Figure cristiche

 

Scritto da  MARIA NISII.

 

Inseriti in contesti generalmente estranei a ogni riferimento scritturistico, incontriamo personaggi che di Cristo possiedono solo alcuni tratti, o che in un risvolto particolare della vicenda ne assumono il volto salvifico. La suggestione di tali presenze, altrettanto e forse più numerose delle classiche riscritture evangeliche, richiede di riconoscere il divino nell’umano, perché è proprio negli anfratti del quotidiano e nella normalità della vita di ogni giorno che tanti autori hanno pensato l’irruzione dell’imprevedibile. Il suo aspetto è umano, troppo umano. Eppure vi si cela un di più.

Non appena si inizia a prestarvi attenzione, di figure cristiche se ne trovano ovunque, tanto che ogni elenco sarebbe sempre incompleto. Forse una delle più belle (giudizio sommamente soggettivo!) appare in Bagdad Café, che sarebbe bene commentare dopo aver visto il film. Lo faremo lo stesso, sperando di stimolarne la visione. Si tratta di una pellicola del 1987 per la regia di Percy Adlon, che racconta l’arrivo in un café-motel nel deserto del Nevada di una corpulenta turista tedesca, Jasmine, in abito folkloristico tirolese e guance rosse ( https://www.youtube.com/watch?v=8FdOJstok54 )

 

 

Il locale è immerso nella sporcizia e nel disordine per l’incuria della proprietaria e dei suoi familiari, che vivono in disaccordo tra loro. A poco a poco però la presenza di Jasmine e la sua bontà disarmante producono dei cambiamenti nella piccola comunità di Bagdad Café, stimolando l’amore tra la gente del locale e nei suoi confronti.

 

https://www.youtube.com/watch?v=9GvOLYoPtxs&t=1s

 

Jasmine inizia la sua opera di cura a partire dagli spazi che pulisce e riordina: immerso nel deserto, il locale è polveroso e invaso dai rifiuti, un caos che l’ospite speciale riporta all’ordine – o dal caos al kosmos. Dalla sporcizia alla pulizia – o dal peccato alla grazia. Dalla disarmonia all’armonia, Jasmine realizza la sua opera di “redenzione”. E quello della redenzione è un tema ripreso dal motivo musicale I am calling you, Ti sto chiamando. Una chiamata per tutti a una vita nuova, che l’arrivo di Jasmine introduce: A change is coming, Un cambiamento è in arrivo: 

https://www.youtube.com/watch?v=rAjeO7mQLQI

 

 

E la chiamata è corale perché tutti i personaggi hanno bisogno di redenzione: Brenda, la proprietaria, è la più refrattaria al cambiamento in quanto indurita dall’atteggiamento degli altri che le ruotano attorno e su cui grava maggiormente il peso di quella devastazione. Quando Jasmine arriva al motel, Brenda ha appena mandato via il marito fannullone, ma di questo è amareggiata e piange: ( https://www.youtube.com/watch?v=nonVh6xdYRM )

 

 

 

I figli non sono da meno: la ragazza è solo interessata a seguire tutti i ragazzi che passano da lì, mentre il ragazzo come inetto e disinteressato a tutto, figlio compreso che lascia piangere senza occuparsene, non fa altro che suonare malamente “Il clavicembalo ben temperato” di Bach. Lo suonerà bene solo quando è qualcuno a chiedergli di suonare, Jasmine, che avvinta dalla musica si illumina come un’icona: (https://www.youtube.com/watch?v=Unpzhu72JPs&t=3s )

 

 

Brenda è dapprima ostile alla novità di Jasmine e mal tollera quella che considera un’ingerenza nel locale e con i suoi figli, ma le due donne finiranno per diventare amiche non appena scopriranno l’una la sofferenza dell’altra. Il cambiamento di Brenda sarà persino sigillato da un biblico arcobaleno, segno dell’alleanza tra le due donne che da quel momento saranno l’una per l’altra.

