna. Si diceva infatti che quel remoto villaggio, pur essendo in tutto simile ad altri remoti villaggi della terra d’Israele, avesse prerogativa di non produrre eventi o personaggi memorabili: può forse venire qualcosa di buono da Nazaret? (Giuseppe Berto, La Gloria)

Una storia inventata non avrebbe mai fatto nascere il Messia in una terra a tal punto insignificante. Come minimo l’atteso sarebbe dovuto provenire dalla città di Davide, Betlemme – come infatti i due vangeli dell’infanzia fanno in modo di farlo nascere, perché si adempiano le profezie. Il che conferma il dato teologico di cui sono portatori. Quanto a eludere il riferimento a Nazaret non è pensabile, al pari di tutti gli altri tratti conservati nonostante l’imbarazzo che possono causare, ma che d’altra parte ne conferma pure la storicità.

 

 

Cripta nei dintorni di Nazaret che si vuol identificare come casa di Gesù

 

Nazaret di Galilea, la città dove Gesù crebbe, è oggi piena del frastuono dei mercanti e dei turisti. Se però si osserva bene dietro questo chiasso, in questa città circondata da colline con oliveti, cipressi e pini marittimi, si scopre ovunque una vita di miseria. Sui due lati delle viuzze, solcate da scoli di acqua lurida, addossate le une alle altre si allineano piccole case e botteghe buie… Per il popolo giudaico all’epoca di Gesù non era niente più di un villaggio di campagna senza alcun interesse e la vita di quelli che vi abitavano doveva essere certo più povera di quella attuale. Le case del popolino erano imbiancate di calce e si riducevano a piccole celle buie con una sola finestra. Oggi a Nazaret rimangono ancora alcune case di quell’epoca e osservandole possiamo immaginare in che tipo di abitazione abbia vissuto Gesù.( Endo Shusaku, Vita di Gesù)

Che la storia dopo di Lui sia proseguita altrove, preferendo il centro alle periferie, è storia tutta umana. Dio invece adotta criteri diversi, prediligendo una terra pagana e lontana dai luoghi del sacro, rivolgendosi a una giovane popolana dal cui assenso sceglie di far dipendere il suo progetto. E con questi ingredienti di scarsa qualità anche narrativa ha scritto la sua storia nel mondo degli uomini.

 

 

Casa di Maria a Nazaret

 

“[…] il testo mira a comunicare la convinzione che il progetto divino, sebbene ineluttabile, si realizza soltanto per il tramite di ciò che si definisce la riluttanza umana… si potrebbe dire che una teologia che mette a confronto l’inevitabilità del progetto divino con la riluttanza delle azioni e delle passioni umane è una teologia che genera il narrativo, o meglio una teologia che indica la modalità narrativa come la sua principale modalità ermeneutica”.

Secondo Paul Ricœur, il progetto divino si realizza dentro la contingenza delle libertà umane. Una donna semplice di una località sperduta (Maria di Nazaret) si rivela più affidabile di un sacerdote del Tempio di Gerusalemme (Zaccaria). Un paradosso accettabile solo in quanto dato di fatto, storia (Storia), racconto. Ed è così come si è realizzata che questa storia fonda la rivelazione cristiana, esprimendo la natura intrinsecamente narrativa della teologia. La salvezza sta infatti nel racconto – extra fabulam nulla salus. E siccome il racconto genera imitatori, tanto più se si tratta di un racconto eccezionale, altrettanto eccezionale dovrà allora essere il suo riscrittore.

La mia vocazione, intravista ben chiaramente tante volte, è la vita di Nazaret…

Desidero seppellirmi fin da ora nella vita di Nazaret come egli si seppellì per trent’anni, facendo per quello che mi è possibile tutto il bene che lui faceva, senza cercare di fare ciò che lui non cercava di fare…

 

Mio Gesù,…La tua fu una vita di abiezione: sei sceso fino all’ultimo tra gli ultimi posti. Hai vissuto coi tuoi genitori a Nazaret, per vivervi della loro vita, della vita dei poveri operai, del loro lavoro. La tua vita fu come la loro povertà e la loro fatica; essi erano sconosciuti, e tu sei vissuto all’ombra del loro nascondimento. Sei stato a Nazaret, piccola città sperduta, nascosta tra le montagne, da cui «niente usciva di buono», ritirato dal mondo, lontano dalle grandi capitali: e tu sei vissuto in questo ritiro. Eri sottomesso ai tuoi genitori: la tua vita fu una vita di sottomissione filiale: essa fu quella del modello dei figli, vivendo tra un padre e una madre poveri operai.

Se c’è qualcuno che ha preso sul serio la marginalità di Nazaret al punto da farne il centro della propria spiritualità, quello è stato Charles de Foucauld, mistico e beato di origine francese, che sceglie di vivere la vita nascosta di Gesù nella sua città:

Tale circostanza mi permise di conoscere Nazaret, luogo scelto da Dio per il suo apprendistato delle cose umane e da me per apprendere le cose divine (Pablo D’Ors, L’oblio di sé).

Pablo D’Ors, che ne racconta la storia in forma romanzata inprima persona, si sofferma sul ritratto della sua santità di folle di Dio. Perché è in questa categoria che releghiamo tutto quello che non risulta comprensibile alla mentalità comune. Il beato Charles è stato un folle per la sua radicalità evangelica. Per questo Nazaret è stata la cifra simbolica del suo cammino di imitatore di Cristo. Follia e paradossi fondano questa storia unica, ancora incomprensibile e inaccettabile per gli uomini, che alla Nazaret insignificante e mediocre hanno sempre preferito i luoghi del sacro.Nazaret, follia di Dio, ha però trovato i suoi riscrittori, coloro che l’hanno raccontata con la loro vita nascosta, piccola, marginale. Riscrittori con la vita, semplicemente cristiani.

 

 

 

 

 

 

L’incontro di due madri

Scritto da  NORMA ALESSIO.

“[Maria] entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta” (Lc 1,40)

 

L’evento dell’incontro tra Elisabetta e Maria, comunemente conosciuto in Occidente come la “Visitazione” e in Oriente con il termine greco“Aspasmòs”, cioè “saluto”, “abbraccio”, è riportato solo nel primo capitolo del Vangelo di Luca, ai versetti 39-45. La scena è intesa come l’incontro delle due future madri, che condividono reciprocamente la loro gioia, e allo stesso tempo come l’incontro tra Gesù e Giovanni il Battista che, ancora nel grembo di sua madre, esulta  alla venuta del Salvatore (Lc 1,41-44). Essa suscita sempre un senso di tenerezza e di intima affettuosità per la gioia dell’incontro di corpi e di anime che si sfiorano, si toccano, si abbracciano o si salutano a distanza con le braccia protese, espresso in arte diffusamente, ma con sfumature diverse.

Il tema centrale della Visitazione è appunto la gioia dell’incontro. Le rappresentazioni hanno tutte in comune, ovviamente, le due madri: vicine, in piedi, in atto di abbracciarsi, immagine simbolica del concepimento; non sempre sono sole come sembra nel racconto dell’evangelista: talvolta, gli artisti introducono nella scena anche  Giuseppe e Zaccaria, una o più ancelle o altri personaggi non riportati nel Vangelo. In qualche caso sono evidenziati i mutamenti delle condizioni corporee delle due donne che mostrano il loro grembo gravido: per esempio Elisabetta tocca quello di Maria nello scomparto laterale del trittico dell’Annunciazione (1434)  del pittore fiammingo Roger Van Der Weyden, esposto a Torino in Galleria Sabauda. (1)

 

(1)

 

Talvolta le due donne si salutano con un inchino formale, da lontano. Oppure vediamo che sono rappresentate non alla  pari: Elisabetta, che ha in grembo il piccolo precursore, si mette in ginocchio davanti a Maria, colei che porta il Messia, come nella terracotta invetriata di Luca della Robbia, realizzata intorno al 1445 per la chiesa di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia. Qui  si ha l’opportunità di cogliere, in un interessante rapporto di visione da più punti di vista, il pathos del momento del caldo abbraccio e il contrasto tra il volto anziano di Elisabetta e quello della giovane Maria. (2)

 

(2)

 

Le vediamo rappresentate così anche in provincia di Torino, a Frossasco, nella cappella della Madonna del Boschetto, in un affresco della fine del XV secolo attribuito al Maestro di Cercenasco, nel quale compaiono  nel grembo di Maria ed Elisabetta – cosa strana  per l’arte occidentale – le due piccole figure, in cui si riconoscono Giovanni con le mani incrociate, inginocchiato verso Gesù, il quale sta  ritto, in atto di benedire, in parte coperto dal braccio e dalla mano di Elisabetta.(3)

 

(3)

 

