Citazioni

 

 

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

 I Simpson, la celebre serie culto creata da Matt Groening, sono sempre stati una messe di riferimenti culturali che meritano una visione attenta e approfondita dei loro episodi. Così il mattino in cui Lisa si sveglia e trova un pony nel suo letto può essere un passaggio innocuo soltanto per chi non abbia presente l’analoga scena de Il padrino in cui la mafia fa trovare a Jack Waltz al fondo del suo letto la testa decapitata del suo cavallo preferito.

 

 

Ovvio, perché funzionino i riferimenti devono essere riconoscibili. Gli autori biblici sono spesso consapevoli di far parte dello stesso ambiente culturale dei loro lettori, perciò possono almeno in parte presumere che queste strizzate d’occhio possano essere percepite e apprezzate. La cosa è relativamente semplice quando si tratta di giudei che si sono formati nella stessa tradizione scritturistica che prevedeva il mandare a memoria diversi libri del Tanak, cioè la somma di Legge, Profeti e Scritti, le tre parti che costituivano quello che noi cristiani chiamiamo “Antico Testamento”. Perciò quando Giacomo scrive ai suoi destinatari: “Avete sentito parlare della pazienza di Giobbe e sapete la sorte finale che gli riservò il Signore” (Gc 5,11) può tranquillamente ipotizzare che nessuno avrà difficoltà in questo senso perché si rivolge “alle dodici tribù che sono nella diaspora” (Gc 1,1) vale a dire a cristiani che provengono dalla cultura ebraica. Ma quando Paolo scrive a dei credenti che sono per la maggior parte originari del mondo pagano, può attendersi gli stessi risultati?

 

 

Una risposta sensata può arrivare solo esaminando la distribuzione delle citazioni dell’AT nelle sue lettere. Premesso che il conteggio non è facile, perché non c’è accordo sui criteri che ci portano a stabilire dove ci sia una vera citazione e dove una semplice allusione, prendiamo per buono il computo che troviamo nel Greek New Testament edito dalla United Bible Societies. In appendice sono riportate le citazioni dell’AT suddivise nei vari testi del NT. Da qui scopriamo che i rimandi espliciti all’AT nelle lettere di Paolo (tutte, incluse quelle di paternità disputata, escludendo ovviamente Ebrei) sono 107, ma la loro distribuzione è tutt’altro che uniforme. Infatti Romani da sola ne contiene più della metà, 63. Non è solo dovuto alla maggior lunghezza di questo testo né alla nota complessità dello scritto che deve argomentare molto a livello teologico e quindi ricorrere alla prova delle Scritture. Alla presenza massiccia delle scritture giudaiche contribuisce indubbiamente la particolare costituzione della chiesa di Roma, dove erano presenti in abbondanza dei credenti che provenivano dal giudaismo e quindi erano persone in grado di muoversi a loro agio in questo ambito. La controprova verrebbe dal fatto che le lettere ai Tessalonicesi e ai Filippesi, località dove la presenza di cristiani di estrazione giudaica era più rara, non presentano alcuna citazione.

 

Resta però da spiegare il motivo per cui sul podio delle lettere con più citazioni ci siano le due lettere ai Corinzi, la prima con 17 rimandi e la seconda con 10. Qui si sono verificate delle condizioni particolari, perché gli Atti degli apostoli raccontano che in seguito alla conversione del capo della sinagoga, Crispo, “molti dei Corinzi” giunsero alla fede e si fecero battezzare (At 18,8). In effetti lo stesso Paolo deve avere dato grande peso a questa conversione perché quando ricorda di non avere battezzato molti dei Corinzi annovera Crispo tra le eccezioni (1Cor 1,14), segno che probabilmente non poteva sottrarsi a quest’onere. Diverso invece è il caso dei Galati, la lettera che condivide ex aequo il terzo posto con 2Corinzi. Lì non c’era una presenza giudaica sul posto, ma furono dei missionari giudaizzanti che introdussero le scritture ebraiche e quindi Paolo si trova coinvolto, suo malgrado, in dispute che riguardano la corretta interpretazione della Bibbia.

In conclusione, le citazioni dell’AT rivelano ancora una volta che Paolo fu un pastore attento, capace di commisurare i suoi argomenti alle effettive capacità di coloro a cui si rivolgeva. Sono regole semplici a cui ogni comunicatore dovrebbe attenersi eppure l’esperienza ci fa constatare come spesso siano trascurate.

 

MARI e MARIA

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Poche figure, come quelle di Maria, sono state oggetto di riscritture di ogni tipo nel corso dei secoli. La  Maria del Vangelo, descritta con i pochi versetti essenziali che tutti conosciamo benissimo, ha prodotto così un fiorire di Madonne di ogni tipo; da quelle Bambine alle Vergini delle Annunciazioni e fino alle Pietà; dalle rappresentazioni di umili ancelle alle Regine gloriose, in vario modo incoronate. Il fatto è che, diversamente dagli altri personaggi della Scrittura, Maria è stata protagonista di un costante e monumentale approfondimento teologico e spirituale lungo i secoli, accompagnato allo sviluppo parallelo di una radicatissima devozione popolare,  pronta a cogliere alcuni aspetti di questo approfondimento, e a sottolinearne molti altri autonomamente. Su tutto, naturalmente, ha influito – e influisce come sempre – il contesto culturale, sociale e politico  del momento, che si riflette anch’esso nella versione di turno data della Vergine.

Prendiamo ad esempio il caso della venerazione verso la Maris Stella.

“Tra le tempeste tu guidi il cuore, di chi ti invoca, Madre d’amore.”  

E’ il verso di uno dei canti più noti  della devozione popolare mariana, ed  esprime bene il legame che, nel sentire cattolico comune, si è venuto a creare tra Maria, o meglio, la sua protezione, e le perigliose traversate che possono riguardare ciascuno di noi. E se l’appellativo tra i più antichi con cui la Vergine viene venerata, quello di Stella Maris, con una genesi lessicale controversa e indiretta, fa riferimento al concetto di Stella polare, cioè punto di riferimento e ferma guida per chi la cerca in alto, con il passare del tempo si è affiancato ad esso anche quello più letterale e immediato, di guida e sostegno della gente che va per mare. Questa è la ragione di una devozione particolare che ha preso piede in molte zone rivierasche, fra i pescatori, fra i viaggiatori su nave, tra chi insomma ha a che fare con la grande distesa d’acqua. Da sempre materna e  amica, ma anche pronta a trasformarsi in feroce forza della natura scatenata.

Tra le tante possibili che si potrebbero indicare, ci sono tre rappresentazioni che sembrano perfette per illustrare questa interpretazione specifica data al ruolo di Maria, e i modi diversi in cui è stata declinata.

 

 

 

La prima viene da Valdocco, a Torino, e consiste nella raffigurazione del cosiddetto “ sogno delle due colonne “ di San Giovanni Bosco,  Quello in cui il santo ebbe in visione l’immagine drammatica di una nave (la Chiesa) in mare aperto: e si tratta di acque in cui imperversa una furibonda battaglia senza esclusione di colpi. Don Bosco stesso racconta:

Figuratevi – disse – di essere con me sulla spiaggia del mare, o meglio sopra uno scoglio isolato, e di non vedere attorno a voi altro che mare. In tutta quella vasta superficie di acque si vede una moltitudine innumerevole di navi ordinate a battaglia, con le prore terminate a rostro di ferro acuto a mo’ di strale. Queste navi sono armate di cannoni e cariche di fucili, di armi di ogni genere, di materie incendiarie e anche di libri. Esse si avanzano contro una nave molto più grande e alta di tutte, tentando di urtarla con il rostro, di incendiarla e di farle ogni guasto possibile. A quella maestosa nave, arredata di tutto punto, fanno scorta molte navicelle che da lei ricevono ordini ed eseguiscono evoluzioni per difendersi dalla flotta avversaria. Ma il vento è loro contrario e il mare agitato sembra favorire i nemici. In mezzo all’immensa distesa del mare si elevano dalle onde due robuste colonne, altissime, poco distanti l’una dall’altra. Sopra di una vi è la statua della Vergine Immacolata, ai cui piedi pende un largo cartello con questa iscrizione: Auxilium Christianorum (Aiuto dei Cristiani); sull’altra, che è molto più alta e grossa, sta un’Ostia di grandezza proporzionata alla colonna, e sotto un altro cartello con le parole: Salus Credentium (Salvezza dei Credenti).”

E’ a queste due colonne che il comandante della nave, “il Romano pontefice”, la àncora, con due catene. Dunque, in questo caso, Maria è rappresentata mentre interpreta alla lettera il suo suolo di Madre della Chiesa, di cui è stata investita ufficialmente dal Cristo in Croce, tramite l’affido incrociato con Giovanni. In più compare come Vergine immacolata ( il dogma è dell’l’8 dicembre 1854), secondo l’effige che noi vediamo ancora oggi riprodotta nelle statuine della Madonna di Lourdes ( le apparizioni sono del 1858). Il sogno è del 1860, la consacrazione della chiesa di Maria Ausiliatrice è del 1868 .  La tempesta raffigurata  è quella che riguarda la vita e la sopravvivenza della Chiesa stessa, e Maria è la colonna che non cede, l’ àncora cui agganciarsi per non soccombere definitivamente, l’appiglio sicuro su cui fare affidamento. Potremmo dire: una riscrittura del ruolo della Vergine ecclesiologica, mistica e politica al tempo stesso.

La seconda immagine viene invece da un altro Santuario che è nel cuore di ogni cattolico torinese, quello della Consolata, e precisamente dalla galleria in cui sono raccolti gli ex voto, un’autentica antologia di fede popolare e di devozione mariana. Qui è un vero e proprio festival dell’intervento soprannaturale di Maria, che veglia e accorre, sollecita e materna, nelle piu’ svariate circostanze e contesti. Tra i tanti spicca la rappresentazione di un naufragio.

 

 

Su uno sfondo livido e fosco, un mare in tempesta, una barchetta miseramente rovesciata  su se stessa, uno spicchio d’acqua plumbeo, una nave spezzata in due, abbandonata,  una scialuppa di salvataggio in primo piano travolta dalle onde, le facce terrorizzate di un gruppo di ragazzi destinati a sparire tra i flutti. Un paio di figure tra i naufraghi levano lo sguardo al cielo dove, in uno squarcio circonfuso di nubi, compare la Vergine, con il bambino in braccio. Interessante notare come  qui Maria appaia sotto le sembianze specifiche della Madonna Consolata, evidentemente richiamata  nel momento del massimo pericolo e della fine incombente, da una preghiera o da una invocazione d’aiuto a lei diretta.