 

 

Jasmine è una figura cristica alquanto improbabile, eppure i parallelismi con Gesù non sono pochi e metterli in luce rivela la genialità con cui è stato costruito il suo personaggio: arriva da fuori ma ben si adatta alla realtà locale, si fa serva di tutti, attira i bambini, compie piccoli miracoli e conversioni. Ma poi nella seconda parte anche Jasmine vive la sua kenosis, in quanto viene arrestata (il suo permesso di soggiorno per turismo è scaduto) e simbolicamente eliminata, uccisa. I suoi amici la rimpiangono, ricordandola e affiggendo immagini che la ritraggono. E quando infine ritorna, trasformata (in bianco!), promette di restare con loro sempre, insieme celebrano una festa, vera e propria immagine di gioia del regno: (https://www.youtube.com/watch?v=efXQc5BlYqI&list=RDefXQc5BlYqI&start_radio=1&rv=efXQc5BlYqI&t=20 )

 

 

 

A desert road from Vegas to nowhere
Some place better than where you’ve been
A coffee machine needs some fixing
In a little café just around the bend

I am calling you
I am calling you

A hot dry wind blows right through me
Baby’s crying and I can’t sleep
But I can feel a change is coming
It’s coming closer, sweet release

Ooh-ooh
Ooh-ooh
Ooh

I am calling you
I am calling you

A desert road from Vegas to nowhere
Some place better than where you’ve been
A coffee machine that needs some fixing
In a little café just around the bend

A hot dry wind blows right through me
The baby’s crying and I can’t sleep
But I can feel that a change is coming
It’s coming closer, sweet release

I am calling you
I am calling you

Ooh

https://www.youtube.com/watch?v=uHMKVtvqULg

 

Pretty women

Scritto da  MARIA NISII.

 

Ancor più impensabile dell’amicizia con i peccatori era l’amicizia tra Dio e le sue creature, poiché non poteva darsi disuguaglianza maggiore. Dio non è la
versione assai potente di un essere umano: è assolutamente trascendente.
Come potrebbe dunque Dio stringere amicizia con noi? Per san Tommaso
d’Aquino questo deve semplicemente essere un dono di Dio: e non fa differenza
che il dono venga fatto a un santo o a una prostituta
(Timothy Radcliffe, Accendere l’immaginazione. Essere vivi in Dio
p. 208)

In questo bel libro di Radcliffe, sconcerta non poco trovare un’affermazione come quella riportata a conclusione della citazione. Se pure si tratta di una ripresa da san Tommaso, certo la si poteva «ritoccare» alla luce della sensibilità contemporanea, come tutto il libro si sforza in ogni modo di fare. Non è improbabile che all’orecchio di tanti la questione passi persino inosservata per via dell’uso e abuso di certe espressioni (rimando al bel discorso di Paola Cortellesi che mostra il florilegio di parole sorte attorno al cosiddetto «mestiere più antico del mondo»: https://www.youtube.com/watch?v=4WjhLSkXqTk). Ma spero passi inosservata a sempre meno persone, e a questo scopo offro ora il mio piccolo contributo. Perché, mi chiedo, se proprio bisogna individuare due categorie moralmente pregevoli e disdicevoli, si deve individuare quella buona al maschile («santo») e quella sciagurata al femminile («prostituta»)? I vangeli riportano che Gesù era accusato di mangiare con pubblicani e prostitute, con un’interessante parità di genere considerati i tempi.

Se solo ci si sofferma a pensare (anche per poco e superficialmente) allo stigma sociale che grava sulla prostituta, credo che chiunque noterà l’ingiustizia che vede il peso del peggiore moralismo riversato solo sulla donna, la quale vende il proprio corpo per disperazione, sopportando violenze e abusi di ogni sorta, aggravati da insulti razziali se è il caso – come spesso capita – di una donna di colore o di altra etnia. Niente invece sugli uomini, i «clienti» per usare un eufemismo, che rendono tanto redditizio a protettori e protettrici tale reclutamento forzato. Essere attenti alle questioni di genere può essere persino un atto di misericordia, sebbene in tanti ne abbiano ancora una gran paura.

 

 

 

Ultimamente sulla pagina Facebook della Pastorale della cultura della diocesi di Torino  è stato segnalato un interesse del pubblico, in parte inatteso, nei confronti dell’ennesima replica televisiva di Pretty woman, un film del Novanta in cui lo stigma moralistico fa appena capolino dalla voce di un personaggio negativo, chiaro segno che del mestiere della protagonista non ci si preoccupi davvero seriamente. Il genere fiabesco, che si richiama per giustificare tale leggerezza, è però poco pertinente. La fiaba infatti nasce come strumento educativo che si tramanda tra generazioni e nel suo linguaggio immaginifico non cela il lato oscuro dell’esistenza (come fanno le versioni edulcorate Disney), parlando della lotta contro le difficoltà della vita. Naturalmente lo fa impiegando alcune strategie necessarie a raggiungere il suo destinatario, quali la polarizzazione di personaggi e situazioni (bene e male sono schematicamente suddivisi) più comprensibili a un bambino, per il quale non esistono ambivalenze e ambiguità.