Nella Visitazione ad opera, sembra, di aiuti di Raffaello Sanzio del 1517, ora conservata a Madrid nel museo del Prado (già nella cappella di famiglia Branconio nella Chiesa di San Silvestro a L’Aquila), i ruoli delle due donne appaiono invertiti. Sembra cioè  che Elisabetta sia andata a trovare Maria, in evidente maggiore stato di gravidanza rispetto a lei; sullo sfondo è collocato il Battesimo di Gesù da parte di Giovanni Battista con l’apparizione di Dio tra angeli, quale prefigurazionedel “futuro incontro”.(4)

 

(4)

 

La sintesi assoluta dell’avvenimento è concretizzata da Jacopo Carucci detto il Pontormo nella sua Visitazione (1528-1529), ora collocata nella Pieve di San Michele a Carmignano in provincia di Prato. Nel dipinto vediamo un gruppo di quattro donne inserite in uno spazio delimitato da una quinta muraria da un lato e da un palazzo dall’altro, privi di qualsiasi elemento decorativo. Due donne di profilo, le protagoniste, che si abbracciano e si guardano serenamente negli occhi e due di fronte, a stretto contatto con le altre, che guardano l’osservatore e sono come estraniate dal contesto della scena. Secondo alcuni, dai volti si potrebbero riconoscere le stesse Maria ed Elisabetta, oppure Maria di Cleofa e Maria Salome. Le figure hanno colori astratti e sembrano danzare e ruotare, così che tutta la composizione assume un carattere onirico, estraniata dalla realtà quotidiana. Solo in basso a sinistra vi si scorgono due piccole figure di uomini, una seduta con la gamba accavallata e l’altra in piedi mentre esce da un portone. Chi sono? Forse Zaccaria e Giuseppe, ma le loro caratteristiche sono molto lontane dalla somiglianza con i tradizionali attributi.(5)

 

(5)

 

 

In maniera straordinaria, un artista, l’italo-americano Bill Viola, maestro della videoarte contemporanea, che definirei un riscrittore, reinterpreta in una nuova forma la Visitazione del Pontormo, legando il passato con il presente, cucendo cinque secoli senza forzature, facendo evocare anche allo spettatore la gioia intensa provata dalle due donne in abiti moderni, attraverso la coinvolgente videoinstallazione sonora The Greeting, presentata alla XLVI Biennale di Venezia del 1995. La scena è trasmessa a velocità rallentata e la breve concatenazione di gesti compiuti dalle attrici fa dialogare arte del passato e arte contemporanea. Concordo con l’opinione del giovane artista e critico d’arte Giuseppe Alletto, secondo il quale “Viola cattura lo spirito del Pontormo e lo fa rivivere alla luce della contemporaneità, intensificando gesti, movimenti ed emozioni dei personaggi, i quali vengono spogliati della loro simbologia religiosa, ricontestualizzati in una nuova dimensione e resi perciò esemplari” e ancora rappresenta “l’emozionante visione di un incontro che, sospeso in un’atmosfera senza tempo, diviene metafora universalmente poetica delle più semplici e genuine affezioni umane”. Aggiungo però che permane il senso sacro della scena proprio perché accanto al suo video è sempre presente il dipinto originale da cui trae ispirazione: è la dichiarazione precisa di voler attualizzare un evento miracoloso del passato, per azzerare il tempo umano, convenzionale e limitato.

 

Rimanendo sempre nel campo delle nuove forme espressive maggiormente tecnologiche, come il cinema, mi colpisce un’immagine/fotogramma riferita a questa scena evangelica, che compare di frequente in diversi blog e siti internet religiosi, quella tratta dal film The Nativity story del 2006 diretto da Catherine Hardwicke, scenografa, regista, sceneggiatrice e produttrice cinematografica statunitense. L’immagine della foto risulta molto efficace, con le due donne nell’istante altamente significativo, che bene esprimono la loro gioia con intensità e realismo capaci di suscitare emozioni che spingono alla riflessione. L’attrice che impersona Maria, Keisha Castle-Hughes, sedicenne al tempo delle riprese del film, rivelò di essere incinta proprio in quel momento!

Catherine Hardwicke spiegò come «Lo sforzo maggiore nel realizzare Nativity è stato rendere questa storia il più umana e reale possibile».

 

Il “Dies irae” di Macbeth

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

Ancora non si e’ spenta l’eco dell’ inaugurazione della stagione lirica della Scala di Milano, dove quest’anno è andata in scena una bellissima rappresentazione del MACBETH di Giuseppe Verdi. Un’opera dalla  trama gotica e baluginante, che mescola sete di potere personale e guerre, omicidi a catena e vendette: il tutto sulla pelle di un popolo oppresso. Una vicenda fosca e crudele a metà tra la tragedia greca e la saga nordica, metafora di tante tirannie sanguinarie ricorrenti nella storia. Un quadro ed  un contesto da cui la dimensione religiosa sembra essere del tutto assente.

Eppure,  a ben vedere, non è così. In quest’opera ci sono alcuni elementi che riecheggiano questioni familiari ad un cristiano, anche se portate su altri piani. Per esempio,  il tema centrale  di Genesi, quello del peccato per antonomasia : l’uomo che vuol fare di se stesso l’arbitro del bene e del male. Come nell’Eden, anche qui abbiamo una coppia che, in complicità e simbiosi, decide di volere di più, di volerne in modo sempre crescente, fino a travolgere ogni regola e a imporre  se stessa e la propria volontà su tutto. Anche qui c’è una donna a fungere da elemento ispiratore e trainante. La si potrebbe dire una tentatrice, se non fosse che Macbeth non ha alcun bisogno particolare di essere tentato, decisamente incline come è, di suo, alla ambizione più sfrenata e cinica. Un  maschio  certamente violento, apparentemente potente, in realtà  fondamentalmente debole e pauroso,  succube della sua Lady, più lucida, consapevole e vigorosa di lui.

Ci si imbatte poi nel tema del tradimento che conduce alla perdizione totale: un po’ come Giuda il traditore, che  finisce per essere schiacciato dal rimorso, entrambi i Macbeth, imboccata la loro china scellerata di delitti, pèrdono da subito e progressivamente la pace, il sonno, la ragione e la stessa vita.

Infine, sullo sfondo, c’ è il tema della collera divina:  qui vaga, misteriosa, eppure ineluttabile. Tremenda conseguenza   delle proprie azioni colpevoli. Come Dio creatore interviene e caccia la coppia dei progenitori dal paradiso terrestre, così la parabola dei Macbeth termina nella “cacciata” dalla vita dei due disgraziati, spazzati via non solo dal tempo delle loro esistenze, ma anche dalla Storia che si erano illusi di dominare e conquistare con i loro complotti sanguinari.

Dunque: superbia e peccato, scelta del male e ribellione che conduce alla rovina, tradimento e follia, giudizio e vendetta di Dio. Religiosamente parlando, tanta roba; specie per una dark story completamente laica, in più   condita con superstizioni, streghe, magia nera, e  due perfetti  amanti diabolici a far da primattori. Il fatto è che ancora una volta, pur in un contesto che non si preoccupa per nulla della religione, questa finisce con l’emergere in controluce, rintracciabile nei meandri e negli snodi della trama e dei personaggi.

Ci sono poi due momenti specifici in cui il religioso irrompe direttamente a (ri)prendersi  la scena e a (ri)portare l’ordine ( divino? naturale? etico?) nel caos  generato dalle scelte criminali dei protagonisti. Uno lo incontriamo nel  finale del primo atto: si è consumato il regicidio per mano di Macbeth spronato dalla moglie, e il delitto viene scoperto da Banco e portato alla conoscenza di tutti, in una drammatica rivelazione pubblica.  Anche la coppia omicida, che finge di essere estranea al fatto, è presente. Tutti quanti, di fronte al cadavere ancora caldo del re ammazzato, levano una preghiera al cielo.

Schiudi, inferno, la bocca, ed inghiotti nel tuo grembo l’intero creato; sull’ignoto assassino esecrato le tue fiamme discendano, o ciel. O gran dio, che ne’ cuori penetri, tu ne assisti, in te solo fidiamo; da te lume, consiglio cerchiamo a squarciar delle tenebre il vel! L’ira tua formidabile e pronta colga l’empio, o fatal punitor; e vi stampa sul volto l’impronta che stampasti sul primo uccisor.”

 

 

Come si vede è una preghiera livida, maledicente, una invocazione al giudizio e alla condanna, una messa in scena letterale del “ gridar vendetta a Dio.”

