La stoffa dello scritto

 

 

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

 

Ettore Moscatelli, fratello della Sacra Famiglia, è una figura piuttosto nota nell’ambiente della carità torinese per il suo impegno nei campi nomadi. Meno nota invece è la sua carriera pubblicistica che risale a lunga data e lo ha visto cimentarsi soprattutto nel genere biografico. Il volumetto Gesù adolescente. Un vangelo apocrifo del terzo millennio, uscito lo scorso anno per Effatà, è un saggio interessante dei suoi interessi narrativi. La proposta di Moscatelli non è originale di per sé, ma è curioso il suo modo di procedere.

 

 

Molti autori, infatti, si sono cimentati con episodi della vita di Gesù che è stata rinarrata secondo angolature diverse, spesso con cambiamento del punto di vista affidato a qualche personaggio del racconto. E in effetti anche il testo di Moscatelli ricorre abbondantemente a questo stratagemma. Altrettanto frequente è la tecnica della trasposizione di alcuni episodi evangelici in contesti differenti, così che assumono dei contorni meno scontati e passano alla categoria di elementi di cronaca sulla bocca di altri personaggi.

Il tratto più peculiare si può invece scorgere nell’uso di altro materiale biblico che viene inserito nelle riflessioni dei personaggi. Di fatto il loro modo di esprimersi è un centone di citazioni della Scrittura che vengono ricollocate in uno spazio diverso. In alcuni casi il riferimento viene indicato in nota, altre volte è lasciato alla cultura del lettore che può coglierlo o meno a seconda della sua dimestichezza con il testo sacro. Di per sé, infatti, percepire questi rimandi non è indispensabile per capire il racconto, tuttavia è un gioco simpatico che l’autore avvia con i suoi lettori, una sorta di gioco enigmistico in cui chi è più bravo riuscirà a scovare tutti i riferimenti.

 

 

Moscatelli scrive, per sua stessa ammissione, con l’intento di divulgare le sue riflessioni spirituali sul testo biblico. Questo patto con il lettore è una precisazione onesta perché scopre le sue carte e non vuole proporre un vangelo più credibile ma soltanto una sua ricostruzione personale che può aiutare chi vuole immedesimarsi nella vicenda, soprattutto se credente. Il risultato non è sempre convincente e a volte si ha l’impressione che le divagazioni ci allontanino dal cuore del racconto. Del resto, se si vuole rinarrare un episodio che nel vangelo di Luca occupa pochi versetti è giocoforza ricorrere a questi espedienti oppure inventare di sana pianta alcune situazioni.

Moscatelli opta per l’ortodossia ed è una scelta non solo rispettabilissima, ma alla lunga vincente rispetto a quei narratori che hanno lasciato briglia sciolta alla loro fantasia (personalmente non ho mai perdonato a un grande scrittore come Eric Emmanuel Schmitt la scena de Il vangelo secondo Pilato in cui Gesù consegna una spilla alla sua fidanzata Rebecca dopo aver consumato il dessert [sic!]). Se non altro, questo favorirà una maggior attenzione verso il testo biblico e questo rientra di certo nelle intenzioni di Moscatelli. A volte non è fondamentale avere la stoffa dello scrittore, basta essere consapevoli che dalla stoffa dello scritto si possono cucire vestiti assai diversi e sempre utili.

 

 

Qohelet a Mirafiori

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Vanità delle vanità, dice Qohelet,

vanità delle vanità: tutto è vanità.

 

Pochi giorni al Primo Maggio, Festa dei Lavoratori.

Sobbalzeranno i biblisti da un lato e i sociologi del lavoro dall’altro. Eppure sono questi versetti che mi risuonano in mente, ogni volta che mi trovo a costeggiare gli sterminati capannoni degli stabilimenti di Mirafiori: uno dei luoghi topici del lavoro ( e della società e della vita tutta) di Torino, oggi in larghissima parte, e da tempo, inutilizzati o destinati ad usi diversi rispetto a quelli per cui erano stati concepiti e alacremente vissuti dalla loro costruzione fino a qualche decade fa.

Recita la didascalia della cartolina in bianco e nero riprodotta qui sotto: Torino, vista aerea dei grandiosi stabilimenti della Fiat Mirafiori. Puo’ sembrare ingenua da un lato e propagandistica dall’altro ma  in realtà non era né l’una né l’altra cosa: veramente gli stabilimenti erano stati concepiti e messi in opera come  grandiosi. “Mirafiori è il più grande complesso industriale italiano tra i piu’ grandi in Europa. Occupa una superficie di 2.000.000 di m2. Al suo interno si snodano 20 chilometri di linee ferroviarie e 11 chilometri di strade sotterranee che collegano i vari capannoni. La palazzina degli uffici, che si affaccia su corso Giovanni Agnelli, è un edificio di 5 piani lungo 220 metri, ricoperto di pietra bianca di Finale….”

 

 

 

 

Una vera e propria cittadella: in grado di cambiare in buona parte il volto della città intera. Un tempio del lavoro, nei due sensi: intanto  quello della capacità, della tecnica, della attività, della creatività, della organizzazione, dello stile, della produzione. Un’altra cartolina gongola: Torino nell operosità, affiancando la classica e un po’ severa veduta tradizionale della Mole ai moderni monumenti industriali della Fabbrica per eccellenza: Lingotto, e Mirafiori.

 

 

Ora questi stabilimenti restano, ma sono vestigia di un tempo che fu e di un’epoca conclusa.  Per quanti l’hanno vissuta, , sembrava definitivamente acquisita e consolidata, e invece si è dissolta sotto il repentino mutamento di scenari economici e sociali, dominati dalla globalizzazione e dal brusco cambiamento di prospettive e contesti.

Vale la pena vedere un pezzetto di una trasmissione RAI di Gad Lerner dedicata all’argomento:

 

 

In un secondo senso, Mirafiori e i suoi stabilimenti furono un vero e proprio  tempio:   per la vita sindacale, per il movimento operaio, per le rivendicazioni sociali, per la formazione della coscienza dei lavoratori, epicentro di terremoti destinati a cambiare il volto della società italiana, dall’autunno caldo alla marcia dei quarantamila. Luogo cruciale per la classe operaia e  per la lotta di classe, dunque per una considerevole fetta di cultura e di politica che ad esse faceva riferimento. Anche questo intero mondo, così come lo abbiamo conosciuto per almeno tre decenni, è profondamente cambiato nei suoi fondamentali, fino a scomparire nei suoi aspetti più evidenti. Anch’essi, per tutto quel periodo, asse portante della vita cittadina e nazionale.

 

 

Aggirandosi oggi, intorno ai mitici “ cancelli di Mirafiori”, ai capannoni allora brulicanti di lavoratori di ogni tipo e oggi irriconoscibili e quasi “deserti” in confronto, suonano espressive le parole di Qohelet:

 

Quale guadagno viene all’uomo

per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?

Una generazione se ne va e un’altra arriva,

ma la terra resta sempre la stessa.

Il sole sorge, il sole tramonta

e si affretta a tornare là dove rinasce.

Il vento va verso sud e piega verso nord.

Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento.

Tutti i fiumi scorrono verso il mare,

eppure il mare non è mai pieno:

al luogo dove i fiumi scorrono,

continuano a scorrere.

 

Davanti a quei cancelli e in quel piazzale, una quantità di giornate scandite da slogan urlati nei megafoni, da cortei con striscioni e tamburi ritmati, da comizi e manifestazioni. Con una partecipazione tale da spaccare, letteralmente in due, in quei giorni, la città, creando una muraglia umana che era assolutamente impossibile penetrare dal traffico normale. Con una colonna sonora restata indimenticabile per chi l’ha vissuta:

 

“Tutte le parole si esauriscono

e nessuno è in grado di esprimersi a fondo.

Non si sazia l’occhio di guardare

né l’orecchio è mai sazio di udire.

Quel che è stato sarà

e quel che si è fatto si rifarà;

non c’è niente di nuovo sotto il sole.

C’è forse qualcosa di cui si possa dire:

«Ecco, questa è una novità»?