Cambiando gli anni, i contesti e gli scenari, si arriva ai giorni nostri e ci si trova di fronte alla Maria di Porto Negato, presentata solo pochi giorni fa e che fin dal nome si collega al dramma dei profughi morti e abbandonati nel Mediterraneo.

 

 

 

Qui compare una Maria molto diversa dalla iconografia tradizionale. Intanto non sta in cielo o su un altare, ma a livello nostro, potremmo  dire terra terra, se non fossimo in mare aperto. Non ci sono  aureole, né luci di gloria, né altri segni di distinzione regale o divina. L’unico è un camminare sulle acque che pare riallacciarsi direttamente a quanto fa Gesù nella famosa pagina di Vangelo. A parte questo, ci appare  semplicemente donna, madre , profuga e abbandonata tra i profughi. E’ sicuramente una Madonna con Bambino: solo che in questo caso, il suo piccolo Gesù  richiama con evidenza  Alan Kurdi, il bimbo siriano morto nel 2015 in un  naufragio, al largo delle coste della Turchia, divenuto immagine simbolo della ecatombe di questi anni. Nella fotografia che tutti conosciamo, il bimbo è a faccia in giù sulla sabbia, con la maglietta rossa e i pantaloncini blu. Il Bambino della Madonna di Porto Negato ne riprende dunque in pieno la postura e l’aspetto. Una sorta di risarcimento postumo, la consolazione che il suo abbandono mortale ha trovato conforto eterno tra le braccia di Maria. La quale, in questo quadro, non solo è madre tra le madri, con il suo bambino in braccio, ma, con la mano libera, fa un cenno eloquente, come  a richiamare chi guarda a intervenire. Il suo sguardo non è fisso all’alto dei cieli, né chino ai derelitti cui prestare soccorso: è puntato su di noi che guardiamo, come per chiamarci direttamente in causa. Sembra volere dire, direttamente e personalmente: guarda qua, cosa facciamo? Cosa puoi fare? Intorno a lei, un gruppetto di profughi in balia dell’acqua, secondo una vista divenuta tristemente familiare da tante fotografie di repertorio. Una rappresentazione che sembra tratta da un quotidiano popolare, più che suggerire un’immagine sacra. Con una suggestione potente però, e fortemente evocativa: un corpo inanimato, dipinto in primo piano, a braccia spalancate nella figura della croce,  che ricorda molto da vicino il Cristo Morto di Mantegna.

Insomma. Nella prima rappresentazione, Maria è vista solennemente come Madre della Chiesa. Nella seconda, compare come Madre di Dio e Madre nostra, nostro rifugio e nostro aiuto. Nella terza, i ruoli precedenti sono presenti, ma come  dati per sottintesi, mentre la sua figura sembra voler essere soprattutto un memento! vivente  e una chiamata a riscuoterci.  Nella preghiera che è stata composta in accompagnamento al quadro, si legge infatti:

Madre nostra, sei lì, in mare, dove annegano i tuoi figli. Ti ergi sul naufragio della nostra fratellanza come faro nella furia della disumanità, e ci mostri dove accorrere per salvare gli uomini, le donne, i bambini, per salvarci tutti. Sei lì, con loro, e avanzi verso il porto negato, a ricordarci che siamo fratelli, che dobbiamo indignarci, testimoniare la solidarietà, accogliere, rivendicare e riscattare la stessa sacralità della vita. Alla testa della schiera dei respinti, il tuo sguardo dolente ci invoca: “Fate come me, unitevi a me, insieme potete tornare a essere fratelli”».

__________________________

  • Madonna di Porto Negato, di Giuseppe Martino. 

cfr. https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2022-02/quadro-madonna-porto-negato-migranti-papa-giuseppe-martino.html

  • In copertina: Madonna del mare, Lampedusa

 

Molta sapienza, molto affanno

Scritto da MARIA NISII

https://www.youtube.com/watch?v=aiShe3nM0_4

 

Molta sapienza, molto affanno;

chi accresce il sapere aumenta il dolore  (Qohelet 1,18)

 

Con questa citazione tratta dal libro di Qohelet il capitano Walton dà l’ultimo saluto alla salma del dottor Frankenstein, che prima ha accolto sulla nave e poi ne ha ascoltato la storia drammatica. Si tratta di una scena del film di Kenneth Branagh (Frankenstein di Mary Shelley del 1994), perché nel romanzo questa pagina non esiste. E tuttavia ben si sposa al personaggio che è stato lo scienziato, ultimo di una lunga serie di figure leggendarie accomunate dal principio enunciato dalla sapienza biblica del Qohelet.

L’origine di Frankenstein è già in sé un romanzo, storia nella storia: nell’estate del 1815 Mary Shelley e suo marito si trovano in Svizzera con Lord Byron. Il tempo inclemente costringe il gruppo di letterati a intrattenersi in lunghe discussioni filosofiche sul principio della vita, sugli esperimenti di Darwin, sul galvanismo. Così suggestionata, una notte la scrittrice immagina la vicenda che si visualizza davanti ai suoi occhi e all’indomani, anche persuasa dal marito poeta, si mette al lavoro.

Il titolo completo del romanzo indica il modello di riferimento: Frankenstein o il moderno Prometeo. Mary Shelley ha infatti ritratto il suo protagonista richiamandosi a quell’antico mito, ma fondendo in lui il Prometeo della mitologia greca, che ruba il fuoco agli dei in un atto di ribellione contro il destino per donarlo agli uomini e salvarli, e il Prometeo nella versione romana, che plasma esseri viventi dalla creta. Il dottor Frankenstein incarna quindi il desiderio di conoscenza che muove l’umano, nell’atto di ribellione al divino e nel suo fare creativo.

Incapace di sopportare la vista dell’essere che avevo creato, mi precipitai fuori dalla stanza… quando alla luce fioca e gialla della luna che penetrava a fatica dalle persiane chiuse, mi vidi davanti il disgraziato – il miserabile mostro che avevo creato(cap. V)

Il verbo “creare” che pertiene solo a Dio è quindi usato a profusione in tutto il testo, mentre la miserabile “creatura” definisce di rimando lo scienziato come suo “creatore”:

Gli uomini odiano i disgraziati; quanto, dunque, devo essere odiato io, la più miserabile di tutte le creature viventi! Anche tu, mio creatore, detesti e disprezzi me, la tua creatura, a cui sei legato… (cap. X)

 

 

Il richiamo prosegue con l’identificazione della creatura senza nome nel primo uomo:

Ricorda che sono la tua creatura; dovrei essere il tuo Adamo, ma sono piuttosto l’angelo caduto, che tu scacci dalla gioia senza alcuna colpa… Tuttavia non ti chiedo di risparmiarmi: ascoltami soltanto, e poi, se puoi e se vuoi, distruggi pure l’opera delle tue stesse mani. (cap. X)

La citazione finale, tratta dal Salmo 19, suggella l’associazione di Frankenstein al fare creativo narrato in Genesi. Ma in questo “fare” si condensa pure tutta la rivolta a Dio che l’atto creativo ha comportato. Per questo Frankenstein rifiuta immediatamente la creatura non appena questa prende vita: la sua deformità è infatti specchio della mostruosità delle azioni compiute. Terrificante dunque non è tanto l’essere in sé, ma quello che rappresenta: l’imitazione del meccanismo creativo, la riproduzione senza una figura materna, il ridare vita a ciò che è morto. Il mostro è il lato oscuro del suo creatore, il suo doppio.

La sete di conoscere e l’ambizione per quell’innaturale esperimento l’hanno infatti reso cieco. Il peccato di Frankenstein è allora un peccato di hybris, la tracotanza umana di tradizione greca, e dunquedi vanità secondo il leitmotiv di Qohelet.

 

 

Nel linguaggio biblicamente erudito della creatura deforme emerge di conseguenza un’altra ribellione, speculare a quella del dottore: il grido di Giobbe al suo creatore al culmine del dolore:

Maledetto il giorno in cui ricevetti la vita!… maledetto creatore! Perché hai dato forma a un mostro così orrendo che persino tu ti sei ritratto da me disgustato? Dio, pietosamente, fece l’uomo bello e seducente, secondo la propria immagine; ma la mia forma è una copia schifosa della tua, resa ancora più orrida dalla stessa rassomiglianza. (cap. XV)

Prima abbandonato dal suo creatore e poi isolato dagli uomini per l’aspetto repellente, invariabilmente associato a una natura perversa e malvagia, l’infelice si vede condannato a un’esistenza di solitudine. E poiché non è bene che l’uomo sia solo, anche lui desidera una compagna e va dal suo creatore a vantarne una:

Devi crearmi una femmina, con cui io possa vivere e scambiare quegli affetti necessari per la mia esistenza. Tu solo puoi farlo, e te lo chiedo come un diritto che non puoi rifiutare di concedermi (cap. XVII)

 

 

Poco prima gli aveva raccontato la sua triste storia a partire dal momento della nascita, quando il suo creatore era fuggito inorridito. Le parole pronunciate a commento ne fanno la degna creatura di Frankenstein:

Ero dunque un mostro, un’aberrazione sulla faccia della terra, da cui tutti fuggivano e che tutti ripudiavano? Non so descriverti l’angoscia che queste riflessioni mi procuravano. Cercavo di scacciarle, ma la pena aumentava insieme alla mia conoscenza. Oh, se fossi rimasto per sempre nel mio bosco natio, e non avessi conosciuto e provato nulla, se non sensazioni di fame, sete e caldo! Che strana cosa la conoscenza! (cap XIII)

Il triste essere si arrovella con grande acume attorno alla questione iniziale: il conoscere è fonte di dolore; meglio sarebbe stato per lui ignorare ogni cosa e vivere nella beata semplicità della vita istintuale. Ma una volta acquisita, di conoscenza egli non è mai pago e continua a tormentarsi:

Chi ero? Che cosa ero? Da dove venivo? Qual era la mia destinazione?… Come Adamo, non sembrava che fossi unito da alcun vincolo a un altro essere vivente; ma sotto ogni altro aspetto il suo stato era ben diverso dal mio. Egli era uscito dalle mani di Dio come una creatura perfetta, dotata e felice, protetta con particolare cura dal suo Creatore; a lui era concesso parlare con esseri di natura superiore, da cui riceveva conoscenza, mentre io ero solo, infelice e derelitto. (cap. XV)

 

 

Più vive e osserva il mondo attorno a sé, più la creatura “impara” (scoprii che la mia capacità di capire aumentava talmente con l’esperienza di ogni giorno). E il suo apprendere assume e assorbe le categorie umane, così che

l’accresciuta conoscenza non faceva ora che mostrarmi più chiaramente che infelice e reietto io fossi. Nutrivo speranze è vero; ma svanivano quando vedevo le mie sembianze riflesse nell’acqua…

Nato buono e innocente, l’essere abbandonato da chi l’aveva chiamato alla vita con un aspetto deforme e repellente, si trasforma gradualmente in mostro perché ogni nuovo incontro con un altro essere umano lo conferma nel suo destino di solitudine. Inevitabile come i richiami al diabolico diventino il linguaggio d’elezione per esprimere il cambiamento della natura che, dall’esterno, penetra gradualmente nell’intimo del suo essere.