La fiaba favorisce lo sviluppo sano del bambino con una struttura narrativa che passa dal conflitto alla sua risoluzione, raccontando storie che problematizzano le varie fasi della crescita come l’ansia da abbandono (Hansel e Gretel, Pollicino), il passaggio alla pubertà femminile (Cappuccetto rosso, La bella addormentata) o il rapporto irrisolto di un’adolescente con una madre gelosa (Biancaneve, Cenerentola, Rapunzel) per fare solo gli esempi più noti. Ricorrere al genere fiabesco per Pretty woman sembra invece un modo per spiegare la facilità della soluzione finale, per rendere ragione del fatto che un uomo d’affari bello e ricco possa interessarsi a una povera ragazza senz’arte né parte. Ma se è a quello che si vuol far riferimento, è più opportuno parlare di genere rosa che di fiaba, perché appunto le fiabe sono un’altra cosa.

 

 

Non fiaba allora nel senso riduzionistico del termine – come mi pare venga attribuito a questo genere dell’antica tradizione orale che poi si sedimenta in forma scritta, proprio come la Bibbia -, anche Pretty woman possiede elementi di valore, forse meno evidenti a chi cerca la gratificazione del lieto fine in un sogno impossibile da realizzare nella vita reale. Vivian-Julia Roberts è a tutti gli effetti una figura salvifica, perché più che essere «salvata» dal principe azzurro-Richard Gere, è capace di riscattare la vita di un uomo cinico e disinteressato ai legami. È una ragazza di strada, finita lì – come tante altre – per fuggire di casa con un ragazzo che si è poi rivelato un balordo, ma a cui manca il coraggio di tornare indietro. Se la sua è dunque una storia alquanto paradigmatica, su cui si sorvola fin troppo facilmente, lo è meno la piega che assumono gli eventi.

Pur essendo presentata come prostituta, quello di Vivian è un personaggio positivo che rovescia l’immaginario moralistico di un’America sempre profondamente puritana. Mi chiedo perché la cosa dovrebbe stupirci visto che già nella Bibbia le prostitute non sono sempre personaggi negativi e anzi talvolta compaiono in snodi narrativi dove il loro intervento è risolutivo e salvifico. Il primo caso è Tamar (Gen 38), che finge di essere una prostituta con il suocero Giuda che l’ha abbandonata al suo destino dopo aver perso i due figli a cui lei era stata data in moglie. Il suocero cade nell’imbroglio della nuora, rivelando il lato incontenibile del desiderio maschile, che la Bibbia non si preoccupa di censurare. Ma da quell’incontro carnale nasceranno due gemelli, Peres e Terach, e Giuda – come sappiamo –è uno dei 12 figli di Giacobbe, capostipite di una delle maggiori tribù di quello che sarà il popolo ebraico in Terra promessa. Una posterità ottenuta grazie allo stratagemma ideato da una nuora ferita, che ha saputo garantirsi il proprio risarcimento all’unico prezzo che era possibile a una donna a quei tempi.

 

Giovanni Anastasi, Giuda e Tamar (1670-80)

 

 

Erri De Luca commenta così la vicenda di Tamar: «Inaugura lei la breve lista di donne entrate nell’elenco del messia, che con il loro corpo infrangono la legge per dare una più giusta e misteriosa applicazione. Partorì due gemelli, Peretz e Zàrah, la somma numerica dei loro nomi è uguale a quella di ‘serefà’, incendio, cui era destinata la madre. Loro sono il contrappeso equivalente della salvezza. Uno di loro, Peretz, sta nella discendenza che produrrà il messia» (Le sante dello scandalo p. 23).

Nel libro di Giosuè compare poi il personaggio di Raab, prostituta di Gerico, che accoglie in casa sua le spie ebree arrivate lì in avanscoperta, le nasconde mettendo fuori strada chi le cercava e infine favorisce la presa della sua città con il segnale convenuto. Lei infatti, pur essendo straniera, riconosce il Dio d’Israele: «So che il Signore vi ha consegnato la terra. Ci è piombato addosso il terrore di voi e davanti a voi tremano tutti gli abitanti della regione, 10poiché udimmo che il Signore ha prosciugato le acque del Mar Rosso davanti a voi, quando usciste dall’Egitto, e quanto avete fatto ai due re amorrei oltre il Giordano, Sicon e Og, da voi votati allo sterminio. 11Quando l’udimmo, il nostro cuore venne meno e nessuno ha più coraggio dinanzi a voi, perché il Signore, vostro Dio, è Dio lassù in cielo e quaggiù sulla terra.» (Gs 2,8-11). Per questo sarà risparmiata dalla legge dello sterminio:«Giosuè lasciò in vita la prostituta Raab, la casa di suo padre e quanto le apparteneva. Ella è rimasta in mezzo a Israele fino ad oggi, per aver nascosto gli inviati che Giosuè aveva mandato a esplorare Gerico» (Gs 6,25).