Questo dio vindice – che anche i due assassini complici, per non destar sospetto, invocano a gran voce insieme agli altri – da quel momento  incombe su di loro. Dapprima implicito: nei sensi di colpa, nei deliri, nella insonnia, nella pazzia. Per poi esplicitarsi, per dir così, al momento della  fine dei due, e nella sconfitta  e nella uccisione  di Macbeth, ormai chiamato da tutti solamente  l’usurpatore. Questi, poco prima di morire, ha il tempo, se non di pentirsi, perlomeno di prendere consapevolezza del male fatto, dell’ avidità di potere che lo ha scatenato, e della vendetta di Dio ormai alle porte. Difatti canta, morendo:

Mal per me che m’affidai ne’ presagi dell’inferno!… Tutto il sangue ch’io versai grida in faccia dell’eterno!… Sulla fronte… maledetta sfolgorò… la sua vendetta!… Muoio… al cielo… al mondo in ira, vil corona!… e sol per te!”

 

 

Così, il dio vindice di Verdi, invocato dal coro nel finale del primo atto, torna ad essere evocato dallo stesso coro alla fine dell’opera, in due distinte strofe:

Macbeth, Macbeth ov’è?… dov’è l’usurpator?… D’un soffio il fulminò il dio della vittoria, cantano i bardi.

E  le donne rispondono  “ Salgano grazie a te, gran dio vendicator; a chi ne liberò inni cantiam di gloria

Che dire? Che  è un Dio molto lontano dalla sensibilità religiosa odierna, ma decisamente in linea  con quello creduto nell’ottocento verdiano. Basta pensare  per esempio alle parole  del “Dies irae”, l’inno che accompagnava le esequie cristiane ( e lo ha fatto fino al Concilio) e che così recitava, tradotto in italiano:

Giorno d’ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e di sterminio, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nubi e di oscurità, giorno di squilli di tromba e d’allarme sulle fortezze e sulle torri d’angolo

Toh, guarda. Eccolo qui, il dio vindice del  Macbeth.

 

Hans Memling, Giudizio Universale (dal “Trittico di Danzica”, databile 1467/1473)

 

__________________________________

  • Il video del finale del primo atto, ” Oh gran Dio“,  è da : The Metropolitan OperaVerdi’s “Macbeth,” starring Maria Guleghina (Lady Macbeth), Željko Lučić (Macbeth), and others. Conductor: James Levine. Production: Adrian Noble (2007). Clip taken form the 2008 Live in HD transmission.
  • Il video della morte di Macbeth, ” Mal per me “, è tratto dalla messa in scena del 2017. Baritono: Giuseppe Altomare, Direttore: Gabriele Ferro, Regia: Emma Dante
  • In copertina, Luca Salsi in scena.

 

Quando il titolo diventa importante

 

Scritto da  NORMA ALESSIO.

Se osserviamo un dipinto con soggetto tratto dalle sacre scritture e non ne conosciamo il titolo, cercheremmo di identificarlo ricorrendo alle nostre conoscenze sull’iconografia cristiana.

 

 

Se ci trovassimo davanti al famoso quadro qui riportato di Paolo Caliari detto il Veronese, realizzato nel 1573, oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, difficilmente riusciremmo a darne un titolo: sicuramente diremmo che è un banchetto, ma quale dei quindici pasti raccontati da Gesù nei Vangeli? Veronese dipinse una serie di Sacre Cene in complesse scene di vita veneziana del Cinquecento, dove fece trapelare l’evento sacro rappresentato in aperta rottura con la tradizione iconografica precedente. Cerchiamo allora di analizzarne il contenuto e individuarne quello corretto: vuol dire cioè capire chi sono i personaggi raffigurati e quali fossero state le intenzioni dei committenti e dell’artista.

Iniziamo dalle fonti storiche relative all’affidamento dell’incarico a Paolo Veronese – da parte del domenicano padre Andrea de’ Buono, nel 1571 –  di dipingere nel refettorio del convento dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia una “Ultima Cena” che sostituisse quella precedente di Tiziano distrutta da un incendio. In quel momento storico, in un clima di forti contrasti tra i domenicani divisi tra conventuali, presenti nel convento, e osservanti, che richiamavano il rispetto della regola originaria con l’abbandono di privilegi e concessioni. Questo contesto deve aver condizionato la scelta dell’artista e i contenuti del dipinto. Il refettorio per i monaci è riconosciuto quale luogo di meditazione in cui c’è il rispetto del silenzio e l’obbligo dell’ascolto della Parola di Dio durante il pasto. Veronese affrontò il tema dell’ultima cena da un punto di vista molto innovativo e particolare. Il risultato è un’apparente festa mondana che non ha nulla della canonica sacralità e intimità dell’Ultima Cena descritta nei Vangeli e limitata ai soli apostoli, così come interpretata nella pittura precedente. Originale riscrittura di Ultima Cena: troppo affollata, confusa e, in più, senza tracce dei necessari segni eucaristici del pane e del vino. Sebbene fosse uno dei momenti salienti della vita di Gesù, quello in cui sta per congedarsi dai suoi discepoli e svelare il tradimento di Giuda, l’attenzione non è concentrata sulla tavola dove sta Gesù, ma è distratta da altre scene collaterali che non hanno niente a che fare con la vicenda biblica. Contestualizzando il momento storico, Veronese opera nel periodo della Controriforma, quando la Chiesa, dopo la Riforma Luterana, era chiamata a rivedere profondamente la sua modalità di comunicazione anche attraverso le immagini e agiva sulle eresie attraverso il Tribunale Ecclesiastico. Paolo Veronese proprio per questa sua opera venne processato per alcune sue eccessive “libertà” nella raffigurazione. Egli non accettò le richieste di modifiche al dipinto, difese il suo operato coraggiosamente, motivando le proprie scelte di artista: dapprima appellandosi all’autonomia che gli artisti e i poeti si prendono per dare sfogo alla loro creatività, rivendicando il diritto a mostrare la realtà secondo la sua sensibilità; poi, analizzandole, spiegò la presenza e la disposizione di alcune figure contestate dall’organo religioso. Alla fine si chiese a Veronese di indicare un titolo che si potesse adattare a quella cena considerata indecorosa e che non presentasse i caratteri identificativi dell’ultima cena. Scelse il “Convito in casa di Levi”, quello riportato in Luca 5,28-29, in cui Levi, o Matteo, invita Gesù a un banchetto, subito dopo essere stato chiamato fra gli apostoli, per il congedo dai suoi amici. Veronese lo dovette scrivere nel dipinto, per chiarire quale fosse l’episodio, come una sorta di dichiarazione, diviso sui pilastri che limitavano le balaustrate delle due scale, sopra la data 20 aprile 1573, giorno in cui l’opera era stata effettivamente consegnata: “FECIT D[OMINO] CO[N]VI[VIUM] MAGNU[M] LEVI” cioè «Levi fece un grande convito per il Signore» completata sul lato opposto dal riferimento al passo evangelico: Luca, capitolo 5. Questo, a quanto pare, è stato l’unico intervento, confermato anche dalle indagini diagnostiche durante il restauro dell’opera, in cui sono state evidenziate solamente tracce di pentimenti in fase di esecuzione e non modifiche successive.

Dopo queste premesse, osserviamo l’opera nel dualismo della validità dei contenuti dei due episodi: è una cena (da notare il buio sullo sfondo) dove l’intera composizione si svolge suddivisa in tre parti.

 

 

Al centro, sta Gesù, col capo circondato da un alone di luce chiarissima, intento a dialogare con l’apostolo Giovanni, seduto alla sua sinistra; ai lati Andrea e Giacomo, concentrati ad osservare il gesto di Pietro che è seduto alla destra di Gesù, intento a staccare una coscia dell’agnello. Le altre figure, tutte maschili tranne una donna di ridotte proporzioni, organizzate in due gruppi, sono ritratte negli atteggiamenti allegorici più disparati e contrapposti dalla sinistra alla destra: conversano con altri convitati, si guardano intorno distrattamente o bevono vino, mentre i servi affaccendati servono in tavola. Sul lato opposto del tavolo centrale, stanno seduti, rivolti verso l’osservatore (i monaci a pranzo), due uomini: uno con abito e berretto rosso (un monaco conventuale e/o il fariseo?) e l’altro a testa scoperta (il monaco osservante e/o lo scriba?), che appaiono completamente disinteressati. Ai piedi vi sono anche due cani riferibili al simbolo dei domenicani, dal latino domini canes, cani del Signore, ossia difensori della verità che azzannano gli eretici.

Al tavolo possiamo ancora vedere due figure dai comportamenti opposti: a sinistra, tra le due colonne, un commensale che fa un uso improprio della forchetta stuzzicandosi i denti, mentre sulla destra un nobile con la salvietta sulla spalla, che impiega coltello e forchetta.