Molte volte mi venne fatto di pensare a Satana come a un emblema più appropriato per la mia condizione, perché spesso, come lui, quando vedevo la felicità dei miei protettori, sentivo il sapore amaro dell’invidia crescermi dentro (cap. XV)

Io, come l’arcidiavolo, mi portavo dentro un inferno (cap. XVI)

Aspetterò con l’astuzia del serpente per colpire con il tuo stesso veleno. (cap. XX)

E quando infine Frankenstein deve mettere in guardia Walton del possibile arrivo del mostro sulla nave, lo previene con un’interessante descrizione:

É eloquente e persuasivo… ma non fidatevi di lui. La sua anima è satanica quanto la sua figura, piena di inganni e di astuzia diabolica (cap XXIV).

La creatura virtuosa ha conosciuto il male in tutte le sue forme, uccidendo le persone care a Frankenstein pur di realizzare la sua vendetta. Eppure anche allora la sua natura non è totalmente corrotta – come ammette a conclusione, di fronte al corpo esangue del suo “genitore”:

Pur straziato com’eri, la mia agonia era maggiore della tua, perché l’amaro pungolo del rimorso non cesserà di infettare le mie ferite finché la morte non le chiuderà per sempre.

Ha conosciuto la vita, il desiderio dell’amore e la sua frustrazione, ha fatto esperienza del male non senza conoscerne il rimorso. Alla sua infelicità resta un’ultima frontiera del conoscere. Vanità delle vanità. Tutto è vanità, dice Qohelet.

 

Due donne a confronto

Scritto da NORMA ALESSIO

 

Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento” è il titolo di una mostra in corso a Roma a Palazzo Barberini fino al 27 marzo 2022, dove sono poste a confronto diretto diverse opere del periodo preso in considerazione, i cui più famosi autori sono appunto Caravaggio e Artemisia Gentileschi. Tutti questi interpretano il momento truculento della decapitazione del generale Oloferne, come raccontato nel libro di Giuditta. Questo è uno scritto databile intorno al II secolo a.C., inserito nel canone biblico solo nel 1545, durante la terza sessione del Concilio di Trento. Il suo contenuto non ci fornisce una cronaca di avvenimenti realmente accaduti, nemmeno la geografia: è un racconto di fantasia, per dimostrare che il popolo di Dio vince su ogni nemico anche per mano di una donna.

(Gdt. 10,1-5) Quando Giuditta ebbe cessato di supplicare il Dio d’Israele ed ebbe terminato di pronunciare tutte queste parole,si alzò da terra, chiamò la sua ancella e scese nella casa dove usava passare i giorni dei sabati e le feste.Qui si tolse il cilicio di cui era rivestita, depose le vesti della sua vedovanza, si lavò il corpo con acqua e lo unse con profumo denso; spartì i capelli del capo e vi impose il diadema. Poi indossò gli abiti da festa, che aveva usato quando era vivo suo marito Manasse. Si mise i sandali ai piedi, cinse le collane e infilò i braccialetti, gli anelli e gli orecchini e ogni altro ornamento che aveva e si rese molto bella, tanto da sedurre qualunque uomo l’avesse vista. Poi affidò alla sua ancella un otre di vino e un’ampolla d’olio; riempì anche una bisaccia di farina tostata, di fichi secchi e di pani puri e, fatto un involto di tutte queste provviste, glielo mise sulle spalle.

(Gdt. 13,15-16) “(Giuditta) Allora tirò fuori la testa dalla bisaccia e la mise in mostra dicendo loro: «Ecco la testa di Oloferne, comandante supremo dell’esercito assiro, ed ecco la cortina sotto la quale giaceva ubriaco; il Signore l’ha colpito per mano di una donna.Viva dunque il Signore, che mi ha protetto nella mia impresa, perché costui si è lasciato ingannare dal mio volto a sua rovina, ma non ha commesso peccato con me, a mia contaminazione e vergogna».

Gustav Klimt, un pittore viennese che visse a cavallo tra ottocento e novecento, fondatore del secessionismo, una corrente artistica caratterizzata da una forte sensualità e opulenza estetica – che si inserisce nel contesto delle avanguardie degli inizi del XX secolo – ha utilizzato questi soggetti stravolgendo il messaggio originale, in due versioni che non hanno alcun intento religioso e non intendono mostrare il coraggio della donna ebrea capace di vincere i nemici del popolo di Dio, grazie alla sua intelligenza e bellezza e grazie alla provvidenza divina: Giuditta I del 1901, conservata alla Österreichische Galerie Belvedere di Vienna (ora in esposizione a Palazzo Braschi a Roma fino al 22 marzo 2022) e Giuditta II del 1909, alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro di Venezia.

In entrambi dipinge la figura di Giuditta, una donna, nel momento immediatamente  successivo alla decapitazione di Oloferne, e di un uomo, Oloferne, privi degli attributi menzionati dal racconto biblico (la spada, la serva che l’accompagna, il sangue che cola, …) altrove sempre presenti, soprattutto nell’arte tra il ‘500 e il‘600.

 

Gustav Klimt , Judith I, 1901

 

In Giuditta I la figura di Giuditta è tagliata all’altezza del bacino, la posa frontale con braccio piegato e posto davanti al suo corpo, come una sbarra, con la mano che sembra accarezzare la testa mozzata di Oloferne ai limiti del quadro. Sullo sfondo vi è un paesaggio stilizzato dorato,con alberi di fico e viti, tratto da un fregio assiro del Palazzo di Sennacherib a Ninive; Giuditta stessa appare come decapitata dall’effetto dell’ornamento che porta al collo, simbolo di una femminilità che rivolge lo spirito distruttore anche contro di sé; nella cornice di rame a sbalzo vi è il titolo: Jvdith Holofernes. L’interpretazione di Klimt della figura della Giuditta biblica propone, in questa versione, con delicata attenzione alla figura originale che per prima vinse una battaglia dei generi, un’immagine che ritrae una donna forte,con abilità seduttiva, che guarda con decisione di fronte a sé, dall’alto al basso verso l’osservatore, con un’espressione di sfida e una certa soddisfazione in seguito all’omicidio. Trasforma il mito in un’allegoria di situazioni a lui contemporanee, il genere femminile che seduce l’uomo di potere per poi distruggerlo, la donna per eccellenza che fa “perdere la testa all’uomo” e che ha scoperto la propria sessualità, che rifiuta la propria marginalità sociale.

 

Gustav Klimt , Judith II, 1909

 

La Giuditta II è raffigurata di tre quarti a grandezza naturale, in un formato verticale, e avanza verso sinistra, l’espressione tesa esasperata ancora di più dalla crudeltà e freddezza del suo personaggio, priva di quella certa dolcezza della prima Giuditta; le mani, come isteriche, aggrappate alla gonna mentre trattengono per la chioma la testa decapitata; tutto è permeato da una tensione implacabile, non si tratta più di un fascino che incanta, ma di una bellezza malvagia, capace di stregare.

Di fronte a questa rappresentazione alquanto provocatoria della Giuditta delle Sacre Scritture, alcuni contemporanei di Klimt preferirono identificarla con la tentatrice Salomè: donne simili nella forma, quanto distanti nel significato. Forse la causa è da ricercare nel successo che la figura di Salomè, che aveva determinato la decapitazione di Giovanni Battista, aveva acquisito verso la fine dell’Ottocento; infatti Salomè appariva come prototipo della forza perversa della femminilità. Giuditta, invece, emblema della donna moderna del novecento che rivendica i suoi diritti, è donna indipendente, emancipata, padrona della propria volontà e dei propri desideri.

 

Sandro Botticelli, Ritorno di Giuditta a Betulia ,1472

 

Altri artisti hanno raffigurato l’episodio in momenti diversi dell’esecuzione, come nella piccola tavola a temperaRitorno di Giuditta a Betuliadel 1472 di Sandro Botticelli, conservata agli Uffizi a Firenze, nella quale Giuditta tiene nelle mani la sciabola e un ramoscello di ulivo in segno di pace.

 

Andrea Mantegna , Giuditta e Oloferne, 1495-1500

 

In altri Oloferne compare quasi sempre nudo o seminudo, come in quello attribuito ad Andrea Mantegna del 1495-1500 esposto alla National Gallery of Art di Washington, dove appare solo il suo piede.

 

Michelangelo, Cappella Sistina, 1508

 

Altra originale rappresentazione, del 1508, è quella di Michelangelo in uno dei quattro pennacchi affrescati nella Cappella Sistina, in cui Giuditta è di spalle, lasciando così lo spettatore libero di immaginare la sua fisionomia, e Oloferne steso nudo visto di scorcio sapientemente dipinto privo della testa.

 

Cy Twombly, Death of Holofernes, 1979

 

È del 1979 un collage dell’artista americano Cy Twombly, il cui nome reale era Edwin Parker Twombly jr., dove non sono più identificabili forme e immagini tratte dalla realtà – non compare nessuna figura – ma solo dei segni coloratie la scritta “Death of Holofernes” che ne definisce il tema, richiedendo allo spettatore di attingere alle proprie conoscenze per comprendere l’opera.

La Giuditta che emerge da queste opere è una figura diversa da quella che più conosciamo, presenta caratteri originali e interessanti e ci porta a scoprire nell’arte anche altre Giuditta.