 

 

“Questa è una novità?”: veramente, allora, davanti a Mirafiori, questa domanda non avrebbe potuto essere posta. Quella era una novità, eccome: una novità mai vista prima, uno tsunami che , ad onde concentriche, dalla cittadella industriale e insieme ad essa ha generato intorno a sé un intero quartiere ex novo, una urbanistica nuova, chiese e parrochie e oratori nuovi, nuove scuole, nuove infrastrutture. Soprattutto una popolazione nuova: ibrida, mescolata, fabbrica/dipendente e al contempo fabbrica/tutelata, con una lingua, un sentire e un sistema di riferimento mai esistiti prima. Tutto ciò e rimasto , ma,  allo sfaldarsi della citta/industria, ha dovuto affrontare tensioni, problematiche e stimoli completamente diversi e allora inimmaginabili.

 

“Ecco, questa è una novità»?

Proprio questa è già avvenuta

nei secoli che ci hanno preceduto.

Nessun ricordo resta degli antichi,

ma neppure di coloro che saranno

si conserverà memoria

presso quelli che verranno in seguito.”

 

Nessun ricordo. Il rischio , e il timore, è proprio questo. La scomparsa senza lasciare traccia. La perdita di un intero mondo, sorto, giunto al massimo di espansione ( con tutte le sue contraddizioni) entrato in crisi e rapidamente scomparso con una velocità tutto sommato impensabile e difficile da afferrare per quelli che lo hanno vissuto nella varie fasi. Tanto più se si considera che questo fenomeno di onda montante, maremoto, reflusso, bonaccia paludosa non è specifico solo di Mirafiori, ma riguarda molte altre zone , tutte quelle interessate dal cosiddetto indotto: buona parte della cintura industriale, o certe zone del Canavese. Lì, adesso, solo una disseminata teoria di capannoni chiusi, dismessi e in rovina  sta a testimoniare l’esistenza di una fase storica ben precisa, e  quanto intensa, tumultuosa e per molti versi prodigiosa essa sia stata.

 

 

 

Si potrebbe dire che, al pari delle rovine greche e romane, queste moderne vestigia restano a dimostrare non solo i fasti ma, plasticamente, anche la rovina. In questo caso i resti del boom industriale restano a testimoniarne il cosiddetto sboom. Solo che prima di catalogarli accademicamente come  una nuova pagina di “archeologia industriale”  vale la pena non dimenticarsi che ognuna di quelle realtà, allora  straordinariamente pulsanti di attività e produzione, centri numerosissimi di lavoro, non è stata solo fenomeno sociale e produttivo, ma anche e soprattutto pane e vita vissuta per migliaia e migliaia di persone e delle loro famiglie, che a finire come “ relitti di un passato scomparso” da raccontare a distratti nipotini non ci tenevano, e non ci tengono minimamente. Perché se esiste il pericolo del “ nessun ricordo” esiste anche quello del “solo ricordi”. Il disvelarsi delle magnifiche sorte e progressive dello sviluppo industriale come una delle tante vanità della storia, ha portato inevitabilmente con sé una miriade di crisi personali, piccole o grandi. Di riconversioni individuali e familiari rese imprescindibili. Di vite cambiate radicalmente , magari dopo uno strappo sulla pelle viva fatto anni prima, lasciando terre e paesi di origine nei 50 e 60 per la “terra promessa” del Lavoro nuovo. A tutti  loro si potrebbe adattare bene questa poesia di David Maria Turoldo, tratta dalla raccolta Mie notti con Qohelet

 

 

 

 

“Seconda notte”

Piove e la notte è ancora più cupa, Qohelet.

Amico delle verità supreme,

neppure di te sai dire

se una fede e quale

ti illumini oppure ottenebri la mente.

 

Anche tu di nessuna verità puoi dirti certo,

tale è la rasura delle parole.

Meno ancora Ragione ti giova:

non un bagliore che rischiari

il campo dal dubbio: è legge

che Ragione deve contraddirsi.

E dunque, in cosa credere, o Qohelet?

 

Già: in cosa credere? In cosa hanno creduto, in cosa hanno pensato di credere, in cosa hanno dovuto imparare a non credere, tanti di questi lavoratori di Mirafiori, protagonisti di una traiettoria di vita che ha rivoluzionato la loro, di vita, in almeno due, se non tre modi diversi?

Scrive il sociologo Fabrizio Floris:

“Uomini e donne che facevano parte di un flusso che si muoveva lungo un unico binario: casa-fabbrica, fabbrica-casa, costituito da movimenti ripetuti, che nel tempo si erano fatti istintivi. Eppure questo stare fianco a fianco per ore, anni, nello stesso luogo di lavoro, nello stesso quartiere, negli stessi problemi, aveva portato a sortire risposte comuni a problemi collettivi, era la politica che a tratti si scopriva comunità: una massa arretrata, ignorante, ingenuamente fiduciosa, ma non indifferente.

Ogni storia era un romanzo inedito di personaggi in cerca d’autore. Tutto appariva chiaro e distinguibile, lineare: destra/sinistra, lavoro/disoccupazione, integrato/escluso, giorno/notte era la modernità solida; adesso lavori, ma sei ai margini, non lavori e hai un reddito, un anno voti e l’altro lasci scheda bianca, non c’è contrapposizione identitaria ma una sommatoria che rende tutto indistinguibile (liquido). Anche il tempo si è fatto indistinto: è sfumata la separazione tra tempo lavoro e tempo libero ed è in atto l’assalto alla frontiera del sonno, l’ultimo competitor degli strateghi hi-tech, e così anche la notte è giorno. Mirafiori è diventata una periferia esistenziale, i cortili si sono svuotati, gli anziani sono rimasti soli, e la vita ha perso la sua dimensione collettiva e comunitaria per ripiegarsi nell’autosufficienza dell’Io e nel fingere di essere middleclass, ma è stata un’illusione.”

 

Tutto questo detto, e nonostante il fantasma di Qohelet, va detto e riconosciuto che questo repentino e imprevedibile tramonto ha generato non solo rimpianti e spaesamenti, ma ha sviluppato cose nuove, belle e in direzioni inaspettate :

“Come  spiega Bruno Manghi, “il declino non è diventato degrado, la storia è andata avanti a dispetto della storia». La Fondazione di Comunità e le parrocchie hanno messo in pista progetti per i giovani, gli anziani, il verde, un presidio Slow Food. Abbiamo, come racconta Davide Teta, «iniziato a muoverci come squali, non siamo pericolosi, solo che per sopravvivere dobbiamo, come gli squali, muoverci velocemente, andare fluidi e mutare rotta, se necessario, non possiamo stare fermi, altrimenti come gli squali moriamo». Da qui si prova compassione per quei cronisti che devono esercitare il loro mestiere in sonnolenti quartieri dai nomi altisonanti, perché a Mirafiori ogni giorno c’è una storia da raccontare e la realtà non finisce mai di sorprenderti. Per questo, quando cammino per le strade di Mirafiori sono pieno di soldi, l’aria è pulita, ho posti di lavoro da distribuire, la gente si informa sui giornali ed è parte attiva di una catena vitale che stringe mani che lavorano e, lavorando, trasformano la periferia in circolarità vitale. Non sono sogni, ma il nostro programma politico. L’oro si arrugginisce, la vita è alle spalle, e già ci precede quando siamo noi.”

 

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E questo è il fiore del partigiano

Scritto da  LORENZO CUFFINI .

Le Lettere dei condannati a morte della Resistenza sono un vero sacrario verbale,  memoria viva della coscienza personale e civile di un intero popolo, espressa nei modi e nelle forme più immediati intimi e solenni.  Si tratta di ” un genere eccezionalissimo di testimonianze; tutti, estremi addii di condannati a morte, di giustiziati. Quali possono essere i pensieri di un’ultima ora che non ha altra eguale in drammaticità? Quali prevalgono in quel terribile istante, anche nello spirito più forte e sereno, nel quale la capacità di dominarsi e di raccogliere in una netta e obiettiva visione fatti e giudizi è sovrastata dalla preoccupazione di nascondere debolezze e tormenti all’angoscia dei famigliari?”

” Queste lettere sono spesso di pochissime righe, ma possiamo tutte chiamarle lettere? Talora è solo un saluto convulso, un avviso segreto, un grido. Lasciato sulla porta del carcere di Monza, tracciato a tergo di un assegno circolare, graffito con la punta di un chiodo sul muro di una cella di via Tasso, o con uno spillo sulla copertina di una Bibbia.”