Allontanandoci ancor di più dal centro, tre personaggi scendono le scale. A sinistra, appoggiato alla balaustra, un servo che, sanguinando dal naso, s’è macchiato il colletto; a destra due soldati (lanzichenecchi), probabilmente tedeschi, intenti a bere.

I personaggi contestati dal tribunale e incongrui alla narrazione sono: il servo colto da epistassi, con le domande: “che significa la pittura di colui che li esce il sangue del naso […], i soldati, quelli armati alla Thodesca?”; il buffone ubriaco con il pappagallo? e poi…l’azione di Pietro a spezzare l’agnello invece di Gesù? Maria Elena Massimi, storica dell’arte e docente di teologia sacramentaria, autrice del libro “Cena in casa di Levi di Paolo Veronese. Il processo riaperto” -Venezia 2011- si interroga a proposito del dipinto, su che cosa si stia guardando e prova a considerare nei dettagli la scena del quadro confrontandola con le possibili occasioni conviviali di Gesù presenti nelle scritture, dove vi sono particolari che permettono una facile identificazione. Il risultato è che riconosce plausibile, pur rimanendo un mistero, che si tratti di una Cena Ultima avvenuta in casa Levi vista la scritta, ma più probabilmente di una Cena in casa del fariseo, sulla base del brano del Vangelo di Luca (11, 37-54) in cui Cristo attacca l’ipocrisia degli scribi e dei farisei. Effettivamente questo poteva essere stato un modo con cui i domenicani conventuali veneziani e Veronese denunciavano l’ambiguità della Chiesa del loro tempo e la contrapposizione tra il buono e il cattivo chierico.

Ancora curioso è che il personaggio vestito di verde, collocato alla sinistra, sia proprio Paolo Veronese, come è stato identificato da qualche studioso. L’ambiguità interpretativa continua a permanere!

 

Verità molteplice

 

 

Scritto da  MARIA NISII

I vangeli, 4 e dunque plurali, ci offrono una verità da riconoscere, un cammino di ricerca e interpretazione, dunque un lavoro sempre in itinere e non certo dato una volta per tutte, fissato e statico.«La Scrittura cresce con chi la legge», diceva infatti Gregorio Magno.

Tra i tanti modi che potremmo adottare per dare ragione della molteplicità evangelica è parlare di quattro posizionamenti cognitivi, ovvero 4 punti di vista. Per alcuni troppi, per altri mai abbastanza trattandosi di Gesù. È forse per questo che Kahlil Gibran in Gesù figlio dell’uomo ha adottato ben 77 voci per raccontare Gesù, attraverso il punto di vista di moltissimi personaggi: alcuni noti, altri inventati, amici e nemici, contemporanei alla vita del Gesù storico e uomini che prendono la parola da tempi successivi. Ma 77 non saranno troppi e non ne sortirà fuori qualcosa di frastornante? E poi, quale ritratto sarà mai possibile delineare a conclusione?

Dare la parola ai personaggi (uno o più) è una modalità narrativa che consente l’accesso alla storia mediante il filtro di una soggettività umana, una possibilità alternativa al racconto del narratore esterno in terza persona, che dona al lettore l’illusione di una versione oggettiva e attendibile dei fatti. La narrativa moderna ci ha però insegnato a diffidare della possibilità che un solo racconto possa tradurre la complessità del reale, preferendo sottolineare la frammentarietà di ogni prospettiva. Questa presa di coscienza è evidente in un saggio di Henry James:

«La casa della narrativa non ha una finestra sola ma un milione – un numero quasi incalcolabile di possibili finestre, ognuna delle quali è stata aperta, o è ancora apribile, sulla sua vasta facciata, dalla necessità della visione e dalla pressione della volontà individuale. Queste aperture, di forma e misura dissimili, danno tutte sulla scena umana, sì che ci si potrebbe aspettare, da esse, una identità di riproduzione maggiore di quella che troviamo. Esse sono, nel migliore dei casi, finestre o altrimenti meri fori in un muro morto, sconnessi, collocati in alto; non sono porte coi cardini che si aprano direttamente sulla vita. Ma hanno questa caratteristica, che ad ognuna di esse c’è una figura con un paio d’occhi, o almeno con un binocolo, che costituisce uno strumento unico d’osservazione e che assicura a chi ne fa uso un’impressione distinta da ogni altra. Lui e i suoi vicini osservano lo stesso spettacolo, ma uno vede di più là dove un altro vede di meno, uno vede nero là dove un altro vede bianco, uno vede grande là dove un altro vede piccolo, uno vede rozzo là dove un altro vede delicato. E così via di seguito; fortunatamente non è dato dire dove, per un particolare paio d’occhio la finestra non si possa aprire […]. Il campo che si estende, la scena umana, è la “scelta del soggetto”; l’apertura perforata, sia larga, o con balcone, o a fessura, o bassa, è la “forma letteraria”; ma, sia da sola che insieme ad altre, essa non è nulla senza la presenza dell’osservatore – senza, in altre parole, la coscienza dell’artista». (H. James, Prefazione a Ritratto di signora, 1881)

 

 

Se le cose stanno così e le prospettive per osservare la scena umana non sono mai sufficienti né esaurienti, la scelta di Gibran stupisce molto meno. Ognuno dei 77 personaggi prende così la parola come rivolgendosi a un interlocutore esterno (dunque al lettore), per tracciare un carattere, immortalare un ricordo, confidare il proprio turbamento e la sua permanenza nel tempo e nella memoria personale.

Tra i personaggi inventati ricordiamo Assaph, l’oratore rimasto incantato dalle arti retoriche di Gesù: «udendo lui il tuo cuore si separava da te, e vagava in regioni inesplorate. Riferiva una storia, narrava una parabola: nulla di simile alle sue storie e alle sue parabole s’era mai udito in Siria. Sembrava tesserle con le stagioni, come il tempo tesse gli anni e le generazioni» (p. 16).

 

 

 

 

Filemone il farmacista, interessato al suo potere taumaturgico: «Che questo risponda o meno a verità, testimonia comunque il suo potere; perché solo a colui che ha compiuto grandi cose vengono attribuite cose grandi» (p. 21).

Un ricco levita dei dintorni di Nazareth, che si chiede come riconoscere la mano di Dio nella mano di un falegname.

Un pastore del sud del Libano, a cui Gesù ritrova una pecora che aveva smarrito ma che alla fine non ha il coraggio di seguirlo.

 

 

 

 

Tra le figure note spicca Maddalena che torna in tre racconti, l’ultimo dei quali a distanza di trent’anni ed espresso con il linguaggio del Cantico dei Cantici: «Lui non è là, non giace in quella fenditura della roccia dietro la pietra» (p. 188).

 

 

 

 

Pietro, a sua volta in più interventi, appare sbigottito già al primo incontro: «E quando guardai il suo viso la rete mi cadde dalle mani, perché una fiamma si accese dentro di me e lo riconobbi» (p. 23).

Curiosamente alcuni personaggi si fermano sul nostro stesso rovello: «È vero, dichiarò d’essere la via e la vita e la resurrezione del cuore; e della sua verità io stesso sono testimonianza» (p. 99). Nicodemo prende la parola come il più giovane degli anziani del Sinedrio, ma lo fa per tuonare contro gli zelanti della legge che egli paragona a sordi:«Seppelliscano i sordi il ronzare della vita nelle loro orecchie da sordi. Io mi appago del suono della lira che vibrava al tocco delle sue dita, mentre le sue mani, inchiodate, sanguinavano».

 

 

 

 

Perché il ritratto offerto sia il più possibile esauriente, intervengono anche i nemici tra i quali si annoverano i noti Caifa e Anna, ma anche un giovane sacerdote di Cafarnao che lo considera un incantatore del popolino, il logico Elmadam che ne parla come di un mendicante e un ubriacone, Uriah un vecchio di Nazareth che lo ritiene un arrogante e un ciarlatano, Jefta di Cesarea infastidito dal suo ricordo e certo che cadrà nell’oblio. Sulla paura mostrata dai nemici di Gesù si pronuncia Manasseh, uomo di legge di Gerusalemme, il quale sostiene che abbiano trasformato in pericolo un uomo inoffensivo.

L’ultimo intervento è affidato all’uomo che viene dal Libano, diciannove secoli dopo, nel quale in tanti hanno riconosciuto lo stesso autore. La sua voce è critica verso chi ha costruito templi perdare dimora al suo nome, innalzando la sua croce su ogni altura, senza conoscerlo davvero e ambendo invece a far parte della sua corte. Nominato da vescovi e mendicanti, tanti sono saliti su troni in suo nome, «ma tu sei ancora disprezzato e irriso, / uomo troppo debole per essere Dio, / Dio troppo uomo per suscitare adorazione […] ancora percorri questo giorno» (p. 196).Quello dell’istituzione dunque non è più il Gesù della gioia, il liberatore dall’oppressione della legge antica, ma un idolo costruito da mani d’uomo.