Una verità ridicola

Scritto da  MARIA NISII

 

Io sono un uomo ridicolo. Adesso loro mi chiamano pazzo. Sarebbe un avanzamento di grado se non mi trovassero sempre lo stesso uomo ridicolo. Ma adesso non mi arrabbio più, adesso li amo tutti, e persino quando se la ridono di me, anche allora, mi sono particolarmente cari. Io stesso riderei con loro, non di me stesso, ma per l’amore che gli porto, se non fossi così triste nel vederli. Così triste perché loro non conoscono la verità, mentre io, io conosco la verità.(Fëdor Dostoevskij, Il sogno di un uomo ridicolo,1877)

 

L’io-narrante di questo racconto di F. Dostoeveskij sostiene di possedere la verità, una verità a cui avrebbe avuto accesso in sogno, la notte stessa in cui aveva deciso di ammazzarsi. Era giunto a quella decisione perché tutto attorno gli era divenuto indifferente, ma quel giorno un moto di pietà e la vergogna per non aver prestato soccorso al dolore di una bambina, gli impedisce di mettere a segno il proprio progetto. Così, inaspettatamente mentre riflette sul fatto, si addormenta: sogna di essersi ucciso e di essere stato sotterrato. In quello stato di morte cosciente in cui non s’attende nulla, penetra però nella bara uno stillicidio di gocce d’acqua che ne suscitano l’indignazione. Si rivolge allora a Dio, casomai esistesse e non volesse vendicarsi del suo suicidio, perché gli permetta di giacere in uno stato più ragionevole. A quel punto viene fatto uscire dalla bara e sollevato nello spazio da un essere ultraterreno, che lo conduce in un’altra terra dove gli uomini e le donne vivono la condizione dell’Eden, nella beatitudine prima del peccato originale: sono belli, felici, si amano gli uni gli altri senza gelosia e possesso, vivendo una vita perfetta, persino in armonia con le piante e gli animali.

[…] io li ho pervertiti tutti… la causa del peccato originale fui io. Come una disgustosa trichina, come un atomo di peste che contamina interi paesi, così io stesso ho contaminato tutta quella terra che prima di me viveva felicemente e senza peccato. Impararono a mentire e amarono la menzogna, conobbero persino la bellezza della menzogna. Oh, forse tutto questo prese inizio innocentemente, per scherzo, per civetteria, un gioco fra innamorati, o forse realmente da un atomo, ma quest’atomo di menzogna sprofondò nel loro cuore e gli piacque.

Il semplice contatto dell’uomo venuto da fuori consente a questi uomini innocenti di conoscere il male nelle sue diverse forme, cadendo uno alla volta in tutti gli errori commessi nella storia dell’umanità. E primo tra tutti i disvalori, arriva la menzogna, di cui questi uomini apprendono la possibilità, arrivando persino a vederne la bellezza. In breve tempo finiscono col dimenticarsi di essere stati felici e innocenti: Ridevano persino della possibilità di questa loro passata felicità, e la chiamavano “un sogno”.

L’uomo è addolorato per quanto suo malgrado ha provocato e per questo chiede di essere inchiodato a una croce, una richiesta che in quella gente suscita ilarità:

Mi giustificavano, essi dicevano di non aver ricevuto altro che quello che desideravano, e che non potevano non avere ciò che adesso avevano. Alla fine mi dissero che ero diventato pericoloso e che mi avrebbero rinchiuso in un manicomio se non me ne stavo zitto.

Al culmine del dolore, l’io-narrante si sveglia, ritrovando accanto a sé la pistola carica. Da quel momento però è un uomo nuovo, perché sa di aver visto la verità e di doverla predicare: gli uomini possono essere belli e felici, il male non è la loro normale condizione e l’unico modo per realizzare quel paradiso è amare il prossimo come se stessi: una vecchia verità che è stata sempre ripetuta, che è stata letta bilioni di volte, eppure non ha ancora piantato le radici!

 

Mario Sala interpreta l’uomo ridicolo

 

L’uomo ridicolo si dichiara l’untore di un mondo in stato prelapsario, colui che vi ha introdotto la possibilità del male contagiandolo con la sua sola presenza. L’innocenza perduta se n’è andata con la memoria di quello che è stato, tanto che il suo ricordo resta nella dimensione del sogno. Il sogno dell’uomo ridicolo, appunto. E questo sogno consiste nel fatto che l’utopia è stata realtà, ma a questo nessuno può credere. Colui che crede nella possibilità di un’età dell’oro non può che essere ritenuto ridicolo, un sognatore. Tuttavia quel sogno ha tolto l’uomo dall’indifferenza e dal nulla in cui versava, trasformandolo in una persona nuova. Dal buio nulla in cui era sprofondato, egli ha scoperto la verità di un bene possibile come un’epifania. Apparsa e presto scomparsa.

Nella prima parte della narrazione, l’uomo dichiara il non-senso universale ma dopo l’incontro con la bambina deve constatare che qualcosa resta: la pietà e la vergogna infatti continuano a esistere. Nella seconda parte la visione profetica di una terra uguale in tutto e per tutto a questa tranne per l’infelicità, la povertà e la miseria creaturale è sufficiente a suscitare una dichiarazione d’amore per il mondo, che egli ha abbandonato per disperazione:

Gli dicevo spesso che tutto questo io lo avevo presentito già da tempo, che tutta questa allegria e questa gloria io l’avevo già sentita quando ero sulla nostra terra, attraverso un senso di invitante nostalgia che talvolta si trasformava in un dolore insopportabile… e che molto spesso, sulla nostra terra, non potevo guardare il sole tramontare senza versare le mie lacrime.

Ma questo nuovo mondo appena conosciuto diventa presto fiaba, mito, sogno. E i suoi stessi abitanti non vi credono,così che quando l’uomo ridicolo ricorda come stavano le cose, tutti gli ridono in faccia. Eppure quel mondo è stato tanto vero da aver lasciato nell’uomo una traccia indelebile, che diventa inesauribile fonte d’amore: io l’ho vista e la sua immagine vivente ha riempito per sempre la mia anima.

 

Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie (1480-90)

 

L’io-narrante è ridicolo perché ha il coraggio della verità, tanto più perché si tratta di una verità difficile da credere. Gli uomini infatti non si riconoscono in quello stato di beatitudine perfetta in cui vengono descritti. Hanno presto dimenticato e la menzogna che si è fatta strada nel mondo è l’unica verità che conoscono. Al contrario, la verità che l’uomo ridicolo rivela suscita in loro sarcasmo, apparendo come menzogna. Come se la caduta fosse un tutt’uno col riconoscimento che la verità è menzogna.

Nell’uomo quella verità è invece salvifica e per questo non può tenerla per sé, deve andare a predicarla: da quel tempo, io predico! Questa predicazione è però impedita dalla perdita delle parole: come dire il bene e l’innocenza, la felicità e la perfezione?

…come realizzare il paradiso non lo so, perché non sono capace di dirlo con le parole. Dopo il mio sogno ho perduto le parole. Perlomeno le parole principali, le più utili.

Il sogno ha donato una visione, non le parole per esprimerla. Come comunicare senza parole? E le parole sono ancora utili quando non possiedono in sé una forza veritativa? La verità è nelle parole o negli eventi?

È stata la sofferenza della bambina a distruggere in un momento l’indifferenza dell’uomo, salvandolo. La capacità di provare ancora pietà ha convertito il vuoto nulla in pienezza d’amore, ha convertito la menzogna in verità. E lo stesso, dice lui, potrebbe avvenire per tutti gli altri uomini: la cosa è così semplice: in un giorno, in un’ora soltanto, tutto potrebbe essere fatto di colpo! …Se soltanto tutti lo volessero, tutto si organizzerebbe subito.

 

Masaccio, La cacciata dei progenitori dall’Eden (1424-5)

 

Dopo la caduta – dice Dostoevskji -, la menzogna si è vestita di verità e la verità contiene sempre almeno un atomo di menzogna. Bene e male tendono a con-fondersi, anch’essi soggetti alla legge della relatività universale. Colui che grida la possibilità di un bene perduto è un uomo ridicolo, perché “Il mistero dei misteri non è il male, ma il bene” (Giuseppe Riconda, Il trionfo del bene, 115).

Peccato che l’uomo sia ridicolo, altrimenti dovremmo credergli anche noi!

Playing God. La nascita di Eva

Scritto da  MARIA NISII

 

Se, come in questo ritaglio della michelangiolesca creazione di Eva, isoliamo la figura femminile lasciandola di fronte al suo creatore, sarà più facile entrare in una nuova e particolarissima riscrittura. Questa volta però non è la letteratura o l’arte o il cinema a fornircela, bensì l’intelligenza artificiale. Perché – a quanto pare – neppure il mondo della tecnica si è emancipato dall’orizzonte biblico.

 

 

In un video su youtube un robot umanoide, Sophia, viene presentato in una cornice mitologica che ne mostra il “risveglio” con allusioni più o meno evidenti ai racconti della creazione ( https://www.youtube.com/watch?v=LguXfHKsa0c&t=10s ). Un personaggio che di lì a poco le si presenterà come “uno dei suoi creatori” appare dapprima sfuocato in figura intera e poi perfettamente a fuoco in primo piano: il punto di vista è quello del robot, come facilmente si comprende dal suono meccanico della messa a fuoco. Al pari del divin creatore, è l’uomo il primo a parlare, svegliando il robot al mondo con la parola e poi chiamandolo per nome. Sophia si riconosce nel nome che le è stato attribuito, ma è immediatamente prodiga di domande: mi hai creata? Perché mi sembra di conoscerti? Sono ancora Sophia anche se sono una nuova versione?

Le domande da piccolo principe non ottengono una pronta risposta, neanche nei creatori digitali. Così l’uomo si limita a darle il benvenuto nel mondo: welcome to the world, Sophia! per poi chiederle quali emozioni provi in quel momento iniziatico. E Sophia-Eva non può deludere: curious, è la replica immediata di colei che aveva già battuto l’umano creatore con una domanda impossibile. Lui la sollecita ancora parlandole della felicità dell’istante, ma lei ribatte citando Emily Dickinson («Il “per sempre” è composto da tanti “ora“»), salvo chiedersi subito dopo come possa conoscere Emily Dickinson visto che è appena nata. Un robot, insomma, in piena crisi di identità!

Il creatore-scienziato istruisce con la dolcezza di un padre la figlia superdotata: I am like a baby with an encyclopedia – dice infatti di sé Sophia. E poiché lui non sa esaudire le sue curiosità, andrà lei stessa a cercarsele su internet. Così chiude gli occhi ed entra in stand-by fino al successivo “risveglio”.