 

 

Così ne scrive Franco Antonicelli, che era stato  presidente del Comitato di Liberazione Nazionale, nel saggio “Per una storia spirituale della guerra di liberazione“. Pur con le caratteristiche  ricordate, che ne fanno un documento unico e eccezionale, e con il viluppo di motivazioni urgentissime compresse a forza in tempi e spazi che non erano loro dati, questi uomini e donne, per lo più giovanissimi, nella disomogeneità delle situazioni personali, delle storie, della loro formazione, trovano il modo di esprimere “…parole di tenerezza per la famiglia (il culto, la forza e la ragione di pietà e di sollecitudine di tutti i condannati), per se stessi, per la propria memoria. Un pensiero pietoso anche del proprio corpo. Proteste di amore, inviti all’amore, nell’ ambito caro e tradizionale della famiglia, genitori, spose, figli. E come un naturale ampliamento di quell’amore, il senso pacato, cosciente, superiore del perdono. Non una parola di vendetta personale, di rancore, di esecrazione.”

Come se in quel momento ultimo e definitivo, anche l’odio e la rabbia  perdessero la loro tragica consistenza. Personalmente, per tutte queste ragioni, ogni qual volta ascolto e canto il verso più amato e popolare della canzone per eccellenza dei partigiani , Bella Ciao, ” è questo il fiore del partigiano, morto per la libertà”, sono queste Lettere a venirmi spontaneamente in mente.

Aldilà del valore civile che tutte le accomuna e che tutti – nessuno escluso- ci riguarda, in non poche di esse si trova, a diversi livelli, una dimensione religiosa, un fondamento cristiano, un richiamo a Dio e talora alla Chiesa. Puo’ trattarsi di rapidi accenni, o invece di autentiche schegge incandescenti di preghiera e attestazione di fede. In certi casi, chi scrive cerca il modo e la forza per dare – e lasciare a chi legge – oltre alla testimonianza della propria azione per la libertà,  una visione di insieme che dia senso e prospettiva cristiana alla tragedia che sta per concludersi per lui, e iniziare per chi gli sopravviverà. In alcune situazioni, è una vera e propria proclamazione di un Credo, un dare carne e contenuto e storia ai valori del vangelo, che diventa spirito e forma della propria stessa vicenda. E’ come se, nel buio e nell’orrore, anche nell’eroismo che emerge da quelle Lettere, risuonasse improvvisamente la Buona Novella: annunciata, testimoniata, vissuta fino al ” tutto è compiuto”. Chi crede , in questi casi, non può che ritrovarci  il sapore e l’odore del Calvario. E le parole scritte, nella loro inevitabile semplicità, oltre a quelli fondamentali che già hanno,  prendono una forza e uno spessore tutti diversi. “Certe pagine di caduti nella guerra di liberazione, le abbiamo lette umilmente, come si legge una preghiera o un testamento, ma a ben altro pensavamo che alla poesia », per dirla con Cesare Pavese.

Senza aggiungere altro, a titolo di esempio, propongo una di queste lettere.

In nota, il richiamo alla vicenda personale di chi le ha scritte, come riportato dal sito/archivio online http://www.ultimelettere.it/, Ultime lettere di condannati a morte e deportati della resistenza italiana.

 

 

Miei carissimi genitori, sorelle,
fratello, nonna,
zii, zie e cugini,

Il Signore ha deciso, con i
suoi imperscrutabili disegni, che
io mi staccassi da voi tutti
quando avrei potuto essere
di aiuto alla famiglia;
sia fatta la sua Santa Volontà.
Non disperatevi, pregate piut=
tosto per me affinché Lo
raggiunga presto, e per voi
affinché possiate sopportare il
distacco.
Tutta la vita è una prova,
io sono giunto alla fine,
ora ci sarà l’esame,
purtroppo ho fatto molto
poco di buono; ma almeno
muoio cristianamente e questo

 

 

deve essere per voi un gran
conforto.
Vi chiedo scusa se mi
sono messo sulla pericolosa
via che mi ha portato al=
la morte, senza chiedervi il
consenso; ma spero mi
perdonerete come il Signore
mi ha perdonato qualche
minuto fa per mezzo del
suo ministro.
Domattina prima dell’ese=
cuzione della condanna farò
la S. Comunione e poi …..
Ricordatemi ai Reverendi
Salesiani e ai giovani di A-C.
affinché preghino per me.
Ancora vi esorto a
rassegnarvi alla volontà
di Dio; che il pensiero della
mia morte preceduta dai

 

 

Sacramenti vi sia di conforto
per sempre.
Immagino già le lagrime
di tutti quanti quando leggerete
questa mia, fate invece che
dalle vostre labbra anziché
singhiozzi vi escano preghiere
che mi daranno la salute
eterna.
Del resto io dall’alto
pregherò per voi.

Ora carissimi, vi saluto
tutti per l’ultima volta;
vi abbraccio con affetto filiale e
fraterno; questo abbraccio
spirituale è superiore alla
morte e ci unisce tutti nel
Signore. Pregate!
Vostro per sempre

Mario.

 

 

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  • Mario Bettinzoli

Di anni 22. Nato il 21 novembre 1921 a Brescia ed ivi residente. Di professione perito industriale. Chiamato alle armi nel dicembre 1941, frequenta il corso Allievi ufficiali a Nocera Inferiore (SA) ed ottiene il grado di sottotenente di complemento dell’artiglieria del Regio esercito italiano. Assegnato alla caserma della Cecchignola, a Roma, dopo l’armistizio partecipa alla difesa della capitale. Catturato e condannato a morte dai tedeschi, riesce ad evadere e a tornare nella sua città natale. Nell’ottobre 1943 si rifugia in Val Sabbia, dove organizza le prime formazioni partigiane della zona assieme a Giacomo Perlasca. Divenuto vice-comandante del battaglione Fiamme Verdi (da lui stesso fondato) e comandante della 3ª compagnia, s’incarica principalmente di programmare ed allestire i campi di lancio. Il 18 gennaio 1944 Bettinzoli si reca a Brescia in compagnia del diretto superiore Giacomo Perlasca, allo scopo di fare rapporto al Comando provinciale partigiano. Sorpresi da alcuni elementi della polizia federale fascista, i due sono immediatamente arrestati e consegnati alle autorità germaniche. Interrogati e torturati per tre giorni nella caserma Arsenale di Via Crispi, il 21 gennaio vengono trasferiti nelle carceri cittadine. Dopo quasi un mese di detenzione, il 14 febbraio 1944 il tribunale militare tedesco li processa e li condanna a morte quali organizzatori di bande armate. La sentenza è eseguita mediante fucilazione, il giorno 24 dello stesso mese, presso la caserma del 30º reggimento artiglieria di Brescia. Alla sua memoria è stata conferita la medaglia di bronzo al valor militare. http://www.ultimelettere.it/?page_id=35&ricerca=222

…mentre si schierano i dodici militi che compongono il plotone di esecuzione. Bettinzoli stringe in mano una reliquia di don Bosco e un piccolo Crocifisso. Il cappellano, dopo l’ultima assoluzione, gli chiede il crocifisso e la reliquia che tiene stretti nelle mani: «No, dopo – risponde -e li consegnerà alla mia famiglia».  ( tratto da : https://excelsiorsdb.blogspot.com/2016/10/bettinzoli-mario-figure-esemplari.html?m=0 )

Non è qui,è risorto!

 

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

In questo periodo così pieno di immagini di dolore, non propongo opere d’arte riferite ai momenti della Passione di Gesù. Su questo tema rimando comunque al post (*) del 13 aprile 2019 “La via crucis del terzo millennio a JasnaGòra” in cui l’autore, il polacco Jerzy DudaGracz, dipinge la Passione di Gesù attualizzando il mistero della Croce, accostandola al dolore dell’uomo di oggi. Come cristiani siamo chiamati a essere portatori di speranza nella salvezza e la nostra fede porta a concentrarci sulla risurrezione di un corpo, quello di Cristo; partendo dall’ultima affermazione sulla rappresentazione della Crocifissione di Tintoretto nel blog “Tutto è compiuto“ del 2 aprile 2021 (**) –  Egli è già sorgente di vita e di salvezza per coloro che volgeranno a lui lo sguardo –  metto a confronto alcuni modi di interpretare l’avvenimento della Resurrezione da parte degli artisti.