 

 

 

 

Il lettore chiude il libro, magari scorre l’indice per ripassare i tanti nomi incontrati e poi si può chiedere (se vuole) quale sia l’immagine di Gesù così composta. Molto probabilmente, alla stregua dei tanti personaggi sulla scena, anche il lettore potrebbe percepire la propria incompetenza a pronunciare un giudizio complessivo, cosciente della sua competenza limitata e del suo essere solo un punto di vista (sic!).

La copertina scelta da Feltrinelli per questo testo di Gibran riporta il dettaglio di un mosaico del mausoleo di Galla Placidia di Ravenna, forse perché – ipotizzo – l’immagine di Gesù qui composta, va colta come un insieme di tessere da mosaico. Questa intuizione non è troppo distante da quella del settimanale americano «Time» che ha dedicato a Cristo la copertina del 15 agosto 1998 con la domanda: «Chi era Cristo? Un nascente filone cinematografico ripropone un’antica questione». L’immagine propone un volto di Cristo formato da trenta tessere provenienti da epoche diverse.

 

 

 

 

L’effetto di tali composizioni è lasciato alla nostra libera interpretazione, di lettori di Scritture e di scrittori di Scritture. La nostra immagine (verità al singolare) andrà sottoposta al vaglio critico delle tante immagini (verità al plurale) di altri. Per un guadagno. Perché non diventi possesso. Perché sia sempre ancora da cercare, indagare, riconoscere.

Nel nome di Ftah: da Aida al Principe d’Egitto.

Scritto da LORENZO CUFFINI.

Cosa possono avere a che fare la grandiosità scenica e la complessità  musicale di un’opera come l’Aida di Verdi e un cartoon  tra i più popolari? E in che modo entrambi possono svelare agganci più o meno diretti ed evidenti alla Scrittura, fino ad evocarla agli occhi dello spettatore?

Quando vidi per la prima volta Il principe d’Egitto, il film di animazione del 1998, e poi tutte le altre innumerevoli in cui l’ho rivisto a casa insieme a mia figlia piccola, e successivamente ancora, i richiami che mi sono venuti alla  mente sono stati tre. Il primo, del tutto ovvio, alla Bibbia: trasposizione della storia di Mosé narrata nel libro dell’Esodo, il film è una vera e propria riscrittura di Scrittura: secondo i canoni del disegno animato. Il secondo, altrettanto diretto, è a I Dieci comandamenti, il kolossal cinematografico del 1956, a cui esplicitamente il prodotto targato Spielberg si richiama. Il terzo, un poco più nascosto e personale,  è  a Giuseppe Verdi e alla sua opera forse più famosa e teatralmente spettacolare, Aida. Come si vede, non è che questi rimandi  siano frutto di chissà quale geniale ispirazione: è l’Egitto dei Faraoni a fare da denominatore comune e  da “navetta” tra i diversi contesti narrativi nella mia mente di spettatore.

La concatenazione delle suggestioni funziona nei due sensi. Non solo da Mosè a Verdi, diciamo, ma anche in direzione contraria. Mi è capitato recentemente di ascoltare l’intera esecuzione di  Aida alla radio,  dunque senza la fascinosa  messa in scena  teatrale, e , giunto a un certo punto, di sorprendermi a pensare a Mosè, che mi è arrivato in  mente  “veicolato” dalle immagini disegnate del Principe, che a loro volta si portavano a rimorchio quelle datate e fragorose del filmone holliwoodiano con tanto di dialoghi epici e tonanti. Il gancio che ha fatto scattare il meccanismo dell’ assonanza e dell’ associazione di idee è stato in questo caso una paroletta, Ptah. Ptah, o Ftah nella sua versione italianizzata, è il nome del dio egizio che viene invocato nella seconda scena del primo atto dell’opera di Verdi: Possente, possente Ftah.

 

 

 

E lo stesso nome (lo stesso dio) è evocato in un’altra scena “sacerdotale”, quella del Principe d’Egitto in cui l’esilarante duo di sacerdoti alla corte del Faraone danno mostra dei loro poteri e dei loro prodigi nella scena Stai cercando solo guai. 

 

 

Non sono in grado di imbastire una dotta trattazione  su una eventuale  vena biblico/religiosa nel laicissimo Giuseppe Verdi, né una lettura comparata dell’antico Egitto nella storia delle regie teatrali e cinematografiche moderne. Molto piu’ terra terra, questa personale triangolazione di citazioni mi  fa toccare con mano, nel mio piccolissimo,  quanto la Bibbia con le sue storie e i suoi personaggi  sia a tal punto impastata nella cultura e nella tradizione occidentale – ben oltre l’ambito della fede – da permearne il substrato più profondo, quello che può affiorare in ogni momento, evocato da un gesto, un’immagine, una emozione, una suggestione, una atmosfera. Constatazione banale, ma con l’autenticità dell’esperienza diretta.  Il che dimostra anche perché, si sia credenti o meno, le storie della Scrittura  continuino a restare a ogni generazione  vive, presenti, in grado di parlarci e dirci qualcosa. Alla faccia  della conclamata secolarizzazione dei tempi o dell’indifferenza   religiosa certificata dalle numerose analisi sociologiche.

_____________________________________

  • La registrazione del brano di  AIDA  è tratta da : Giuseppe Verdi/Aida – Antalya State Opera and Ballet..June 13, 2017, Première.
  • Il brano Stai cercando solo guaiè tratto da IL PRINCIPE D’ EGITTO; nella versione originale si intitola  Playing with the Big Boy ed è cantato in inglese  da  Steve Martin  e  Martin Short. La versione e in italiano è cantata da  Neri Marcoré  e Francesco Vairano.

Con la volpe convien volpeggiare

Scritto da GIAN LUCA CARREGA.

Le metafore sono una risorsa preziosa della lingua, rendono vivace il discorso, alimentano la nostra fantasia. Non c’è neppure da essere eruditi per introdurle nelle nostre conversazioni. “Ho una fame da lupo!”. “Sono stanco come un mulo”. Sono frasi che appartengono ai dialoghi quotidiani e funzionano per convenzione. Non c’è ragione di pensare che un lupo abbia più appetito di un leopardo, né che un husky si stanchi di meno a tirare una slitta. Però una volta che un’associazione si impone, diventa difficile cambiarla. E chi non appartiene allo stesso ambito culturale fa fatica a decifrare queste combinazioni, che spesso si tramandano senza una logica apparente.

La Scrittura appartiene anch’essa a un dato ambito culturale, il mondo del bacino mediterraneo antico, e ovviamente ha tradizioni e metafore di natura locale. Ci sono iraci che si rifugiano tra le rocce e non elefanti in rotta verso la savana. Ma anche laddove gli animali sono gli stessi, possono assumere caratteristiche diverse a seconda dei contesti. In Luca 17,37 Gesù riporta un proverbio curioso: “Dove sarà il cadavere, là si raduneranno le aquile”. Di solito le traduzioni italiane cambiano le aquile in “avvoltoi”, perché noi siamo abituati ad abbinare questi rapaci alla consumazione delle carcasse. Ed è anche possibile che il termine greco aetos includa gli avvoltoi nella famiglia delle aquile per quanto siano biologicamente diversi.

Un problema di identificazione si pone anche a proposito di un altro detto di Gesù in Luca, quando riferendosi ad Erode Antipa dice: “Andate a dire a quella volpe…” (Luca 13,32). Il greco alopex è inequivocabile, ma Gesù non parlava greco e nelle lingue semitiche il termine shual/tha‘la può indicare tanto la volpe quanto lo sciacallo. A quale dei due animali si riferiva Gesù per alludere a Erode? A livello metaforico questo ha la sua importanza, perché se la volpe viene spesso usata come riferimento simbolico per l’astuzia, sia nelle favole greche che negli aneddoti rabbinici, la stessa cosa non può dirsi per lo sciacallo. Ma se Erode non viene preso di mira per l’astuzia, a che cosa dobbiamo pensare come punto di comparazione? Il grande esperto del vangelo di Luca François Bovon ipotizza che il confronto sia – come spesso avviene nella letteratura antica – con il leone. Il leone è il vero predatore nobile, mentre la volpe/sciacallo hanno una potenza trascurabile. Nel finale di questo vangelo si vedrà che Erode non ha lo stesso potere di Pilato, davanti al quale è come una volpe/sciacallo in confronto al leone. Certamente è un’ipotesi stimolante. Ma per restare al contesto del vangelo, possiamo osservare che i versetti successivi di Luca introducono una nuova metafora nell’apostrofo che Gesù rivolge alla città santa: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto!” (Luca 13,34). Leggendo in successione questi testi si ha l’impressione che Gesù intenda proteggere la sua nidiata dagli attacchi che può ricevere e la volpe non è forse la minaccia principale del pollaio? Il contesto, comunque, presuppone che Erode non sia l’unica volpe a minacciare questa covata, ma che tutta l’autorità, inclusa quella religiosa, non faccia gli interessi di chi è debole. Ecco perché devono stare in guardia da questi potenti: quando la volpe predica, guardatevi, galline.