 

Artista sconosciuto, Raab e gli emissari di Giosuè (XVII sec.)

 

Come facesse Raab, donna pagana e senza istruzione, a riconoscere il Dio d’Israele, lasciamo che sia ancora Erri De Luca a spiegarlo in un passaggio dai toni romantici, che non manca in tanti nostalgici delle case chiuse: «La prostituzione è mestiere di confine, accoglie uomini di passaggio senza chiedere documenti, raccoglie notizie da chi beve un bicchiere e racconta volentieri. Le prostitute hanno orecchie discrete, sanno tenere i segreti. Le prostitute sono il contrario delle comari» (Le sante dello scandalo p. 26).

Le altre ricorrenze bibliche in cui compare l’epiteto in questione rimandano al significato tradizionale. Rompe lo schema solo Gesù che, disinteressato al giudizio morale, ha guardato la donna e non il peccato che si porta dietro come una macchia indelebile. È il caso della donna anonima che arriva nella casa di Simone il fariseo in Lc 7, di cui Gesù accetta i gesti di amore (gli bagna i piedi con le lacrime e glieli asciuga con i capelli) e che congeda con «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». Similmente si comporta con l’adultera che gli viene portata a giudizio in Gv 8 da scribi e farisei per metterlo alla prova, e che saluta con «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». Gesù guarda queste donne con occhi nuovi rispetto alla morale patriarcale disinteressata a coinvolgere il maschio con cui hanno peccato e tutta rivolta a colpire la donna, che con il suo corpo rappresenta una tentazione insuperabile. Non è un caso che l’islam e un certo ebraismo ultraortodosso impongano al femminile rigide norme di abbigliamento, invece di educare il desiderio maschile. Non sta meglio l’Occidente secolarizzato, che nel suo apparente liberalismo è disposto a chiudere un occhio sulla piaga della prostituzione né sembra meglio capace di educare il desiderio maschile che continua a mietere vittime (violenze in famiglia, stupri di gruppo, pedofilia, femminicidi).

 

Lucas Cranach, Cristo e l’adultera (1532)

 

Nella vicenda di Vivian, per quanto poco problematizzata,la donna è strumento di salvezza per se stessa e per l’uomo di cui si innamora. L’amore salva – anche a Hollywood. E se queste storie piacciono e Pretty woman continua a incollare allo schermo milioni di telespettatori a ogni replica è perché abbiamo bisogno di crederci. Anche quando non credessimo più che quell’amore sia specchio inaudito dell’amore divino. Anzi, meno crediamo in Dio e tanto più abbiamo bisogno di storie «sentimentali» che raccontino un amore impossibile. Un amore tutto umano, terreno, magari anche provvisorio. Purché sia – foss’anche per il breve spazio del tempo della proiezione.

 

 

Lascia che ti guardi

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

 

“Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto.”

 

Queste parole, del salmo 27, torneranno ad aleggiare su Torino in questo caldo e tormentato inizio di luglio del 2022. Il desiderio appassionato di “vedere” l’invisibile, di conoscere il cuore del mistero è in un certo senso di casa qua, nella città che custodisce la Sindone con la sua immagine misteriosa quanto potente ed evocativa.  Proprio intorno al Lenzuolo si comporrà uno dei momenti del pellegrinaggio dei giovani di tutta Europa che stanno per giungere per l’incontro guidato dalla Comunità di Taizé. In una specifica serata, al termine di un cammino che sarà fisico e spirituale,  ci sarà il raccoglimento intorno alla reliquia per eccellenza: la contemplazione straordinaria.