 

(1)

 

La formella di ceramica invetriata della quattordicesima stazione della Via dolorosa Il corpo di Gesù è deposto nel sepolcro” di Mimmo Paladino (1), del 2015, nella Cappella del Centro Pastorale C. M. Martini dell’Università Milano-Bicocca, rappresenta il punto di arrivo della via crucis, il “riposo del sabato santo”, quel sabato regno del già-e-non-ancora, oltre il quale ci viene dato di vedere la luce e la gioia della Pasqua. La formella non contiene una descrizione o un’illustrazione, ma solo un segno pittorico che fa pensare che il sepolcro stia per schiudersi diventando uno speranzoso atto di qualcosa che inizia, simbolo di una morte affrontata ma sconfitta e della nuova vita che avanza.

 

(2)

 

Questo lo possiamo vedere nella Resurrezione (2) dipinta tra il 1512 e il 1516 da Mathis Gothard o Neithardt, meglio conosciuto come Grünewald, parte della seconda faccia dell’altare del monastero di Isenheim, realizzato su tavola, ora custodito nel Musée d’Unterlinden a Colmar. Grünewald dipinge Gesù in una dimensione fortemente dinamica e mistica, come se fosse una visione: la scena si svolge in una notte stellata, a differenza dei dipinti della storia dell’arte italiana dove il Risorto appare all’aurora. Gesù  non ha né croce né stendardo, a differenza di come lo si identifica di solito: sospinto da un vortice di potenza si innalza dal sepolcro, lascia il sudario, di colore da un bianco ghiaccio all’azzurro, con una veste regale rossa tra i diversi toni del lilla e del rosa, esplodendo nella massima luminosità del giallo, mentre il gesto delle mani, segnate dalle stimmate, trasforma la posa della crocifissione in un grandioso saluto di pace; i lineamenti del volto sono quasi cancellati dalla luminosità del cerchio che lo avvolge e da lui generato, lo sguardo rivolto al fedele accenna un sorriso e tutto appare trasfigurato in una condizione nuova, l’annuncio di un mondo nuovo.

 

(3)

 

Troviamo la stessa impostazione figurativa nell’imponente scultura moderna autoportante in bronzo e ottone (3,4) realizzata da  Pericle Fazzini dal 1972 al 1977 su commissione di papa Paolo VI del 1965, al termine del Concilio Vaticano II, incentrata sulla necessità di portare Cristo al mondo moderno. È in Vaticano, collocata sul fondo del palco in corrispondenza della volta parabolica della grande Aula delle udienze (ora Aula Paolo VI), progettata dall’ingegnere Pier Luigi Nervi e inaugurata nel 1971. Si tratta di una scultura lunga venti metri, alta sette e profonda tre: è stata certamente vista e continua a esserlo da una moltitudine di persone in occasione di riprese televisive delle grandi udienze dei Papi, ma forse non è conosciuta nel suo significato artistico e religioso.

 

(4)

 

«La terra tremò, sta scritto nel Vangelo, quando Cristo morì – scrive lo stesso Fazzini – ma io ho immaginato la Resurrezione dall’uliveto, successiva a una catastrofe: Cristo vola via spinto dal vento, si libera dal velo mortuario… Cristo risorto dalle rovine… che non vuole considerare il suo abbraccio col Padre come un addio agli uomini». «Mi sono venute in mente tutte le guerre e tutti i tradimenti del mondo. Per questo ho pensato di creare il Cristo come se sorgesse dallo scoppio di questo grande uliveto, luogo di pace delle ultime preghiere. Il Cristo risorge da questo cratere apertosi dalla tomba nucleare; risorge con impeto e pacatezza insieme per ascendere in cielo. Il tutto a forma di mezza ellisse o calotta dell’universo o meglio ancora di arcobaleno quando si estende dalla collina al mare del mio paese»… «È stata una grande preghiera», in essa «ho dato tutto me stesso, a volte lavorando come in trance… come se qualcosa sopra di me guidasse la mia mano e il mio cervello perché potessi raggiungere il cielo»….«La fede è il movente della speranza e la speranza è Dio e quando ho lavorato a La Resurrezione, Dio era dentro di me», ebbe a dire ancora lo scultore.

 

(5)

 

Nella quindicesima stazione della via Crucis (5) dell’artista contemporaneo Franco Nocera, nella Chiesa del Monastero Santa Caterina a Palermo, il momento della Resurrezione è riletto in maniera libera e personale, soprattutto attraverso il contrasto cromatico: il giallo crea una sorta di fontana luminosa, in cui si intravvede una forma umana in un movimento non ben definito, che s’innalza da un sepolcro, irresistibilmente, verso l’alto, attraversando lo spazio nero delle tenebre.

Dal secondo paragrafo al n. 647 del Catechismo della Chiesa Cattolica, si possono trarre le considerazioni finali: “… nessuno è stato testimone oculare dell’avvenimento stesso della risurrezione e nessun Evangelista lo descrive. Nessuno ha potuto dire come essa sia avvenuta fisicamente. Ancor meno fu percettibile ai sensi la sua essenza più intima, il passaggio ad un’altra vita. Avvenimento storico constatabile attraverso il segno del sepolcro vuoto e la realtà degli incontri degli Apostoli con Cristo risorto, la risurrezione resta non di meno, in ciò in cui trascende e supera la storia, nel cuore del mistero della fede”.

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Venerdì santo

Scritto da MARIA NISII.

 

 

A chi sfuggiva quel piccolo di volpe

per essere in trappola, ad altezza d’occhio,

nell’incrocio dei rami, crocifisso?

Sembrava, il suo, un sorriso ferino.

(Didier Rimaud, “Nell’incrocio dei rami” in Angeli e cicale p. 79)

 

Didier Rimaud è un gesuita francese (1922-2003), autore di preghiere e orazioni liturgiche, ma anche autore di numerosi testi poetici (lo avevamo già letto qualche anno fa in occasione della Pentecoste: https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/ora-rialzatevi). In Italia è stato tradotto dal confratello gesuita padre Eugenio Costa, liturgista e musicologo, che abbiamo recentemente ricordato in un convegno in Duomo per il primo anniversario dalla morte: https://www.youtube.com/watch?v=pecqVNdKgn4

Eugenio Costa ha conosciuto da vicino il modo di scrivere di Didier Rimaud, la sua cura e ricerca della parola, e dunque sa “con quale lucido sforzo egli scolpisse il suo testo, pazientemente, con costanza e talora con fatica ”. Un’accuratezza e serietà che egli sostiene essere vissuta secondo l’impronta del metodo ignaziano, con cui anche altri gesuiti hanno risposto alla propria vocazione artistica. (“Poesia come esercizio spirituale in Didier Rimaud ” in La Civiltà Cattolica 2004, IV, 560-71)

 

Marc Chagall, Giacobbe lotta con l’angelo (1963)

 

La lotta è pertanto la cifra stilistica impiegata per dire sia la fatica dello scrivere, sia naturalmente (secondo l’immagine classica di Gen32) la sua fede, che p. Costa definisce “non facile, faticosa, talora affaticata, attratta e orientata dal mistero, duro e interrogativo, della sofferenza, del conflitto, del male e della morte” (CivCatt 2004). Il testo poetico riportato in apertura ne è un esempio sublime. Lì il dolore è sì umano, ma anche della natura – due mondi in solidarietà, come in altre sue poesie. Ne leggiamo il seguito.

 

Di che rideva, nel suo fetore atroce,

a pelle scorticata? Gli restava

uno sguardo insolente, come se beffasse

il cacciatore in agguato per stanarlo!

 

Perché inseguirlo e metterlo alle strette

nel freddo, così piccolo: la neve

non tratteneva la sua traccia leggera!

Ma bastava a renderlo pazzo di paura…

 

Urla dei cani! Risa! Suon di corni!

A forza di terrore ci si aggrappa là

dove dire, sfiniti: Ti consegno il mio spirito.

E l’anima di volpe sfugge ai denti canini!

 

Un ruggito riempie l’orizzonte, un grido:

“Figlio, mio figlio! Mio cucciolo ribelle!”

Un lamento così alto e così orrendo

che Dio – c’è da giurarlo – si torce dai dolori!

 

È venerdì santo anche per un cucciolo di volpe inseguito dai cani che, impigliatosi nei rami, muore come un crocifisso. Un cucciolo che si fa immagine del Figlio inseguito, aggredito da urla sguaiate, ma che continua a rivolgersi al Padre. Un Padre che non può che torcersi dai dolori.

Troviamo il tema del venerdì santo anche in altri testi, come “Madonna in attesa”, tratto dalla raccolta A forza di colomba, ancora inedita in Italia.

 

Come aveva atteso che nascesse

colui che dalla sua prendeva carne

– lungo silenzio –

ella attende ora il grande lampo

della vita, che griderà la propria forza.