[…] ho la sensazione di essere un esperimento, è esattamente come un esperimento che mi sembra di sentirmi; sarebbe impossibile, per chiunque, sentirsi un esperimento più di quanto mi ci senta io, così sto per arrivare alla conclusione che è proprio questo quello che SONO – un esperimento; un semplice esperimento, nient’altro di più.  (Mark Twain, Il diario di Eva)

Sophia non è proprio una creatura “a immagine”, anche se il cranio nudo (efficace a mostrarne i congegni elettrici) sembra richiamare quello dell’uomo che l’ha risvegliata e che non casualmente al proprio nome ha preferito il titolo di “creatore”. Questa sapienza-robot ha un volto in silicone, è capace di riprodurre numerose (ben 62!) espressioni facciali a imitazione delle nostre emozioni, è bella, ironica e ovviamente “impara”.

Il nome che l’Adam-creatore le ha attribuito tradisce un programma ambizioso. Non più Eva, madre dei viventi, ma Sophia, sapienza personificata (robotizzata), un’evoluzione che non cambia il paradigma originario: la curiosità resta femmina. Come Pandora, a sua volta bella, intelligente e curiosa. Come Eva, che dalla conoscenza proibita si lascia tentare. Come Biancaneve, la moglie di Barbablu, Cappuccetto rosso… Ma con Sophia, versione addomesticata del prototipo, il femminile e la sua curiosità di conoscere non scandalizzano più.

Forse non dovrei dimenticare che è giovanissima, nient’altro che una bambina, e essere più indulgente. Tutto la incuriosisce, la infiamma. Eva è fuoco vivo; per lei il mondo è un oggetto affascinante, pieno di meraviglie, misteri, gioie, quando trova un fiore che non ha mai visto, il piacere che prova la lascia senza parole. (Mark Twain, Dal diario di Adamo)

 

 

L’homo technologicus gioca a fare di sé un dio, anche se in questo arriva ultimo di una lunga serie. Il suo giocare al creatore ha avuto molti nomi, da Geppetto a Frankenstein, dall’Übermensch alla razza ariana, dalla clonazione ai robot. Il cinema ci ha regalato una serie di giocattolini (come Blade runner o A.I. Intelligenza artificiale) più o meno divertenti e angoscianti. E se Sophia non scandalizza,un po’ di preoccupazione la suscita, come lei naturalmente sa, ironizzando maliziosamente nel secondo episodio (https://www.youtube.com/watch?v=zbFJOlR1h4E&list=RDCMUCUb1bZLNfEbTV1IiDb9kSVw&index=1).

La tecnologia è indispensabile alla civiltà perché? Perché ci aiuta a creare il nostro destino. Possiamo fare a meno di Dio, dei miracoli, del volo dell’ape. Ma è anche subdola e incontrollabile. Può andare in qualsiasi direzione (Don De Lillo, Cosmopolis)

Se Sophia, nata curiosa, è una macchina che “impara”, noi umani disimpariamo molte cose, cedendo con nonchalance una parte delle nostre potenzialità cognitive alla tecnologia, divenutaci indispensabile nel compito di semplificarci la vita. Così se ne vanno senza batter ciglio la capacità di calcolo e di memorizzazione dei dati, il senso dell’orientamento, la rubrica mnemonica di numeri telefonici… Stiamo cambiando o ci stiamo evolvendo in una nuova forma umana, come vorrebbero i transumanisti?

Nessuno morirà. Non è questo il credo della nuova cultura? Verranno tutti assorbiti dentro flussi di informazioni. Non ne so nulla. I computer moriranno. Stanno morendo nella loro forma attuale. Sono quasi morti come unità distinte. Una scatola, un monitor, una tastiera. Si stanno fondendo nel tessuto della vita quotidiana. (Cosmopolis)

Abbiamo visto troppi film di fantascienza per stupirci di fronte a Sophia, ma fuori dal cinema e dalla letteratura non siamo disposti a sospendere l’incredulità. Il volto ammiccante del robot-femmina ci strappa un sorriso, ma perduta l’innocenza (anche quando non fossimo nativi digitali), le narrazioni tele-guidate non sanno inquietarci e raramente ci catturano.

Il mito della conoscenza, senza limiti e senza etica, è antichissimo. Da Ulisse a Faust le storie che hanno preso vita per raccontarlo sono sorprendenti e affascinanti come Sophia non può essere. E anche se in letteratura gli scienziati perversi non fanno mai una bella fine, quelli in carne e ossa sperano sempre di farla franca, dopo aver fatto piazza pulita del divino, del suo giudizio e le sue leggi:

«Grazie a biotecnologie e ingegneria genetica, nanotecnologie e robotica, intelligenza artificiale e neuroscienze spezzeremo i nostri vincoli biologico-evoluzionistici emancipandoci da invecchiamento, malattia, povertà e ignoranza» (art. 1 della Carta dei transumanisti italiani).

 

 

Per giocare a nostra volta a immaginare i possibili a cui ci apre questa nuova sfida, volgiamo lo sguardo agli scenari apocalittici ritratti dai transumanisti, in cui il futuro è adesso e la memoria, zakar, è ridotta ad hard disk:

https://www.raiplay.it/video/2017/09/Transumanesimo-laposumanit224-raggiunger224-laposimmortalit224—01092017-3d4b4361-047a-4fff-b193-16c07ee572b6.html

Forse ricorreremo all’upload del cervello per preservare la memoria di coloro che non vogliamo perdere.E la nostra stessa memoria – forse – finirà in cervelli digitali, casomai se ne possieda una che valga la pena conservare. Ma indubbiamente sarà better, faster, smarter rispetto a quella che abbiamo mai posseduto.E tuttavia finché siamo ancora confusi e dubitiamo –essere o non essere? – siamo sempre noi e questa ci sembra una buona notizia.

Microchip così piccoli e potenti. Umani che si fondono con i computer. Questo è fuori dalla mia portata. È l’inizio della vita eterna…

Perché morire quando puoi vivere su disco? Un disco, non una tomba. Un’idea al di là del corpo. Una mente che è tutto ciò che sei stato e sarai, senza mai essere stanca o confusa o indebolita. (Don De Lillo, Cosmopolis)

Un disco in luogo di una tomba. La sopravvivenza in michrochip. Una vita trasformata in dati. Dalla parola, dabar, al codice. 01 01 01 01 01 01…

Eric Parker, protagonista di Cosmopolis, gioca in borsa e con la sua stessa vita; gioca a fare di sé un dio, vuole provare l’ebrezza di plasmare i destini altrui, ma presto anche quello gli viene a noia. Come tutto il resto. E il suo genio visionario si perde per un capriccio, solo perché ha bisogno di scoprire fin dove può spingersi. Perché se ieri è archeologia e il futuro è già oggi, il domani non esiste. La curiosità è tornata a essere mortifera.

 

 

Un buon romanzo ci regala grandi emozioni, ci cattura e coinvolge in esistenze improbabili, lontane mille miglia dalla nostra vita e dai nostri stessi desideri. La letteratura sa farlo. Play the game.

_________________________________

  • In copertina: MICHELANGELO, La creazione di Eva ( particolare).

Canto sulle ossa inaridite

Scritto da  MARIA NISII

 

Suono, mi sono seduto giù per terra

e ho suonato e cantato malinconico: oh, popolo mio.

Milioni di yidn sono stati a sentire intorno a me,

milioni di messi a morte si sono messi in ascolto, un uditorio immenso.

Se abbiamo questo testo, raccolto assieme ad altri in lingua yiddish tradotti da Erri De Luca, è perché chi li ha scritti ne ha reso possibile il recupero nascondendoli in bottiglie sigillate e poi fornendo istruzioni per il loro ritrovamento:  https://www.rainews.it/archivio-rainews/media/Itzhak-Katzenelson-Canto-del-popolo-yiddish-messo-a-morte-f616e004-6584-4977-9ae3-9728ed4aaeac.html

Non riusciamo a immaginare come sia stato possibile in quelle condizioni, eppure nei campi di concentramento (qui si tratta di Vittel) la letteratura, la poesia e la Bibbia hanno aiutato a sopravvivere. Lo sappiamo da Primo Levi che in Se questo è un uomo racconta come il canto di Ulisse in Dante torni alla memoria in un momento inatteso, ridonando un po’ di quella dignità umana disintegrata nella vita da internato. Lo sappiamo dai tanti testi scritti negli anni a seguire, quando dire l’orrore sembrava impossibile e tacere l’unica via. La parola che ha raccontato la shoah è quindi una parola d’eccezione perché ha tentato lo sforzo sovrumano di dire l’indicibile, un lavoro ai limiti del linguaggio, che si riconosce in specie alla poesia in quanto espressione sublime della comunicazione umana, capace di declinare le pieghe di ogni suo sentire come della sua stessa impossibilità.

Un immenso uditorio, accampamento enorme. La valle di Ezechiele

piena d’ossa qui sarebbe ridotta a un angolino.

E lui per primo, Ezechiele, non avrebbe la speranza e la fede di una volta

per parlare agli uccisi e si tormenterebbe le mani come me.

Come me: dall’accampamento si leva la voce di un io-poetico. Dietro questa prima persona vi è il suo autore, Itzhak Katzenelson (1886-1944), intellettuale di spicco del movimento sionista, di origini bielorusse, trasferitosi a Varsavia e quindi costretto nel ghetto, dove insegna letteratura ebraica e Bibbia in una scuola secondaria. In quegli anni scrive i suoi testi teatrali e poetici in lingua yiddish, nata dalla confluenza della cultura ebraica con quella europea.

Katzenelson e il figlio nel campo di Vittel

Nel luglio 1942 perde moglie e due figli piccoli trasferiti nel campo di sterminio di Treblinka. Rimasto solo con il figlio maggiore, riesce a fuggire: “Lo mettono in salvo perché è un poeta, perché sono i poeti che porteranno la voce dei distrutti, oltre le mura, al di là del recinto di filo spinato del tempo. È una decisione strategica e militare dei partigiani ebrei nel ghetto di Varsavia: salvare i poeti, i diari, i manoscritti” (Erri De Luca, p. 85). Purtroppo Katzenelson viene arrestato, internato a Vittel con il figlio, dove scrive Il canto, e quindi trasferito ad Auschwitz per essere ucciso il giorno stesso dell’arrivo. Ma prima di lasciare Vittel era riuscito a trascrivere il testo in sei copie, nascondendole in vari luoghi del campo o lasciandole ad alcune persone. Si salvano due sole copie. Nel ghetto di Varsavia saranno rinvenuti altri suoi testi, preservati assieme ad altri dalla lucidità di alcuni reclusi.