Intellettuali, contadini e rivoluzionari a servizio della Scrittura

Scritto da  DARIO COPPOLA.

 

Ritorniamo sul film Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini per scoprire ancora, oltre alle comparse e agli attori di strada, significativi interpreti di ruoli principali nel capolavoro del regista ispirato dalla Scrittura.

Juan Rodolfo Wilcock recita nell’importante ruolo del sacerdote Caifa, sadduceo e capo del sinedrio. Aggiungiamo ora una tessera preziosa al nostro mosaico di scoperte: Pasolini – che è consapevole della propria non conoscenza del testo di Matteo – compie qui una svista nella scelta degli attori. L’errore, certamente non voluto, balza all’evidenza: Caifa è un sadduceo, ma nella scena precedente che rappresentava l’intervento del sadduceo sul matrimonio in relazione alla resurrezione (Mt 22, 24-33), la scelta del regista cadeva su un altro attore. Nulla di male, senonché quando Pasolini rappresentava, subito dopo, anche il fariseo che chiede a Gesù quale sia il più grande comandamento (Mt 22, 34-39), veniva messo in scena proprio Caifa, che non è fariseo ma sadduceo, interpretato dal nostro Wilcock. La confusione tra farisei, sadducei e altri perdura dunque nella sceneggiatura del film.

 

 

Wilcock è un intellettuale argentino naturalizzato italiano, nato nel 1919 e morto nel 1978: è stato poeta, scrittore, critico letterario e traduttore prestigioso. Conoscitore sopraffino di Kafka, Joyce, Proust, Céline, Borges, amante dell’opera di Genet e anche frequentatore di Moravia, nel film – grazie alla mediazione pasoliniana – diventa parte umana dirimente nella riscrittura della passione di Cristo.

Ecco un’immagine dell’intellettuale precedente il film.

 

L’attore che veste i panni di Giuseppe, nella prima parte del Vangelo, altri invece non è che Marcello Morante, scrittore, critico e giornalista (1916-2005).

 

 

Autore di numerosi saggi e libri di narrativa, egli è proprio il fratello della stessa Elsa Morante.

 

 

E nel film partecipa anche il nipote (allora quindicenne) della scrittrice: Giacomo Morante nei panni dell’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo.

 

 

L’altro figlio di Zebedeo, Giacomo l’apostolo, è interpretato da Luigi Barbini, all’epoca studente alla Sapienza di Roma, un attore impegnato con diversi film ideologici scritti da grandi intellettuali nel suo curriculum vitæ.

 

Barbini recitò infatti per Ugo Gregoretti nel film Le belle famiglie (1964) e poi nel  lungometraggio mitologico La sfida dei Giganti (1965) di Maurizio Lucidi, interpretando Xantos. Sempre nel 1965 lavorò per Federico Fellini in Giulietta degli Spiriti.  In Capriccio all’italiana (1967) Pasolini lo rivolle di nuovo con sé nel ruolo di un burattino nell’episodio Che cosa sono le nuvole, successivamente lo scelse ancora nei panni di un ragazzo alla stazione in Teorema (1968), come soldato lo scritturò per Porcile (1969) e, infine, fu sempre per Pasolini uno degli argonauti in Medea.

 

 

Nel 1968 l’attore aveva già preso parte alla versione televisiva dell’Odissea di Franco Rossi, Piero Schivazappa e Mario Bava. Nel 1969 Barbini recitò ancora in Certo, certissimo… anzi probabile di Maurizio Fondato e in Barbagia di Carlo Lizzani. Nel 1971 prese parte al film Violentata sulla sabbia di Renzo Cerrato, e recitò in La sciantosa di Alfredo Giannetti, con Anna Magnani. Nel 2004 Barbini ha conseguito il Dottorato in Sacra Teologia.

 

 

Il musicista Ferruccio Nuzzo interpreta Matteo, l’autore stesso del Vangelo, riconoscibile in questo fotogramma del film

 

 

 

Rosario Migale, un partigiano protagonista nelle lotte dei contadini calabresi dopo la seconda guerra mondiale, è Tommaso l’apostolo nel Vangelo di Pasolini. Lo riconosciamo ultimo a destra nella foto.

 

 

“Nel maggio del 1945 ritorna nella sua terra, a Cutro, dove diventa immediatamente un leader nella secolare vertenza nel Mezzogiorno, la lotta per il riscatto delle terre da sempre in mano agli agrari”

 

Margherita Caruso, la ragazza di Crotone interprete della Madonna in età giovanile nel film, è poi diventata un tecnico di laboratorio, ma ricorda con orgoglio quel simposio di intellettuali (Siciliano, Gatto, Maraini, Morante, Moravia, etc.) da lei conosciuto durante quegli anni di lavorazione del film.

 

 

E, in ultimo, lo stesso Enrique Irazoqui (1944-2020) è stato un accademico spagnolo.

 

 

 

Pasolini ha riunito tutti loro perlopiù non credenti e laici con tante altre persone anonime in questo cenobio culturale e spirituale per una missione profetica che parte dalla Sacra Scrittura e là ancora ci rimanda.

 

Dopo la fine : “Tu, che sei parte di me”

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

 

Riscrittura inconsapevole (*) novembrina.

Venuti da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate”. (Gv 19, 33-35)

Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”.  Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa“. (Gv 19:26-27)

 

____________________________________________

 

 

(Giovanni,  dopo la deposizione di  Gesù nel sepolcro) :

Finito.Tutto.

C’è un silenzio che non pensavo potesse più esistere. Un buio di notte che spaventa, tanto è normale: adesso che la normalità se ne è andata per sempre dal mio orizzonte.

Ti abbiamo portato nel sepolcro poche ore fa. Tu: la Vita. Tu, che Lazzaro, da un sepolcro come quello, l’hai tirato fuori che già mandava odore forte. Mentre  rotolavano a chiuderti quella pietra immensa, sai che mi ripetevo in testa? Le tue parole di quel giorno: vieni fuori, vieni fuori, vieni fuori. Ma fuori non sei venuto, la pietra è andata al suo posto, il sabato solenne è iniziato e tu sei morto e sepolto.

La testa, già. E’ piena di orrori, e il cuore freddo e vuoto. Perché io ho visto. Io c’ero. Io ci sono stato. Io ho visto e ho tutto inciso nei miei occhi e nel mio spirito: sono pronto a darne testimonianza, e la mia testimonianza è vera. E per quanto sia spaventosa, io so che dico il vero. Ma tra tutte le immagini  delle ore che sono appena trascorse, in questa  Parasceve, una mi resta piantata sopra tutte: le tue braccia nude, lunghe, aperte, anzi  spalancate all’aria, tirate fino allo spasmo e inchiodate su quel legno, a dominare dall’alto  tutto, come larghe  ali insanguinate,  aperte senza volo, sopra di noi, sopra i soldati, sopra i curiosi, sopra la roccia, sullo sfondo di un cielo nero e tempestoso.

Quelle tue braccia spalancate. Rabbi: che cosa ti hanno fatto?

Sono stato a guardarti,  e guardarti, per ore, senza perdere un istante di quei momenti infiniti, ogni respiro tirato via da te con i denti, ogni centimetro del tuo volto sconvolto dal dolore e dagli spasmi. Quando sei finito, quando tutto si è compiuto, quando ti hanno macchinosamente  smontato da quel patibolo maledetto e riconsegnato a noi e all’abbraccio senza fine di tua Madre, ero finalmente sollevato – sì, sollevato! – nell’intravvedere il tuo volto tornato calmo e disteso, pur tra il sangue e i lividi e i linenamenti alterati dalle botte. E, non so come,  tra tutto quello strazio e  quello schifo, improvvisamente ti ho pensato e ricordato felice, potente , in mezzo al vento, come quando comandasti alla tempesta di sedarsi, e gli elementi si placarono all’istante.

Ma ho subito ricacciato via quello come gli altri ricordi: troppo forti, troppo stridenti con la realtà di ora, troppo dolorosi. Adesso risultano una cornice delle cose come sono, quelle che io ho visto, con i miei occhi: perché io c’ero, e io ho guardato tutto. Quella cornice –  vuoi saperlo? – mi sembra che non abbia più senso, né valore, come una roba da gettare via.