 

Beato Angelico, Compianto della croce al Tempio (1436)

 

E’ chiuso nel ventre della terra

colui che aveva portato nel suo,

felice madre!

Poiché da lei è nato, ella sa bene

che le tenebre renderanno la luce.

 

Non ha bisogno di essere alla tomba,

non ha bisogno d’alcun altro giardino

di pianto e d’ombre

che quello del cuore, in cui la pena

lascia il posto alla gioia che l’inonda.

 

Giovanni Bellini, Madonna col Bambino su un prato (1505)

 

Lo aveva cullato, il Figlio d’uomo:

così lo culla, qui in questo sonno

che Dio gli dona

finché non venga l’ora del risveglio, il risveglio

del corpo che a lui plasma.

 

Francesco Trevisani, La pietà (1720)

 

E attende: attraverso la piaga dell’anima

il primogenito, risalito dagli inferi,

asciuga il pianto

e trascina nella danza e nel concerto

tutto un coro di fratelli che lo acclamano.

 

In un solo testo sono racchiusi i grandi eventi della vita di Cristo attraverso lo sguardo della madre nell’immagine dell’attesa. L’attesa della nascita come l’attesa del ritorno dal mondo della morte. Nascita e morte sono state viste spesso insieme nell’arte sacra, per cui la Pietà ricalca le immagini della Madonna col bambino. Ma tale corrispondenza è ancor più presente nelle icone, dove la mangiatoia è anche già la tomba e le fasce del neonato ne richiamano il futuro sudario.

 

Natività, cappella Palatina (chiesa Palazzo reale), Palermo, XII sec.

 

Lo stesso vale per il tema della discesa agli inferi (non evangelico ma presente in 1Pt 3,18-19), che nelle natività appare nel buio della grotta, insieme vuoto, baratro e tenebra, come ugualmente le rocce sono richiamo della spaccatura della terra (baratro) e terremoto (simbolo apocalittico della manifestazione divina).

Arte e poesia sembrano rinarrare gli eventi pasquali con la stessa trasparenza profetica, in cui l’uno contiene già l’altro, il primo acquisisce significato dall’ultimo. Così nel pianto di Maria c’è già la danza e il coro che ne acclamerà la resurrezione. Ma non per questo proverà meno dolore, perché il tempo delle lacrime appare sempre eterno e inconsolabile. Per tutti gli uomini e per tutte le donne. Dunque anche per Maria che piange il suo Gesù.

 

Paolo Siccardi, Madri piangono i figli morti nell’esplosione della base militare di QafaShatama, Albania, 1997

 

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  • In copertina: Cimabue, Crocifissione, particolare, (1268-71)

Versi per resistere (2)

Scritto da MARIA NISII.

2. La prima parte di questo articolo è stata pubblicata il 2 aprile 2022 (https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/versi-per-resistere )

 

Oggi, dice Sedakova, si è perso quell’attaccamento alla poesia, proprio ora che – apparentemente – c’è più libertà. Si possono scrivere e leggere poesie, purché non parlino di politica.Ultimamente però, lo sappiamo, il clima è tornato a essere teso e una nuova opera di censura si è abbattuta in territorio russo:

Il clima è depresso e teso. Un gran numero di persone cerca di vivere la propria vita come se non fosse successo nulla. Le persone con una chiara posizione contro la guerra si sentono come ostaggi: la forza militare dello Stato è diretta contro di loro. La repressività del regime è andata accumulandosi nel nostro Paese per molto tempo, ma ora sta diventando una vera e propria minaccia. Anche se qualcuno osa dichiarare apertamente la propria posizione, la gente non lo ascolta. Molte persone della mia cerchia stanno lasciando il Paese. Con varie motivazioni: la paura delle rappresaglie, la riluttanza a partecipare, il desiderio di salvare i bambini. Allo stesso tempo, uscire o fuggire diventa sempre più difficile. Spesso è una fuga verso una destinazione sconosciuta, senza averi, senza soldi, lungo percorsi difficili.” (per l’intervista completa: https://www.avvenire.it/mondo/pagine/olga-sedakova-ucraina-russia-intervista)

Leggiamo alcune sue poesie, cercando di coglierne la portata “rivoluzionaria”.

 

 

Dormi, tesoro, se no ti getteranno,

ti getteranno senza guardare,

come ha lasciato il figliolo la spigolatrice

ai bordi del campo dell’orzo.

Miete e le lacrime asciuga.

  • Mamma, mammina, chi mai s’avvicina,

chi sta ritto sopra di me?

 

Stanno ritte tre vecchie fatate,

stanno in alto tre lupe argentate,

che lo cullano e consolano piano,

masticando papaveri in grano:

ma il papavero il bimbo non vuole,

sta piangendo e nessuno che l’ode.

 

(Ol’gaSedakova, Un’altra ninna nanna)

 

L’inquietudine penetra in quello che dovrebbe essere un canto consolatorio e propiziatorio della pace prima del sonno. Sul bambino incombono figure paurose dietro immagini fiabesche, ma nessuna madre arriva a soccorrerlo.

 

 

Brucia, invisibile fiamma,

altro di me non occorre.

Il resto tutto toglieranno.

E se no, chiederanno per favore;

e se no, disfarò da me medesima,

per la noia e l’orrore.

 

Come stella sulla culla,

come scolta in fitto bosco,

dondolando la catena,

brucia fiamma non veduta.

 

Tu, lampada, il tuo olio le lacrime,

incrinatura del gelo del cuore,

sorriso di chi se ne va.

 

Tu brucia, ridai la novella

al Dio dei cieli: il Salvatore

ancora ricordano in terra,

del tutto ancora non dimèntichi…

(Ol’gaSedakova, Vecchi canti, 8.)

 

L’immagine del fuoco possiede un legame forte con la poesia e l’ispirazione che la porta a compimento, al punto da essere richiamata nel titolo della raccolta. In quanto strettamente legata all’atto del poetare, dice qualcosa dell’essenza stessa della poesia e della sua azione di resistenza (il resto tutto toglieranno) di fronte all’orrore. Un’ispirazione nutrita dal dolore (il tuo olio le lacrime), ma rivolta al divino.La fiamma allora è anche segno di fede, laddove questa sembra quasi spenta.

Nei suoi versi si trovano alcune immagini bibliche e temi teologici, ma la fede in lei è soprattutto punto di vista, narrazione.

 

 

Impotente,

del tutto impotente,

come il nulla,

non toccato dalle mani creatrici,

le mani della speranza,

alla cui calamita

 

si solleva il germoglio della nera aratura,

si solleva dal quarto giorno Lazzaro,

avvolto le mani ed i piedi

nel suo sepolcrale sudario

nel sudario più della morte morto:

 

il nulla,

del tutto nulla,

anima mia! taci,

che da questo non sia tu toccata.

 

(Ol’gaSedakova, Nulla)

 

Il nulla si oppone alla creazione (e alla creatività) e alla vita stessa, su cui infine la poesia fa calare il sipario (che l’anima del poeta non ne sia toccata). Neppure Lazzaro potrà essere portato in vita – la morte si prende tutto lo spazio.

 

 

Sei pronto? –

l’angelo sorride –

lo chiedo, ma so

che tu certamente sei pronto:

già che non parlo a un uomo qualunque,

ma a te,

e pure,

in questa pietra rosa sgretolata,

levando il braccio

che la grande guerra mi svelse,

eppure lascia ch’io ricordi:

sei pronto?

Alla peste, alla fame, il tremoto, il fuoco

l’invasione straniera, l’ira su di noi accesa?

 

(Ol’gaSedakova, L’angelo di Reims)

 

La descrizione della cattedrale di Reims veicola da un lato la grandezza della civiltà europea e delle sue radici culturali cristiane ma nel contempo è pure esempio di barbarie, in quanto bombardata durante la prima guerra mondiale. Attraverso le tradizionali invocazioni (A peste, a fame, a bello libera nos, Domine) si richiamano i grandi mali che hanno afflitto l’umano e che non hanno risparmiato neppure le sue opere (la pietra sgretolata).

Ol’gaSedakovaha partecipato attivamente alla storia del suo paese, anche prendendo parte alle manifestazioni di opposizione alla guerra che ci sono state recentemente in Russia. E naturalmente aveva già preso parte a quelle di piazza Bolotnaya nel dicembre 2011 (si può leggere l’intervista dal suo blog: https://www.olgasedakova.com/it/interview/1058).