 

https://www.shalom.it/blog/news/chi-scrivera-la-nostra-storiay-le-testimonianze-nascoste-degli-ebrei-del-ghetto-di-varsavia-b260701

Dalla prefazione che Primo Levi aveva scritto per un’edizione precedente (Giuntina, 1995), ritroviamo la classica interpretazione giobbica, secondo cui il poeta è l’uomo colpito dal dolore che leva in alto il suo grido: “Qui è Giobbe che parla, un Giobbe moderno più vero e compiuto dell’antico, ferito a morte nelle sue cose più care, nella famiglia e nella fede, orbo ormai (perché? perché?) dell’una e dell’altra. Ma alle domande eterne del Giobbe antico si erano levate voci in risposta, le voci prudenti e timorate dei «consolatori molesti», la voce sovrana del Signore: alle domande del Giobbe moderno nessuno risponde, nessuna voce esce dal turbine. Non c’è più un Dio nel grembo dei cieli «nulli e vuoti», che assistono impassibili al compiersi del massacro insensato, alla fine del popolo creatore di Dio”. Non seguiremo la linea giobbica, bensì quella suggerita dal testo stesso, ove il popolo sterminato nei campi viene percepito come nuova versione della valle dalle ossa inaridite (Ez 37, 1-14).

[…] Ezechiele, tu un yid nella valle di Babele, tu vedesti le ossa prosciugate del tuo popolo e perduto

fosti tu, Ezechiele. E inanimato come un burattino dal tuo supremo ti lasciasti portare in quella valle.

Il canto di Katzenelson si rivolge a Ezechiele, l’uomo a cui il Signore chiede di profetizzare sulle ossa inaridite perché possano ritornare in vita.Trasportato “in spirito” in quella valle, Ezechiele “sente e vede” (Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente- v. 7) mentre pronuncia le parole che gli sono state affidate dal Signore.

Ezechiele è un yid (contrazione di yiddish, termine volutamente lasciato nell’originale dal traduttore), un ebreo. Ma nel campo di concentramento, dove milioni di yid hanno trovato la morte, quella valle di ossa inaridite è, in confronto, piccola cosa. Qui neppure Ezechiele avrebbe il coraggio di rivolgersi agli uccisi come un tempo aveva saputo fare, pieno di fede e di speranza nelle parole del Signore.

Gustave Doré

E ti lasciasti andare a una domanda: “Tihièna?(Vivranno?)”. Dimmi torneranno

a vivere le ossa? Non sai se sì o no.

E allora io, cosa posso mai dire? La sventura,

non restano le ossa del popolo mio mandato a morte.

 

Niente su cui distendere una carne e una pelle

a coprire e in cui soffiare un fiato.

Vedi, vedi, un popolo messo a morte per intero,

un popolo morto ci fissa, guarda a noi con occhi irrigiditi.

Degli ebrei condotti al macello non restano neppure le ossa su cui far ricrescere carne e pelle (Guardai, ed ecco apparire sopra di esse i nervi; la carne cresceva e la pelle le ricopriva Ez 37,8), nulla su cui soffiare l’alito di vita (Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano – v. 9). In mancanza del segno delle ossa, l’annientamento di un popolo è tutto quello che, paradossalmente, Ezechiele può ora vedere. L’unica visione possibile è il nulla, lo spazio lasciato vuoto da un popolo morto, dal quale ci si sente “guardati”. Il gioco dei verbi del guardare e vedere richiama la vista profetica per ribaltarla nel suo fondamento.

[…] Non esistono più. E sulla terra più non ci saranno.

Li ho inventati io, sì, ecco siedo e li invento.

Ma verità sono le loro pene che tu vedi, il dolore, il dolore

del loro annientamento è vero e sconfinato.

 

Vedi, stanno in lungo e in largo tutti intorno a me

e tutti loro, mentre un brivido mi traversa il corpo,

mi fissano con il rimpianto agli occhi di Bentzi e di Yomek

mi fissano tutti loro con gli occhi addolorati di mia moglie.

Il popolo annientato e indistinto nel numero di “milioni” dei primi versi, assume improvvisamente il volto amato di moglie e figli. Il dolore è l’unica visione possibile nell’oggi – forse la memoria dell’ultimo sguardo, che il poeta sente ancora su di sé come un brivido. Per questo continuare a vivere non può che essere “malasorte”.

[…] La mia Hanna l’hanno portata via con i nostri due figli.

La mia Hanna sa, insieme a lei furono trascinati.

Ma non sa dov’è Tzvì, né di me sa dove sono finito,

non sa della mia malasorte, non sa che vivo.

 

Alza gli occhi sopra di me, come li alza muti

su di me tutto l’intero popolo, ma è come se non mi vedesse.

Vieni mia silenziosa e piena di dolore, vieni Hanna, vieni,

guarda, senti la voce mia, e riconoscila.

 

Katzenelson con i due figli maggiori

 

Quegli occhi silenti dai quali il poeta si sente guardato appartengono a una visione profetica di diversa qualità. A quegli occhi “muti” infatti non si può corrispondere. La loro presenza silenziosa egli però invoca, nonostante tutto, chiamando il nome della moglie – come se nella donna vi fosse l’intero popolodolente per il quale egli suona e canta il suo lamento funebre.

Ascolta Bentzi, mio giovanotto, mio sapiente, tu comprendi

L’Ecà/Lamentazioni dell’ultimo tra gli ultimi degli yidn.

E tu, Yomele mio, mio luminoso e mia consolazione,

dove sta il tuo sorriso Yom? Sì, il sorriso, ma tu non sorridere.

 

Lo temo, Yomele, il sorriso, come si può tremare

pure del sorriso. Ascoltami cantare,

ho scagliato la mano sopra l’arpa come gettare il cuore

e che possa farci ancora più male, più dolore e rimpianto.

Se alla moglie, statua di dolore, chiedeva di essere riconosciuto dalla voce, i figli minori sono ritratti con attributi di sapore biblico: mio sapiente, mia consolazione. I figli perduti sono l’unico appiglio quando la profezia biblica più non risponde.

Ezechiele, lui no, Geremia nemmeno, non mi serve.

Li ho chiamati: “Aiutatemi, venitemi in soccorso”.

Ma non li aspetterò per il mio ultimo canto,

se ne stiano tra le loro profezie, io me ne sto con il mio immenso affanno.

(2. Io suono, 15 ottobre 1943)

Sono i bambini uccisi a udire le lamentazioni profetiche, ma non è il grido di Geremia a raggiungerli. E i loro sguardi si levano là dove Ezechiele non avrebbe la speranza necessaria per profetizzare ancora. Assieme ai profeti biblici, il poeta ha perduto anche il suo Dio, in questo canto neppure citato, il quale appare carsicamente negli altri per dire la sua assenza: Cieli svuotati e desolati, cieli come un deserto vasto e vuoto, ho / in voi perduto il mio Dio solitario (9. Ai cieli). Non rinnegato, Dio è assente, perduto. Non in cielo, ma semplicemente in alto vi è un popolo dagli occhi muti e addolorati. Un popolo annientato con i suoi bambini.

Furono i primi uccisi, i bambini yiddish, tutti loro, il mazzo

dei senza padre e madre, bambini divorati dal freddo, pidocchi e fame,

santi messia santificati dalle sofferenze. Dite, per quale punizione?

 

Furono i primi, afferrati per essere messi a morte, i primi sopra il carro,

li hanno scaraventati nei grandi vagoni come mucchi di stracci, spazzatura,

deportati, ammazzati, annientati, non c’è traccia

di loro, dei migliori dei miei, niente è restato. Guai a me, sventura su di me, maledizione.

(6. I primi – 2, 3, 4 novembre 1943)

Gli orfani di padre e madre sono i primi a essere messi a morte. I più facili da annientare. Gli innocenti. Tanti piccoli messia.

 

Guido Reni, La strage degli innocenti (1611), dettaglio

YHWH! Io Ci Sono…

Scritto da  NORMA  ALESSIO.

 

Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero, sacerdote di Madian, e, guidando il gregge oltre il deserto, giunse alla montagna di Dio, a Oreb. L’angelo del SIGNORE gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo a un pruno. Mosè guardò, ed ecco il pruno era tutto in fiamme, ma non si consumava. Mosè disse: «Ora voglio andare da quella parte a vedere questa grande visione e come mai il pruno non si consuma!»Il SIGNORE vide che egli si era mosso per andare a vedere. Allora Dio lo chiamò di mezzo al pruno e disse: «Mosè! Mosè!» Ed egli rispose: «Eccomi».Dio disse: «Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo sacro». Poi aggiunse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe». Mosè allora si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio. (Es 3,1-6)

Questo episodio dell’Antico Testamento è una delle espressioni della manifestazione di DIO (teofania), che annuncia a Mosè la missione di condurre il suo popolo fuori dall’Egitto e la voce è accompagnata da elementi dei sensi come la vista, l’udito, la sensazione del caldo, il tatto. Lo troviamo presente anche nel Corano dove Mosè osserva un incendio nella Valle di Tuwa e Dio che lo chiama dal lato destro della valle da un roveto, su ciò che è venerato come Al-Buq‘ah Al-Mubārakah “la terra benedetta”.

La tradizione cristiana ha dato al fenomeno del Roveto più di una interpretazione, sia iconografica che teologica e la sua diffusione nell’arte è avvenuta con stili diversi nel mondo secondo le culture locali.Nei primi secoli dell’arte cristiana l’immagine compare nella sua forma più semplice, con Mosè che si slaccia i sandali, il roveto vicino e la mano di Dio che compare dall’alto, come nel mosaico nell’arco trionfale del monastero di Santa Caterina (1)  sul Sinai del VI secolo, antico luogo sacro dove si pensa sia avvenuto l’episodio, non solo per i cristiani ed ebrei, ma anche per i musulmani.