Quello che è stato, è stato. Ora che succede? Che succederà? Bisogna dare spazio alle cose a venire. Solo che, per la prima volta dopo tre anni, io quelle cose non le so più, non le so assolutamente, non posso nemmeno immaginarle. Non so nemmeno pensare a  quello che succederà domattina, figurarsi “il futuro”… C’è solo una notte da passare, da qui all’alba. Ma è una notte intera, una notte lunghissima, solitaria, buia, vuota, fredda, senza senso. Ho paura di perdermi, questo solo riesco ad afferrare.

Le tue braccia, spalancate all’aria, in alto sopra di me. Tu, che sei parte di me, resti dentro di me anche adesso che non ci sei più. Anche adesso che tutto è finito, sei tu e tu solo che puoi rompere le tenebre di questa notte e della mia anima e accendere qualche piccola luce in questa mia valle completamente oscura.Tu che mi hai chiamato, hai detto il mio nome  dal mezzo delle tue braccia spalancate: Giovanni! Una piccola traccia, l‘ultima  e sola luce che adesso mi resta, l’ultima insegna accesa prima del nulla senza orizzonte. Tu che sei parte di me, mi hai dato un compito, una missione, per riportarmi a casa.

Ecco: è  tua madre.

A me? Io? E come? In che modo poter essere figlio di chi ti ha generato, di chi ti ha cresciuto, di chi ti ha seguito, di chi ti ha perduto,  di chi ha dovuto vederti  spezzato e ucciso, di chi ha avuto veramente il cuore trafitto dalla spada che le era stata profetizzata tanti anni prima?

Io adesso non sono che vuoto e paura: ogni rumore e ogni silenzio, ogni oscurità e ogni guizzo di fiamma sulla parete di questa notte non sono che una nuova, fortissima, intollerabile paura, che mi secca la gola e mi mette i brividi addosso. Ogni nuova paura alza il fumo negli occhi già ottenebrati, offusca il ragionamento, impedisce l’immaginazione. Le parole non mi vengono, e se vengono cominciano male e non finiscono. Se io riuscissi a parlarti, Rabbi: se ti riuscissi a dire, a spiegare quello che vorrei chiederti. Io, figlio di tua madre. Come farlo? Come cambiare pelle in questo modo? Niente. Buio totale. Notte, dentro e fuori. Una notte intera da passare,  lì fuori. E una vita – una vita intera! – che mi aspetta: nuova, da figlio, e senza di te.

Chiudo gli occhi, e vorrei sparire, vorrei morire come te, vorrei perdermi.

Rabbi: Tu, che sei parte di me, vieni, e sciogli i nodi, le resistenze. Aprimele tu, queste mie mani chiuse. Tu che sei parte di me, scalda il mio cuore gelido, sveglia  di nuovo la mia mente, portami un sogno e fammi la sorpresa di sorprendermi. Tu che sei parte di me: la sola che conta, la sola che voglio, la sola che è viva.

Tu hai scelto, tu hai voluto. Io figlio di tua madre. Lei, madre mia. E ora siamo qui. Soli, noi due. Soli per una notte intera, soli per una vita intera. La guardo, davanti a me, nella penombra: appoggiata al muro, gli occhi chiusi a rivivere ogni cosa, a meditare tutto nel suo cuore. Lei che può dirlo e viverlo davvero,  da sempre e per sempre, e ripeterselo con te davanti agli occhi: Tu, che sei parte di me. E se lo sarà detto, mentre ti prendeva in braccio poche ore fa, nel gesto senza tempo di chi culla, e accoglie e solleva e porta al collo: Tu, che sei parte di me.

E poi, niente. Una pietosa ombra di sonno mi vela  per un attimo, e per un attimo mi anestetizza il cuore. Un’ aria di sogno fuggevole e leggera mi rinfresca, e in quell’accenno di sogno ci sei tu, c’è lei, ci siamo noi. Un tentativo di sorriso mi viene in faccia, ma nel breve sonno è un sorriso vero, caldo, mio e tuo. Tu, che sei parte di me, riesci a farmi sorridere:  anche questa sera, anche questa notte.

Fuori, mi aspetta  una notte intera; fuori, mi aspetta una vita intera.

_________________________________________________

 

 

Tu che sei parte di me

Canzone di Pacifico
Le tue braccia lunghe
Spalancate all’aria
Solo nel vento sei sempre felice
E butta via i ricordi,
Getta ogni cornice,
Lascia spazio alle cose a venire
Fuori… c’è una notte intera
Puoi perderti
Tu che sei parte di me
E lasci fuochi, piccole tracce
Per riportarmi a casa
Tu che sei parte di me
Ultima luce, ultima insegna accesa
E ogni nuova paura
Alza il fumo negli occhi
E le parole cominciano male
E ti riuscissi a dire,
Riuscissi a spiegare
È solo pelle che inizia a cambiare
Fuori… c’è una vita intera,
Vuoi perderti?
Tu che sei parte di me
E sciogli i nodi, le resistenze,
Le mie mani chiuse
Tu che sei parte di me
E porti sogni e mi fai sorprese
Tu che sei parte di me
Soli per la notte intera,
Soli una vita intera
Tu che sei parte di me
E lasci fuochi… piccole tracce
Per riportarmi a casa
Tu che sei parte di me
Ultima luce,
Ultima insegna accesa…
Tu che sei parte di me
E sciogli i fili, le resistenze,
Le mie mani chiuse
Tu che sei parte di me
Stai nei sogni,
E mi fai sorridere (mi fai sorridere)
Fuori una notte intera
(Fuori una vita intera)
____________________________________

 

(*) Riscritture inconsapevoli: canzoni scritte dai loro autori  per motivi e contesti tutti diversi, eppure in grado di rappresentare, almeno a qualche orecchio, un pezzo di Scrittura, che si riscopre lì dentro, come inconsapevolmente richiamata.

 

 

 

 

Una verità bugiarda

 

Scritto da  MARIA NISII.

 

Data la grande proliferazione delle riscritture, è indubbio che ogni autore tenti di adottare una prospettiva propria, possibilmente insolita, scegliendo di posizionarsi in uno spazio meno frequentato, magari attraverso un nuovo punto di vista o individuando una modalità narrativa poco sfruttata.

 

 

Naomi Alderman, scrittrice inglese, vincitrice di alcuni riconoscimenti in ambito letterario, propone un vangelo quadripartito in cui questa volta si viene invitati a guardare la nota vicenda attraverso gli occhi della madre, di Giuda, Caifa e Barabba. Ciascuno racconta il suo vangelo bugiardo, che in quanto tale conterrà poco o nulla del racconto tradizionale. Le quattro versioni hanno tra loro alcuni punti di contatto, quando incontrano il personaggio del precedente vangelo, ma sostanzialmente aggiungono ogni volta dettagli a una storia che non può che risultare diversa se a raccontarla è un personaggio costruito perché non assomigli all’originale. Le quattro storie riguardano soprattutto i loro protagonisti e appena sfiorano la vicenda evangelica. Sono dunque godibili come storie; storie in cui, a un certo punto, si intreccia un’altra storia

 

 

Dei quattro vangeli “bugiardi” fisseremo l’attenzione solo sul secondo, quello di Giuda. Il traditore qui non è morto, ma tale è creduto dal gruppo a cui si è unito all’inizio della vita pubblica di Yehoshua (Gesù), che ha seguito sin da subito diventando uno degli intimi. Dopo la crocifissione, per la necessità di trovare un rifugio lontano da tutti, è diventato un protetto di Calidoro, ricco romano che in cambio gli chiede di animare le serate con i suoi ospiti, raccontando del Dio degli ebrei e dell’uomo che è stato il suo Maestro. Iehuda (Giuda) si presta a divertire il pubblico con abile eloquenza, ma mentre ripete il suo vangelo bugiardo ricorda a se stesso com’è andata «davvero» la storia in un’ampia digressione.

Dopo aver perduto la giovane moglie per febbre, stava perdendo anche il suo Dio quando nel villaggio è arrivato un predicatore. Si tratta naturalmente di Yehoshua, il quale mostra subito di conoscerne la pena: lo riavvicina a Dio, insegnandogli in modo nuovo il comandamento dell’amore. «Quell’uomo, pensò, quell’uomo infervorato e giusto, avrebbe cambiato il mondo intero» (p. 102), si dice Iehuda e da quel momento prende a viaggiare con lui, vedendo il gruppo crescere dopo ogni sosta. Il giovane però non è acritico e da subito si accorge che Yehoshua non guarisce tutti e sempre, ma solo in presenza di una grande folla e un giorno gli chiede come si producano quei prodigi: «Non so in che modo faccio quello che faccio. Quando parlo, i demoni forse ascoltano, ma ciò che accade dopo è nelle mani di Dio» (p. 107).