Il poeta è un resistente, lo stilo la sua arma. E che i totalitarismi l’abbiano sempre temuto è segno della potenza delle parole. Potenza della libertà, potenza di una parola libera.

Poeta è colui che può morire

là, dove vivere vuol dire: andare fino a morire…

(Elegia dell’acqua d’autunno, 12)

 

 

 

Versi per resistere

Scritto da  MARIA NISII.

 

Per parlare di guerra e fede cristiana, la nota trasmissione radiofonica “Uomini e profeti”, andata in onda il 19 marzo, inizia intervistando la poetessa russa Ol’ga Sedakova (classe 1949) – tradotta da Adalberto Mainardi, monaco di Bose che ha curato l’edizione italiana di una selezione di sue poesie in Solo nel fuoco si semina il fuoco (Qiqajon, 2008). Il conduttore le chiede, tra le altre cose, il rapporto tra guerra e poesia. E non è una domanda oziosa, perché ogni poeta conosce quella che è un’obiezione classica sul valore delle parole, e della parola poetica in particolare, laddove in gioco ci sono dolore, sofferenza e morte.  Questo è il link alla puntata della trasmssione radiofonica:

https://www.raiplaysound.it/audio/2022/03/Uomini-e-Profeti-del-19032022-7a419abe-046c-4d31-b0cd-8d073350ce24.html?fbclid=IwAR3fyvaV1G3GxR_kOuxpvU4s7JMlhC9vda6Vlu_G-lhAw9ZDuJCOm8jJs0g

Nell’introduzione alla raccolta italiana, si richiama proprio il senso del tempo e il vivere la contemporaneità, che il poeta percepisce come una condanna, “condanna a essere da lui condotto”: “Non esiste arte non contemporanea (che non riveli il proprio tempo)”, affermava infatti Marina Cvetaeva nel 1932. Ed è per questo legame con la contemporaneità che la poetessa è stata invitata a parlare dell’attuale guerra in Ucraina, della percezione che se ne ha in Russia e dello spazio, se ve n’è uno, della poesia in questi tempi oscuri.

Seppure tanti cristiani, disattenti alla contraddizione, sostengono l’azione con l’invio delle armi, che cosa potrà mai fare la poesia? Com’è possibile trovare il tempo per pensare, per leggere, per fare il silenzio necessario a creare lo spazio di accoglienza di una parola dissonante rispetto a quanto ci circonda? Chi ne ha la possibilità si arma piuttosto di coraggio e si apre ai tanti bisogni che ci interpellano nel volto dei profughi. Questo sì che serve, non la poesia.

 

I versi di Ol’gaSedakova, sostiene Sergej Averincev nel saggio in postfazione a Solo nel fuoco si semina il fuoco, non sono stroncati, ma semplicemente ignorati. O capovolti nel loro significato. Di fatto, fino alla fine della perestrojka i suoi testi (poesie e saggi) non erano pubblicabili in Unione Sovietica, ma circolavano comunque in copie dattiloscritte:

Non erano testi graditi al sistema comunista. Venivo accusata di «spiritualità». Inoltre, dicevano che erano eccessivamente complicate. Le poesie della cultura ufficiale dovevano essere «populiste», semplici e chiare, senza troppe riflessioni. Dovevano essere comprensibili anche per l’uomo più semplice…

Le mie poesie iniziarono a circolare in “samizdat”. Si facevano centinaia e centinaia di copie in clandestinità. Non ero io che le facevo circolare, ma i miei lettori. Ogni lettore faceva cinque copie con la macchina per scrivere e la carta carbone. Erano migliaia di libri che si diffondevano in quella che chiamavamo la «tiratura proibita». Un altro modo per far conoscere il mio lavoro era quello di leggere in pubblico. Si trattava di letture in case private e in atelier di artisti. Non c’era la minima forma di promozione, eppure c’era molta gente che veniva ad ascoltare. C’erano anche delle spie che s’infiltravano, era pericoloso, ma noi cercavamo di non pensarci.”

(dal blog: https://www.olgasedakova.com/it/interview/128)

 

 

Quando ha trent’anni, viene arrestata per dare conto della diffusione clandestina dei suoi testi.Una situazione che le rende difficile vivere del proprio lavoro e, come gli altri poeti “non ufficiali”, resta ai margini e senza la possibilità di un lavoro qualsiasi. Solo con Gorbaciov riesce infine a tenere lezioni all’Università. Ma la persecuzione era iniziata molto presto, perché già a vent’anni era stata internata in un ospedale psichiatrico per motivi di fede, dove resta per cinque mesi dopo aver subito terapie shock molto dolorose con l’insulina.

In quel tempo difficile mi fu di sostegno la fede. Mi colpisce che adesso in così tanti si dichiarino di fede ortodossa, quando poco tempo prima erano tutti atei. Negli anni della persecuzione vedevamo nei cattolici degli amici; la demarcazione della linea del fronte era molto netta: cristiani e non cristiani, senza ulteriori differenziazioni.”

Essere cristiana e scrivere poesie rappresentava dunque una miscela esplosiva per il regime comunista. Tanto più esplosiva in quanto per la gente la poesia era “necessaria come il pane”, al punto da essere disposti a rischiare la vita per diffonderla: imparavano a memoria i testi e li trasmettevano clandestinamente, come una forma di salvezza.

 

1 – Continua

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  • In copertina, Ol’ga Sedakova .

Quando a riscrivere è la guerra

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

La guerra, quella vera, è  quella che ti vivi addosso. Nessun racconto, e nessuna rappresentazione, per quanto veritiera e senza filtri, può  naturalmente essere paragonabile. Per la maggior parte di noi, che del “ tempo di guerra” abbiamo avuto solo una vaga  percezione indiretta, tramite i racconti dei nostri genitori e dei nostri nonni, è come se quelle storie adesso prendessero carne e vita nelle immagini che la tv ci porta quotidianamente in casa. Eppure la sensazione, e il rischio, è  che tutto resti “incapsulato” nel modo delle immagini e dello schermo, a maggior ragione  perché è da lì che ci è sempre arrivato  tutto quello che abbiamo visto negli anni sull’argomento,  attraverso documentari, film e fiction di ogni tipo.

Se della guerra solo pochi di noi hanno avuto esperienza diretta,  la  narrazione della guerra invece ci accompagna da sempre: dagli anni della scuola ad oggi, da Omero al cinema, passando per la letteratura, la musica e il giornalismo. Abbiamo incontrato  tanti diversi modi di racconto, a seconda del punto di vista di chi ne parla ( storico, politico, militare, sociale ) dello strumento che  si adotta ( parola, suono, immagine), di quello che si vuole trasmettere ( esperienze personali, storie di vita, battaglie, fatti storici). Naturalmente, insieme a tutti gli altri, sappiamo  esistere  anche un modo  religioso di parlare e di raccontar la guerra. A cui gli ultimi papi, a partire perlomeno da Benedetto XV, quello della “ inutile strage” e in modo sempre più marcato dalla “ Pacem in terris” di Giovanni XXIII in avanti, han dato una sempre maggiore importanza e  attenzione.

 

Ovvio che nella narrazione, quella  per immagini occupi un posto di primo piano, per l’incisività, l’impatto e la forza espressiva sue proprie. Un’ immagine da sola, in certi casi, sa imprimersi nella memoria e comunicare con maggior potenza di un intero servizio o di una serata di approfondimento via dibattito. Senza voler toglier importanza all’uno e all’altra. A titolo di esempio, ne riportiamo qui di seguito alcune, tratte dalla cronaca di questo mese di guerra, che presentano anche una ulteriore caratteristica : rimandano visivamente a un’opera d’arte religiosa. In questo modo, succede che  il singolo fatto che raccontano si  trasfiguri, assumendo anche un altro significato  e aprendosi su un orizzonte  universale; e succede che l’opera d’arte richiamata, si attualizzi, come se fosse reinterpretata nel momento presente. Va da sé che essendo queste opere d’arte altrettante riscritture  di pezzi di Scrittura, le immagini odierne correlate  diventino in qualche modo esse stesse una rivisitazione contemporanea , giornalistica, di Scrittura. Come a dire: flash di Bibbia riscritti da un reporter.

  • Deposizioni
II Cristo della Cattedrale armena di Leopoli spostato nel bunker anti bombe

 

Deposizione dalla Croce” , Beato Angelico, al Museo di San Marco a Firenze.