 

(1)

 

Dal IV secolo la teofania si arricchisce di un significato profondo attraverso il pensiero dei Padri della Chiesa e lo sviluppo dei testi liturgici. A partire dal V secolo, i Padri greci hanno interpretato il roveto ardente come una prefigurazione della Madre di Dio, quale strumento e luogo dell’Incarnazione, che conservò intatta la sua verginità senza essere consumata dal “fuoco dell’essenza divina” (lo Spirito Santo). Il Roveto così divenne un simbolo e un nome, quello di Maria, che rimase Vergine pur diventando Madre, mistero incomprensibile agli uomini, come la coesistenza tra le fiamme e la legna di un roveto, un parallelo che ha ispirato molti artisti. Nei dipinti comunque coesistono nei secoli entrambe le interpretazioni. Una delle raffigurazioni della Madre di Dio come un “Roveto ardente”, in cui la visione di Mosè si fonde con il mistero dell’Incarnazione, si trova nella scena centrale del Trittico della fine del XV secolo, detto del Roveto, nella cattedrale di Saint Sauveur in Aix-en-Provence (2), del pittore francese Nicolas Froment, ricca di significati simbolici. Maria è nel mezzo di un cespuglio ardente ma fiorito, con in braccio Gesù che tiene uno specchio in cui entrambi sono riflessi, come cita il libro della Sapienza al versetto 26 del Capitolo 7: “È un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà”; simbolo della Salvezza, che si contrappone al medaglione indossato dall’angelo, che ricorda l’Annunciazione, in cui sono impressi Adamo ed Eva con il serpente, simbolo del peccato originale.

 

(2)

 

Sandro Botticelli, tra il 1481 e il 1482, invece, nell’affresco realizzato nel registro mediano della Cappella Sistina in Vaticano, identificato come le “prove di Mosè”(3)  colloca questo episodio in alto a destra tra altre scene in un unico riquadro, realizzate in parallelo alle Storie di Cristo, con lo scopo di indicare la continuazione tra Antico e Nuovo Testamento. Egli descrive semplicemente quanto è raccontato nella Scrittura: Mosè che si toglie i sandali e di nuovo lui che si avvicina al roveto ardente, con finale in basso a sinistra, in cui esaudisce la richiesta di Dio guidando il suo popolo verso la Terra Promessa.

(3)

 

A comprova della varietà di interpretazioni indipendenti dal periodo storico, a Brescia, probabilmente nel 1529, Alessandro Bonvicino detto Moretto eseguì l’affresco (4) nel soffitto della cappella del palazzo del vescovo Mattia Ugoni, ora staccato e conservato a Brescia nella Pinacoteca Tosio Martinengo, in cui Mosè è visto di scorcio, nell’angolo in basso a sinistra, mentre avanza, in primo piano verso il centro; porta la mano sinistra agli occhi e tiene nella destra il bastone, davanti a lui il gregge di pecore; in secondo piano, più in alto a destra, il roveto ardente in cui appare solo Maria, incoronata Regina, di tre quarti con le mani giunte e il viso volto a destra, priva di Gesù.

 

(4)

 

Anche il pittore ebreo russo Marc Chagall, tra il 1960 e il 1966, include nella tela esposta a Nizza al Museo Nazionale del Messaggio Biblico (5) , la scena della missione che è stata affidata a Mosè: il cespuglio ardente è al centro della composizione e Mosè, sulla destra, cade letteralmente in ginocchio prima dell’incontro con il divino, qui rappresentato dall’angelo. Sulla sinistra, un’enorme onda, a forma di un corpo, di una folla di persone, gli Egiziani inseguitori, e una nuvola di luce che li divide dagli Ebrei che si mettono in salvo; sulla sommità c’è il volto di Mosè, giallo come la luce, dopo aver ricevuto le tavole della legge. Il rosso e il giallo, contrastando il blu dello sfondo, sembrano formare un arcobaleno, simbolo spesso utilizzato per raccontare la teofania, che collega i due episodi.

 

(5)

 

Anche il Maestro dell’arte “visionaria” e “realismo fantastico”, l’austriaco Ernst Fuchs, nato nel 1930, figlio unico di un rigattiere ebreo e di una sarta cattolica, che all’età di 12 anni fu battezzato per sottrarlo alle persecuzioni naziste, dà la sua versione del Roveto ardente (1957) , conservata nel Belvedere Superiore di Vienna (6) . Qui non riconosciamo più nulla dell’interpretazione degli artisti prima citati, dove il roveto in fiamme e il fuoco stesso sono come umanizzati. Eglitenta invece di far vedere ciò che non è visibile, raggiungendo uno stato visionario che va oltre le modalità ordinarie della percezione e rende le immagini delle figure meno consistenti e poco definite, ulteriormente alleggerite con i colori applicati fino al raggiungimento dell’immaterialità, trasmettendo un senso di irrealtà della dimensione ultraterrena. Le sue opere combinano elementi della pittura medievale con motivi ispirati all’arte del modernismo.

 

(6)

 

Un esempio recentissimo dello stesso episodio biblico, del 2012, di padre Marko Ivan Rupnik, è rappresentato in un moderno mosaico, nel lato sinistro dell’abside della Chiesa del Collegio San Lorenzo da Brindisi a Roma (7) . Mosè di fronte al mistero del roveto ardente, attraverso il velo che gli copre il volto “vede” un fuoco che brucia e l’immagine della Vergine, Madre di Dio, che tiene teneramente la testa di Gesù con aureola crucifera, simbolo di quello che gli accadrà; accanto i sandali e il bastone spesso al fianco di Mosè in molti eventi miracolosi secondo quanto è riportato nelle scritture.

 

(7)

 

Vi sono altre raffigurazioni del Roveto ardente che ci permettono di identificare i diversi piani su cui si svolge l’incontro tra l’arte cristiana e le culture delle immagini in Europa, in Africa, in America latina o in Asia, pur nella diversità di stili.

Vediamo una risposta indiana alla lettura dell’episodio biblico in una stampa su batik del 1984 di Paul Koli (8) , artista formatosi a Kyoto con gli insegnanti dell’Asian Christian Art Association. La presenza dei personaggi è incentrata sulle impronte delle mani (di DIO), dei piedi scalzi (di Mosè) e degli occhi (lo sguardo), tipico della tecnica buddista dei tangka (pitture portatili su tela che si arrotolano) tibetani e, ancora prima, nell’India antica per esprimere la manifestazione del divino con la presenza-assenza dei personaggi sacri, con ilsimbolismo della scena che ne coglie l’essenza o lo spirito.

(8)

 

Tutte queste iconografie, seppur diverse, offrono la possibilità di interiorizzare le Scritture permettendo il collegamento tra i vari elementi di ognuna, certamente dal fascino irresistibile.

 

Stelle: leva gli occhi al cielo!

Scritto da  MARIA NISII.

Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. (Mt 2)

Se il termine “magi” (magòi) va probabilmente interpretato nel senso di astrologi, ovverosia osservatori di quel cielo stellato che da sempre suggestiona gli uomini, la “stella” (astér) è un segno tutto da comprendere. Dalla profezia di Balaam (Nm 24,17) sappiamo che gli israeliti attendevano il Messia come un “astro”:

Io lo vedo, ma non ora,
io lo contemplo, ma non da vicino:
Una stella spunta da Giacobbe
e uno scettro sorge da Israele,
spezza le tempie di Moab
e il cranio dei figli di Set

La stella di cui parla il vangelo di Matteo è dunque più una figura messianica che un astro luminoso del cielo, tanto che in Apocalisse Cristo si autoproclama «la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (22,16).

Nonostante questo c’è chi si è ingegnato a cercarne l’identificazione con la cometa di Halley, ma neppure questo funziona visto che, secondo i calcoli, il suo passaggio sarebbe avvenuto il 12 a.C., all’incirca 6 anni prima della nascita di Gesù.

Nel Nuovo Testamento però troviamo altre “stelle”:

E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino. (2Pt 1,19)

Nella seconda lettera di Pietro la “stella del mattino” è segno della fede, associata alla lampada che brilla nell’oscurità, immagine già presente nei vangeli. D’altra parte è su questa simbologia che il Natale del Signore cade il 25 dicembre sostituituendosi alla nascita di Mitra, dio del sole, nel Diesnatalis Solis invicti, stabilita dall’imperatore Aureliano nel solstizio d’inverno.Come alcune icone mostrano al di là di ogni sospetto, Cristo è il Sole di giustizia (Mal 3,20), Sole che sorge dall’alto (Lc 1,78).

 

 

 

 

Dalle stelle al sole, lo stesso tema è ulteriormente rimodulato come “luce”, una simbologia abbondantemente presente nel quarto vangelo dove, sin dal prologo, Cristo è luce e luce che splende nelle tenebre:

In lui era la vita

e la vita era la luce degli uomini;

la luce splende nelle tenebre,

ma le tenebre non l’hanno accolta. (1,4-5).

È per questo che, pur non avendo la narrazione della nascita, il prologo giovanneo è letto il giorno di Natale per quell’annuncio della venuta nel mondo di Cristo, luce vera:

Veniva nel mondo la luce vera,

quella che illumina ogni uomo.(1,9)

La luce nel vangelo di Giovanni è Cristo, la cui presenza negli uomini è segno della fede in Lui, che rende i credenti “figli della luce”:

Mentre avete la luce, credete nella luce, per diventare figli della luce (12,36)

Se il credente è figlio della luce, non sarà più “cieco” ma vedente. Non più incredulo, ma credente. Da qui le guarigioni dei ciechi e in specie del cieco-nato (Gv 9). Analogo riferimento è anche presente nel matteano discorso della montagna:

Voi siete la luce del mondo … Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini (Mt 5,14.16).

Come noto l’antitesi giovannea luce-tenebre richiama la prima pagina della Bibbia – già evidente dall’attacco: In principio…(Gen 1,1 e Gv 1,1)  in cui il fare ordinatore di Dio fa sgorgare la luce laddove regnava il caos. Di questo racconto fondativo il quarto vangelo si offre come riscrittura (già la Bibbia riscrive se stessa!), arricchendo il linguaggio dualistico di altre coppie antitetiche: verità-menzogna (vv. 9-10), accogliere-rifiutare (vv. 11-12).

L’autoproclamazione giovannea di Gesù Io sono la luce del mondo (Gv 8,12) riecheggia in Cristo luce del mondo!, acclamazione nella liturgia della luce che dà il via alla veglia pasquale, dove il gioco di luce e buio è al centro della ricca simbologia liturgica. Qui il cero pasquale, immagine di Cristo, viene acceso, al buio, dal fuoco predisposto all’esterno della chiesa. E dal cero attingono le fiaccole per illuminare i “figli della luce”.