 

 

Iehuda non può frenare delusione e irritazione non appena si accorge che Yehoshua è convinto di essere il messia atteso. È quindi tra i tanti che seguono curiosi il gruppo che conosce Calidoro, con cui si intrattiene a sufficienza per sentirgli parlare di altri maghi incontrati che, dietro ricompensa, avevano rivelato i propri trucchi. Il dubbio si è ormai insinuato nel suo cuore e quello che continua a vedere non fa che confermarlo. Così resta sconcertato dalla risposta che Yehoshua dà all’uomo che vorrebbe seguirlo dopo aver seppellito il padre ed è disgustato dal desiderio di potere che si fa strada tra i seguaci, persuasi della gloria a cui tutto quello avrebbe condotto.

 

 

Il racconto dell’unzione, riportato nella versione lucana, risulta totalmente stravolto: qui la donna è benestante e probabilmente ubriaca, se non folle, e ogni goccia di unguento viene contabilizzata secondo il bene che non è stato fatto. La risposta che Yehoshua offre in privato alle rimostranze di Iehuda è tuttavia interessante:

«perché insisti a vedere solo con gli occhi? […] Pensi che rimarrò con voi ancora a lungo? ]…] Quando Dio stesso viene sperperato per il mondo intero, credi che importi a qualcuno che un po’ di olio sia stato versato qui per terra?» (p. 125).

Iehuda ha perso fiducia nell’amico, che invece di farsi tramite di Dio, ritiene essere un dio egli stesso. «A nessuno andrebbe detto che è un dio mentre è ancora in vita» (p. 127), sostiene Calidoro che nel frattempo ha reincontrato e che in proposito ha l’esperienza degli imperatori di Roma, di cui è suddito senza esserne succube. È così che scatta la molla del tradimento e mentre l’accampamento dei seguaci si ferma per la notte fuori Gerusalemme, Iehuda fugge al tempio per accordarsi con i sacerdoti, i quali non sembrano aver dato molta importanza al loro movimento: qualche frustata sarà una punizione sufficiente se Yehoshua dichiarerà di non accampare pretese al trono.

Al mattino dell’arresto i discepoli lottano, nonostante l’insegnamento a porgere l’altra guancia – nota Iehuda – né Yehoshua si preoccupa di fermarli. Tutti comprendono l’identità del delatore, costringendolo a seguire i soldati a Gerusalemme. Una volta arrivato al tempio però non può proseguire oltre e dopo aver ricevuto una borsa di denari, va a radersi per dissimulare la nuova identità di romano. Avvicinatosi al luogo dell’esecuzione, quello che era stato il suo amico è ormai allo stremo: «Non avrebbe riconosciuto sua madre, se fosse arrivata in quel momento» (p. 138). E quando lo vede morire è ormai persuaso che non fosse il Messia: era quella la prova che attendeva e ora sa. Qualche giorno dopo si reca alla tomba, perché avrebbe voluto seppellirlo in un luogo che gli è caro, ma il corpo nel frattempo è già stato prelevato da altri.

Finiti i ricordi personali, torna agli ospiti di Calidoro ai quali conclude la sua storia, scherzando: «forse, come l’imperatore Augusto, il mio amico si è già trasformato in un dio nel momento in cui è morto», ma poiché questi si inquietano per il paragone, aggiunge: «proprio come Augusto, che è morto nel pieno della sua maestà e ora regna lassù in piena maestà, temo che il mio amico Yehoshua si trascini ancora dietro la sua croce nell’alto dei cieli!» (p. 139). Tuttavia, consapevole di aver raccontato troppe volte quella storia e che il suo tempo lì sia giunto al termine, si congeda. In viaggio però torna a sentire la voce del Signore: «Le persone devote vorrebbero credere che Dio non si rivolga ai peccatori, che ci si debba guadagnare il diritto di udire la Sua voce. I devoti sbagliano. Dio parla a Iehuda di Qeriot così come parlava a Yehoshua di Nazareth, proprio come avrebbe parlato all’imperatore Tiberio di Roma, se quel sovrano depravato avesse avuto l’astuzia di ascoltarlo» (p. 144).

 

 

L’epilogo, con cui si spengono questi quattro riflettori bugiardi, richiama gli eventi storici, dando conto del piccolo culto che cresce per il nuovo dio, re crocifisso, rifiutato dagli ebrei che per questo sono stati puniti con la distruzione della capitale. Ma la conclusione non è più storica e sembrerebbe mettere in questione l’atto stesso del raccontare:

«I narratori sanno che ogni storia è almeno in parte una bugia. Ogni storia potrebbe essere raccontata in quattro modi diversi, o quaranta, o quattromila. Ogni sottolineatura o omissione è una specie di bugia, che plasma un momento per renderlo un fatto» (p. 276).

È un modo per parlare, narrativamente, di che cosa sia finzione, un carattere che non smentisce il contenuto di verità, senza per questo cadere in contraddizione. Una storia inventata può essere infatti vera su un altro piano rispetto alla mera riproposizione dei fatti, così come lo spostamento del punto di vista dimostra – quello dei quattro vangeli canonici, tutti diversi eppure tutti ugualmente veri, che i quattro vangeli bugiardi vorrebbero beffardamente riprodurre, nella smaccata autocertificazione di falsità. Una dichiarazione di intenti che mette a tema il relativismo prospettico, la sfiducia che una qualche verità possa risiedere nella dispersione delle prospettive e nella diversità irriducibile che rende ogni visione inconciliabile alle altre.

Una tale programma di lavoro risulta tuttavia soprattutto un gioco letterario, che fa pendant con il titolo in cui la «bugia» è elevata a unica possibilità del raccontare. All’interno del testo infatti i riferimenti alla menzogna sono troppo numerosi per essere semplici allusioni, come se ogni personaggio esibisse il carattere finzionale proprio e della storia che sta interpretando oltre che raccontando. Il primo a essere definito «bugiardo» è lo stesso Yehoshua, per bocca della madre che dal figlio si è sentita rifiutata e che ora vuole dimenticarlo. Ma uno a uno sono bugiardi tutti i personaggi, che non si rivelano per quello che sono o che non dicono quello che pensano.

Tanti dei racconti che circolano su Yehoshua e il suo gruppo sono «falsità allo stato puro oppure resoconti curiosamente distorti» (p. 84), sostiene Iehuda dopo aver ascoltato un gruppetto di donne al mercato che bisbiglia qualcosa sui discepoli dispersi dopo la morte del maestro. E lui stesso non può che essere un bugiardo per mantenersi in vita (menzogna è salvezza) nella casa di Calidoro, ma di fatto lo è già stato nel gruppo degli intimi di Yehoshua quando ha dovuto fingere di non essere se stesso, mentre desiderava stare «soltanto con una persona alla quale non dover raccontare bugie» (p. 115). Il vero non è possibile, per quanto resti un’ambizione desiderabile. Il gruppo dei discepoli non vuole udirne le parole, quando Iehuda si preoccupa del pericolo che stanno correndo: lui rappresenta il senso di realtà, gli altri il delirio della gloria-potere. E Iehuda, insieme a loro, «non riesce più a distinguere tra verità e menzogne» (p. 122). Così, tradendo, fa la sua scelta: mente per vivere nella verità, la sua, l’unica possibile. La versione passata alla storia invece, quella con il suo suicidio, è naturalmente una menzogna.

 

 

Perché leggere il vangelo di un bugiardo? Nessun lettore di fiction sarebbe disposto a dichiararsi amante della menzogna. Eppure c’è un credito che anche Naomi Alderman desidera ricevere dal suo lettore, inserendo testi di carattere «storico» nella cornice narrativa: dentro quella storia, dentro ogni storia, c’è menzogna. È questo l’unico modo possibile di raccontare. E la storia (anche la Storia) chiede di essere raccontata. Il narratore onnisciente – qui curiosamente impiegato in luogo della prima persona che meglio si sarebbe prestata all’inganno – fa penetrare il lettore nella coscienza dei suoi personaggi; e il narratore onnisciente non può che raccontare il vero perché tale è (o almeno teoricamente dovrebbe essere) lo statuto epistemologico dell’onniscienza narrativa, che è l’attendibilità. Ma qui colui che tutto sa sceglie di rivelare l’inattendibilità dei suoi personaggi e delle loro storie, seducendo il suo lettore (perché i quattro racconti sono molto coinvolgenti: ben scritti, carichi di sesso e di violenza) salvo poi abbandonarlo nel dubbio. Se si è accettato il patto, si è scelto di sospendere l’incredulità e di credere che l’unica verità possibile sia la menzogna. E allora: menzogna sia!