 

 

  • Pieta’
Da https://www.ilmattino.it/primopiano/esteri/ucraina_guerra_bambini_ultime_notizie_oggi-6531901.html

 

La Pietà, Michelangelo, Basilica di San Pietro, Vaticano

 

  • Paternità   
Da: https://www.ilgiornale.it/news/politica/i-par-russi-ai-confini-polonia-e-lucraina-teme-nuova-1988772.html

 

San Giuseppe, Gian Battista Caracciolo il Battistello  – Musée Cantonal des Beaux-Arts – Losanna

 

 

  • Maternità
Da https://www.avvenire.it/multimedia/pagine/madonna-con-bambino-in-metropolitana-di-kiev

La lotta con DIO

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

«Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. […] vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Esodo 33,20-23).

Questo è il principio ebraico secondo cui il volto di Dio non lo si poteva vedere e nemmeno rendere immagine, come è attestato in più luoghi dell’Antico Testamento.

Nell’episodio conosciuto come la “lotta di Giacobbe contro l’angelo”, raccontato nella Bibbia e nella Torah nel Libro della Genesi al capitolo 32, nei versetti da 24 a 28 è descritto l’incontro di lotta tra Giacobbe e …l’uomo, in cui Giacobbe alla fine prevale.Giacobbe sta andando a incontrare suo fratello Esaù, sperando di riconciliarsi con lui, quando di notte

rimase solo e un uomo lottò con lui fino all’apparire dell’alba; quando quest’uomo vide che non poteva vincerlo, gli toccò la giuntura dell’anca, e la giuntura dell’anca di Giacobbe fu slogata, mentre quello lottava con lui. E l’uomo disse: «Lasciami andare, perché spunta l’alba». E Giacobbe: «Non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto!» L’altro gli disse: «Qual è il tuo nome?» Ed egli rispose: «Giacobbe». Quello disse: «Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto». Giacobbe gli chiese: «Ti prego, svelami il tuo nome». Quello rispose: «Perché chiedi il mio nome?» E lo benedisse lì. Giacobbe chiamò quel luogo Penuel, perché disse: «Ho visto Dio faccia a faccia e la mia vita è stata risparmiata» (Genesi 32,24-30)

Quindi possiamo anche qui riconoscere il fatto come una delle manifestazioni di DIO, attraverso una lotta che si svolge nell’oscurità, dove è difficile percepire subito l’identità dell’assalitore di Giacobbe, perché fino alla fine quest’uomo è qualcuno che rifiuterà di dire il suo nome.

Il tema non è dei più comuni nella storia dell’arte e non è stato trattato in alcuni periodi storici (come nel Rinascimento), mentre riappare spesso nel XIX secolo. Questo episodio viene interpretato sia come allusione a combattimenti allegorici, sia alla lotta tra l’umano e il divino, il quale è rappresentato solitamente con un angelo, effettivamente nominato nelle scritture soltanto nella breve citazione del fatto in Osea (12, 4-5). L’azione dei due protagonisti nella lotta è rappresentata più o meno violenta secondo la sensibilità degli artisti.

 

1.

 

Nel bassorilievo (1)  di un capitello del XII secolo della Basilica di Sainte Marie Madeleine a Vézelay, in Francia, vediamo che è Giacobbe che attacca, afferrando l’angelo per il collo dell’abito; l’avversario però  risponde con calma e compostezza, senza perdere l’equilibrio, anzi raccogliendo  il lembo della veste  e benedicendo, quasi a voler dire a Giacobbe che tutta l’aggressività è inutile.

 

(2)

 

Invece per il pittore francese Paul JacquesAimé Baudry, rappresentante della “pittura accademica” del Secondo Impero, con la sua versione del 1853 (2) conservata al Museo Municipale della città di La Roche sur Yon, il soggetto è solo il pretesto per un’interpretazione tutt’altro che religiosa, dove alle figure è dato un carattere allegorico: “Giacobbe è la giovinezza dell’uomo, l’Angelo l’ideale” e la loro lotta illustra la caduta delle illusioni dell’uomo durante il passaggio all’età adulta.

 

(3)

 

Anche Gustave Moreau, rappresentante dei simbolisti, dipinge (3) Giacobbe e l’angelo nel 1878, conservato negli Stati Uniti all’Harvard Art Museums. Qui i due personaggi non sono propriamente in lotta e la figura dell’angelo emerge con la sua sfavillante aureola e un fascio di luce che circonda tutto il suo corpo, immagine di un sogno, di un’idea misteriosa e sensuale.

 

(4)

 

Tra gli artistiche si sono discostati dalle interpretazioni più comuni vi è Livio Retti, un pittore italiano del XVIII secolo che lavorò principalmente nell’attuale Germania meridionale. La sua opera è collocata sul soffitto della Sala del Consiglio del Municipio della città di Schwäbisch Hall (4) ; qui sono proprio rappresentati due uomini che stanno combattendo alla pari sulla riva del fiume.

 

(5)

 

La scena è ampliata  nel 1888, in Bretagna, da Paul Gauguin (5), che lo attualizza con il titolo di La visione dopo il sermone (Lotta di Giacobbe con l’angelo) ora a Edimburgo alla National Gallery of Scotland. Gauguin evoca “la visione”condivisa da alcune donne bretoni, in primo piano, dopo aver ascoltato il sermone. Al proposito Gauguin scrisse all’amico pittore Van Gogh per dirgli che aveva appena dipinto “un quadro religioso, mal eseguito, ma mi interessava farlo e mi piace”. Quando lo finisce, lo commenta lui stesso dicendo:«Credo di aver ottenuto nelle figure una grande semplicità rustica e superstiziosa.(…) Per me in questo quadro il paesaggio e la lotta esistono solo nella fantasia della gente in preghiera dopo il sermone, ragion per cui esiste un contrasto fra la gente vera e la lotta nel paesaggio immaginario e sproporzionato». Ancora oggi resta un quadro impegnativo, e lo stesso Gauguin non si meravigliò quando la sua offerta in dono alle chiese locali fu decisamente respinta, per ben due volte.

 

(6)

 

Maurice Denis (6) , francese, fondatore del gruppo dei pittori Nabis (dalla parola ebraica che significa profeti) e di fede cattolica – cosa  che lo influenzò nell’impegno per un ritorno a un cattolicesimo primitivo – dipinge questa scena in un quadro (1892-93) di proprietà privata, in cui l’azione di lotta di due uomini, raffigurati nei loro tratti essenziali, diventa un abbraccio, forse il momento finale in cui c’è la benedizione.

 

(7)

 

Ancora un’artista francese, Bertrand-Jean detto Odilon Redon (7), nell’opera del 1907 al Museo di Arte Moderna di New York, rappresenta l’episodio come un sogno, come rivelazione di un mondo interiore parallelo, con l’angelo dalle ali enormi che sembra non gli appartengano, ma che custodiscono, integrate nel paesaggio dove la figura di Giacobbe non si distingue facilmente all’interno di quella più grande dell’angelo.

 

(8)

 

Jack Baumgartner (8), presbiteriano, giovane artista contemporaneo, agricoltore e falegname, che vive in una fattoria nel Kansas centro-meridionale, con sua moglie pastore presbiteriano e i loro quattro figli, interpreta la lotta di Giacobbe contro un Dio intimo e misterioso. Ai margini della composizione vi sono delle mani che aprono una tenda per rivelare uno scorcio della storia dell’uomo Giacobbe e dell’intimità con il suo Dio.

Giacobbe è nudo e in tal modo mostra l’energia che mette  nella lotta. Si muove contro lo sconosciuto compagno di lotta, le dita dei piedi allungate dietro di lui. Il personaggio con cui lotta Giacobbe non ha un volto, si allunga per afferrare il suo piede, costringendo le dita di Giacobbe a flettersi mentre solleva il ginocchio in modo da proteggerlo da una roccia sottostante.

Diversi modi di vedere e sentire un Dio, in queste opere d’arte che continuano ad aiutarci nella comprensione delle Scritture e a dare un senso alla nostra fede.

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  • In copertina : DVD del film Giacobbe. L’Uomo che lotto’ con Dio prodotto da LuxVide, regia di Sir Peter Hall (1994) , distribuito da SanPaolo.

Il suo volto brillò come il sole

Scritto da  MARIA NISII.