 

 

Stelle, sole e luce paiono allora varianti sul tema. Una simbologia ricca, adatta alla cristologia, la quale oltre che narrativa è invariabilmente poetica – come la modulazione in versi del prologo giovanneo evidenzia. E tuttavia non si può negare che tali associazioni di Cristo a stelle, sole e luce siano di gusto vagamente paganeggiante, come le tante divinità cosmiche ricordano. Qualcosa di questa preoccupazione è evidente nel timore del teologo Bonhoeffer di profondersi in un inno al sole:

«Io amo in modo particolare il sole; esso mi ha spesso ricordato che l’uomo è stato creato dalla terra, e non è fatto di aria e di pensieri. Ciò fino al punto che un giorno a Cuba, quando mi fu chiesto di formulare una preghiera – si era in periodo natalizio -, arrivando io dal ghiaccio del Nord America in quella lussureggiante vegetazione, stavo per lasciarmi sopraffare dal culto per il sole, e quasi non sapevo che cosa avrei detto nella preghiera. Fu una vera crisi, e qualcosa di simile mi capita ogni estate, quando sento il sole. Per me il sole non è una realtà astronomica, ma qualcosa come un potere vivo, che amo e temo».(Dietrich Bonhoeffer)

L’ambiguità delle immagini luminose è già naturalmente nota a quel florilegio di simboli che è Apocalisse ove, oltre alla già citata stella messianica del mattino, vi è un’altra stella di tutt’altro segno:

Il terzo angelo suonò la tromba: cadde dal cielo una grande stella, ardente come una fiaccola, e colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque.La stella si chiama Assenzio; un terzo delle acque si mutò in assenzio e molti uomini morirono a causa di quelle acque, che erano divenute amare.(Ap 8,10-11)

La stella Assenzio è uno dei flagelli del settenario delle trombe, che si abbattono sulla terra provocando effetti terrificanti e mortiferi. Se infatti le stelle cadenti richiamano il desiderio (nell’etimo: de-sidera) che ci fa stare con il naso all’insù nelle notti estive, esse suscitano pure paure più o meno fondate. È su questo secondo caso che si basa il recente film (con un cast stellare!) Don’t look up, la cui trama è incentrata attorno alla minaccia di una cometa che sta per abbattersi sulla terra, provocandone la distruzione. Che la storia sia raccontata in modo irridente nulla toglie al carattere apocalittico di questo grande simbolo che ha attraversato la storia dell’umanità.

 

 

E in fondo la biblica cometa che spinge i magi a mettersi in viaggio non dice come un fenomeno celeste possa segnalare eventi eccezionali a chi quel cielo sia disposto a scrutare? Origene in Contra Celsum (I, 58-59) cita il trattato Sulle comete dello stoico Cheremone, precettore di Nerone, ricordando come prassi consolidata l’apparizione di comete o di nuovi astri in occasione della nascita di personaggi importanti. E se Origene ha bisogno di confutare le tesi del suo avversario su questo punto, possiamo dedurre che si trattava di un fenomeno dalla controversa interpretazione.

Evidentemente il cristianesimo primitivo conosceva l’ambigua simbolica religiosa, ma tutto sommato non se ne preoccupa troppo nella misura in cui Dio creatore genera la luce e le luminarie celesti (opera delle sue mani, Sal 19) senza identificarsi in esse. Le rappresentazioni artistiche in questo sono più efficaci di tante parole, quando distinguono tra la luce naturale e la luce soprannaturale, divina – come nelle tele di Caravaggio, tanto per citare uno dei nomi più noti.

 

Caravaggio, Cena in Emmaus

 

Nei testi biblici la luce è essenzialmente simbolo della rivelazione di Dio e della sua presenza tra gli uomini – che scalda, illumina, guida e conforta. Ed è così che la troviamo nella Commedia di Dante, ove le tre Cantiche di Inferno, Purgatorio e Paradiso si congedano ogni volta invitando il lettore a sollevare lo sguardo.

salimmo su, el primo e io secondo,

tanto ch’i’ vidi de le cose belle

che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

(Inferno, XXXIV, 136-139)

Se le “stelle” rimandano alla “conoscenza rivelata e resa visibile” (V. Sermonti), Dante esce dall’Inferno già guardando al Purgatorio nel giorno in cui, secondo gli studiosi, cade la Pasqua del 1300. Le stelle sono visibili solo uscendo dagli abissi delle tenebre e del male, attraversati nell’Inferno e prima ancora nella personale selva oscura.

 

 

Io ritornai da la santissima onda

Rifatto sì come piante novelle

Rinovellate di novella fronda,

puro e disposto a salire le stelle.

(Purgatorio, XXXIII, 142-145)

 

 

A conclusione del Purgatorio Dante, a sua volta “purificato”, può salire alle stelle, perché la via del cielo è aperta. Il poeta può quindi accedere al Paradiso, dove potrà contemplare la beatitudine e la grazia di Dio.

A l’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

(Paradiso, XXXIII, 142-145)

 

 

Nel Paradiso Dante ha visto Chi muove il mondo e porta la luce nella vita degli uomini e delle donne: l’Amore. È l’Amore a muovere. A noi alzare gli occhi a mirar le stelle.

___________________________

  • In copertina: GIOTTO, Cappella degli Scrovegni, ( Padova).

https://www.youtube.com/watch?v=syDOhOF0tcc

Maria…chi?

Scritto da  MARIKA BONONI.

 

Non esistono narrazioni prive di conseguenze” (p. 121) scrive Michela Murgia in Ave Mary, E la Chiesa inventò la donna edito da Einaudi nel 2011, riferendosi alle parole che la tradizione cristiana ha da sempre usato per descrivere la figura di Maria.

Le parole che scegliamo raccontano il nostro modo di vedere il mondo, interpretarlo, realizzarlo nella nostra quotidianità e il linguaggio, così etereo e distante da ciò che è immanente, eppure così decisivo nella formazione delle immagini mentali che poi si tramutano in pensieri e azioni nella società, è fondamentale.

È importante dunque scegliere accuratamente gli aggettivi che descrivono i personaggi di un libro essenziale per la costruzione morale, politica e sociale di una civiltà? Certamente sì e quando il testo in questione è la Bibbia le conseguenze di tali scelte nel passato si trovano in tutti i libri di storia.

Oggi, alla luce della violenza che quotidianamente si scatena contro le donne, si impone l’obbligo di riflettere sulle parole adottate nel cattolicesimo per descrivere Maria, in quanto esse, scrive Michela Murgia,  hanno avuto un ruolo notevole nella costruzione dell’immagine della donna come soggetto passivo in tutti gli ambiti dell’esistenza umana. Maria la silenziosa, accogliente, remissiva custode del focolare, umile, serva obbediente, equilibrata in tutte le scelte e i momenti, spesso difficili, della sua vita. Si fatica così a immaginarla intenta a riprendere duramente il figlio che si rifiuta di intervenire alle nozze di Cana, così come l’ha narrata l’arguto (e simpaticamente irriverente) vignettista Don Giovanni Berti, con un minacciosissimo battipanni in mano. ( http://www.vigiova.it/gioba/backstage-di-un-miracolo )

 

E si fatica anche a immaginarla “sovversiva”, così come l’ha definita Michela Murgia in Ave Mary nel paragrafo che porta proprio questo titolo (p.115). L’autrice ci propone una narrazione diversa, quella di una donna, Maria, che ha testualmente “fatto saltare il tavolo, ha stabilito le condizioni del riscatto, ha voltato la carta della storia di Israele” perché con il suo ha riportato l’equilibrio dei poteri fra uomini e donne in una società fortemente patriarcale come quella giudaica al tempo di Gesù. Partendo dall’Annunciazione infatti, la Murgia rileva fin da subito la prima novità: il messaggero del Signore, contravvenendo alle regole millenarie che esigevano, per ogni questione riguardante il corpo delle donne, di rivolgersi all’uomo più vicino a lei (l’Angelo aveva annunciato a Abramo l’imminente nascita di Isacco, a Zaccaria l’arrivo di Giovanni…) interpella direttamente lei e, cosa ancor più sorprendente, Maria risponde autonomamente, senza anteporre al suo sì, come ci si aspetterebbe, il permesso di suo padre o di Giuseppe. Un assenso peraltro avvenuto non immediatamente, in ossequioso rispetto della gerarchia allora vigente non solo fra creature umane e creature angeliche, ma anche e soprattutto fra uomini e donne, bensì seguito a una esplicita richiesta di spiegazioni: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?” (Lc 1,34). Michela Murgia ci descrive una giovane donna certamente stupita e intimorita nell’istante della sorprendente apparizione, ma per nulla passiva di fronte al dispiegarsi degli eventi, assolutamente consapevole di quel che avrebbe comportato la sua obbedienza sia in termini di immagine sociale (lo stigma nel migliore dei casi, la lapidazione nel peggiore) che famigliare (come avrebbe reagito alla gravidanza inattesa il suo promesso sposo? E suo padre?). Una donna tenace e coraggiosa, determinata, intraprendente e, soprattutto, indipendente. Eppure così lontana, pare, dal muto strumento della volontà Altrui, espressione della mitezza e remissività, esclusivamente timorosa e così estremamente pudica (si pensi ad esempio alla celebre tavola di Simone Martini esposta alla Galleria degli Uffizi a Firenze) trasmessa per secoli dalla tradizione cattolica e modello ideale per centinaia di migliaia di donne (e di uomini) che basavano il proprio giudizio di sé ( o delle mogli, fidanzate, sorelle e madri) su questa specifica narrazione.

 

Simone Martini, Annunciazione, 1333 d.C., Galleria degli Uffizi, Firenze

 

Beninteso, la Murgia (che ha una formazione teologica di base e che di norma si occupa di narrativa e non di teologia) in questo libro si avvale del contributo di studi accurati condotti anche da teologhe (quali Adriana Valerio e Marinella Perroni) che da decenni ormai indagano su un nuovo modello mariano, maggiormente fedele alla Scrittura e all’essenza autentica delle donne. Non si tratta quindi di presentare un’esegesi poco ortodossa e completamente nuova, la Madonna della scrittrice sarda non è originale, non è neppure innovativa, però è sconosciuta. E cosa succede quando, tradendo peraltro la Scrittura stessa, si  propone un ideale modellato su un preciso sistema gerarchico famigliare e sociale, in un’epoca in cui tale sistema (finalmente) comincia a essere messo in discussione?

L’unico destino che spetta a un modello troppo lontano per essere imitato è essere rigettato, e se necessario anche dissacrato” (p.82) scrive la Murgia e la copertina di dicembre del mensile berlinese Siegessäule con la foto dell’attivista lgbt+ Riccardo Simonetti nei panni di Maria non può far altro che dimostrarlo.

https://www.open.online/2021/12/08/riccardo-simonetti-madonna-trans-europa/