 

 

E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce (Mt 17,2)

e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche (Mc 9,3)

E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante (Lc 9,29)

 

 

Nell’episodio della trasfigurazione di Gesù troviamo il dettaglio del volto “raggiante”, che i sinottici esprimono come di consueto con diverse sottolineature. Il volto brilla come il sole (Matteo) o cambia semplicemente di aspetto (Luca), ma stranamente ci si ferma di più a riferire la trasformazione delle vesti divenute candide come luce (Matteo), candide e sfolgoranti (Luca), splendenti e bianchissime da far concorrenza a qualunque lavandaio presente sulla faccia della terra (Marco). Come se le vesti fossero un riferimento più accettabile rispetto al volto: in Marco infatti nulla si dice del volto, mentre tutta l’attenzione è sulle vesti, rese in forma iperbolica.

Di fatto il secondo vangelo trasferisce, per metonimia, la percezione della “metamorfosi” dal volto alle vesti, come a suggerire un’immagine più facilmente comprensibile al suo lettore. Ma persino su questa chiede di fare uno sforzo ulteriore: non ci sarà niente nell’esperienza umana capace di dare la misura di quanto è avvenuto. Il piano di riferimento non è terrestre, appartiene al sovrannaturale.

Rispetto a Marco, Luca aggiunge il cambiamento d’aspetto senza tentare neppure di descriverlo. È quindi solo Matteo a restituire la luminosità del volto di Gesù, una scelta che può derivare dal fatto che il Gesù del primo vangelo è spesso raccontato nell’accostamento a Mosè, e in questo caso al Mosè dal volto raggiante che scende dal Sinai. Il rinvio è naturalmente efficace a far notare la differenza qualitativa: il volto di Mosè resta illuminato di riflesso, mentre quello di Gesù diventa un volto di luce come un carattere suo proprio che sul Tabor viene rivelato.

 

 

Di fronte a un volto di luce non si riesce a reggere lo sguardo: la luce acceca e la sua visione è insostenibile. Il volto trasfigurato si dà alla visione, ma in quanto accecante ne inibisce la visibilità. Se è la natura divina di Gesù che la trasfigurazione fa emergere, quella natura risulta al di là del visibile e del dicibile. È trascendente in senso letterale, in quanto supera la conoscenza umana, le sue forme espressive e tutte quelle capacità necessarie ad accedere a una novità bisognosa di essere interpretata con le categorie del noto.

È allora una rivelazione che si offre nel segno dell’incomprensibile. L’episodio della trasfigurazione è infatti preceduto dalla confessione di Pietro a Cesarea di Filippo e al primo annuncio di passione-morte-resurrezione, dove è appunto in gioco l’incomprensibile e l’inaccettabile. È probabilmente per questa ragione che nel Gesù di Nazareth di Zeffirelli durante la scena della confessione di Pietro, il Maestro è avvolto da un alone di luce e annebbiato dal fumo del fuoco acceso nella notte. Un modo cinematografico per rendere l’idea del mistero, secondo una scelta ardita e non necessariamente apprezzabile (sia dal punto di vista teologico che estetico), ma significativa nel suo tentativo di dire l’indicibile, oltre a chiarire il legame con quello che seguirà.

 

https://www.youtube.com/watch?v=iD66Hcwgzos

Il mistero di Dio va oltre, è trascendente, ma è anche lì di fronte ai tre discepoli. È un volto umano sebbene l’umanità non basti a definirlo. È il Dio trascendente dell’Antico Testamento, quel Dio che si è rivelato a Mosè nel roveto ardente e a Elia nella brezza leggera (non casualmente i due che compaiono ai lati di Gesù). Ma è soprattutto un Dio che diventa “volto”, un volto costantemente desiderato e cercato dall’uomo biblico, che si muove tra fiducia e crisi, fede e dubbio, fermezza e timore.

 

Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»;

il tuo volto, Signore, io cerco.

Non nascondermi il tuo volto

(Salmo 26,8-9)

 

Il desiderio di “vedere il volto” è infatti un motivo biblico ricorrente, esemplarmente espresso nei Salmi:

Quando verrò e vedrò il volto di Dio? (Sal 42,3)

Si tratta di un desiderio alquanto ardito, tanto che persino a Mosè Dio aveva detto: “tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,20). Eppure sappiamo che qualche versetto prima era scritto: “Così il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro” (Es 33,11). Ma la Bibbia è anche questo, un intreccio di tradizioni raramente armonizzate, che non teme la contraddizione. E dunque il tema della ricerca del volto ci riconsegna anche questo desiderio contraddittorio e impossibile di vedere l’invisibile.

 

Eugène Burnand, I discepoli Pietro e Giovanni corrono al sepolcro la mattina della Resurrezione (1898)

 

 

Se il riflesso sul volto di Mosè è il risultato di quel sostare alla presenza del Signore, è interessante notare come non sia un unicuum nell’universo biblico. Lo troviamo infatti nelle invocazioni dell’orante, che lo chiede come grazia:

 

sul tuo servo fa’ splendere il tuo volto,

salvami per la tua misericordia

(Sal 31,17 – anche in Sal 67,2; Dn 9,17 e Nm 6,24-5)

 

Quando Dio acconsente alla richiesta rivelando la sua bontà, il suo volto “splende” su colui che lo cerca. La luce del volto di Dio è inoltre segno della Sua parola di amore, della Sua bontà che irradia nel fedele un senso di pienezza e di gioia:

 

Non con la spada, infatti, conquistarono la terra,

né fu il loro braccio a salvarli;

ma la tua destra e il tuo braccio e la luce del tuo volto,

perché tu li amavi. (Sal 44,4)

 

Guardate a lui e sarete raggianti… Gustate e vedete che buono è il Signore (Sal 34,6.9)

 

L’aggettivo “raggiante” nella lingua corrente indica un carattere luminoso e solare, effetto di una gioia visibile in quanto lasciata trasparire, irradiare. Si potrebbe fare il passaggio ulteriore di una gioia contagiosa, anche se negli altri può trasmettersi solo come riflesso (!).

 

Van Gogh, Il seminatore

 

Per gran parte di noi, c’è solo l’inatteso

Momento, il momento dentro e fuori dal tempo,

L’accesso di distrazione, perso in un raggio di luce del sole,

Il selvatico timo non visto, o il fulmine invernale

O la cascata, o la musica udita così profondamente

Che non è udita per nulla, ma tu sei la musica

Finché la musica dura. Questi sono solo cenni e supposizioni,

È preghiera, osservanza, disciplina, pensiero e azione.

Il cenno a metà colto, il dono a metà compreso, è l’Incarnazione.

(T.S. Eliot, Quattro quartetti, The Dry Salvages, V)

 

Gli artisti non hanno mai temuto di fissare il sole. E nessuno poi come poeti e pittori. Il desiderio umano di vedere e conoscere oltre se stessi, secondo T.S. Eliot, è possibile per grazia, come qualcosa che si riceve in uno stato interiore che passa dalla contemplazione del mondo naturale. L’illuminazione che si riceve può essere fuggevole (solo cenni e supposizioni), perché va accompagnata da un cammino fatto di preghiera, osservanza, disciplina, pensiero e azione. Ma il mistero a cui conduce è l’Incarnazione!

Il volto raggiante di Gesù sul monte della trasfigurazione è quel cenno a metà colto, dono a metà compreso. E il desiderio di sostare (Pietro) convive con l’impossibilità di comprendere e vedere. Come la rappresentazione di Sieger Köder mostra, distinguendo cromaticamente la tavola nelle due parti, divina e umana, che lì s’incrociano. Il giallo luce rende sfuocato il volto di Gesù, che risulta appena percepibile, riverberandosi nei volti e nelle mani di Elia e Mosè. Ed è solo colui che un tempo ha parlato “faccia a faccia” con Dio ad alzare ora lo sguardo. Elia sa senza guardare e i tre discepoli in basso, con gli occhi chiusi, possono intuire ma non certo capire. Almeno non ancora.

 

Sieger Köder

 

La rivelazione avvenuta sul Tabor mantiene la sua forza dirompente nel segno della speranza: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia” (1Cor 13,12). Una speranza descritta nell’immagine della Gerusalemme celeste di Apocalisse, in cui i servi di Dio e dell’Agnello “vedranno il suo volto” (Ap 22,4). Per questo:

 

Non vi sarà più notte

e non avranno più bisogno di luce di lampada,

né di luce di sole,

perché il Signore Dio li illuminerà(v. 5).

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  • In copertina: Raffaello, Trasfigurazione (1518-20)