 

 

In contemporanea e con l’occasione, la Pinacoteca della Accademia Albertina ha organizzato, a partire dagli stessi giorni, Volti nel Volto, una mostra/workshop per approfondire il tema del volto di Cristo nell’arte. Con la possibilità di visitare  tesori solitamente inaccessibili al pubblico, in un percorso sulla storia dell’arte e della spiritualità. “Minuziosi dipinti rinascimentali e caravaggeschi, preziosi disegni gaudenziani solitamente non esposti al pubblico e affascinanti allestimenti multimediali sono gli ingredienti del progetto. Non si tratta solo di una mostra, ma si pone l’obiettivo di accogliere il pubblico nella dimensione di un laboratorio artistico.” http://www.pinacotecalbertina.it/volti-nel-volto-dal-7-luglio/?fbclid=IwAR1Jx4KAgYwFR6daKAmtxS8v7cWzXxC4yg0kkF-0AuvVYXLplkd8CcTbkBo

 

 

 

In questo stesso periodo, a Palazzo Madama, viene esposta la pala d’altare di Ugo da Carpi con la Veronica che dispiega il velo del Volto Santo tra gli Apostoli Pietro e Paolo – un’opera di straordinaria importanza per arte e fede. “Si tratta di una tavola “fatta senza pennello”, come è scritto dall’autore accanto alla firma e come riferisce Giorgio Vasari che la vide in San Pietro insieme a Michelangelo. Quella di Ugo da Carpi “intagliatore” fu una sperimentazione audace, ingegnosa e senza precedenti che nessuno ebbe in seguito l’ardire di ripetere; un’opera unica nel suo genere perché eseguita non con l’arte della pittura, ma con la tecnica della stampa a matrici sovrapposte.”  https://www.palazzomadamatorino.it/it/eventi-e-mostre/da-san-pietro-vaticano-la-tavola-di-ugo-da-carpi-l%E2%80%99altare-del-volto-santo

Basterebbe dunque questo inizio di luglio torinese   a dimostrare e a ricordarci come il volto del Signore resti questione di interesse al contempo spirituale, storico, artistico e culturale. Il fatto è che in assenza di elementi forniti dai Vangeli, l’aspetto fisico di Gesù è il primo ambito, e il più sensibile anche, in cui si è da sempre esercitata una  particolare forma di riscrittura della Parola di Dio: quella che si sforza  di riempire i vuoti della narrazione,  si ingegna a immaginare i non detti,  si adopera per  illuminare le zone restate in ombra. Non si tratta “soltanto” di curiosità, e nemmeno “soltanto” di struggimento emotivo: entrambi restano inappagati dalla Scrittura, e quindi  entrambi sono giustificati nel credente. Il cristianesimo non è la religione della incarnazione? C’è una compromissione totale di Dio, puro spirito per definizione , con la fisicità specificamente umana, con il corpo, il sangue, la carne, le membra: dunque è lecito, naturale e giusto NON liquidare come questione da poco conto l’interesse per il volto ( e il corpo)  di Gesù. Per dirla con Papa Francesco: ” Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Gesù. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).  (FIRENZE – Cattedrale – 10.11.2015 – h. 10.00 Incontro con i Rappresentanti del Convegno Nazionale della Chiesa italiana Discorso del Santo Padre).

 

 

Per aggiungere altra carne al fuoco delle considerazioni, si potrebbe ricordare che Torino è una delle città “storiche”del cinema, a livello internazionale, e che la settima arte, qui molto ben raccontata dal Museo del Cinema,  fin dai suoi albori, si è proiettata sul tentativo di rappresentare visivamente il Cristo: quasi per vocazione naturale. Lo ha fatto in tutti i modi possibili. e secondo tutti i generi praticabili. Poche cose come i volti cinematografici del Cristo sono in grado, da soli, di spiegare la filosofia , la finalità o le motivazioni di una riscrittura. In altre parole: dimmi che volto dai a Gesù, e ti dirò che Gesù mi vuoi raccontare.

 

 

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2018-03/la-sindone-in-3d.html

 

Infine proprio da Torino, da lunga data luogo di tecnologie applicate , alla reliquia fisica del sacro lino si è andata affiancando  la ricerca su modi nuovi di studio, analisi e creazione di immagini costruite a partire da quella della Sindone. Questo è un capitolo che ci ha portato risultati suggestivi e visivamente impressionanti. Iniziando dalle fotografie storiche di Secondo Pia, che rivelarono la incredibile natura dell’immagine “al negativo” e ce ne permisero una visione – secondo questa modalità- enormemente più incisiva e penetrante, fino ad arrivare al tridimensionale, che ci ha consentito di avere  figure virtuali in 3d , a partire da quella materiale del lenzuolo. Tutti questi risultati possono essere di varia interpretazione scientifica ma tutti – è questo che qui ci interessa –stanno lì, a confermare e a riscrivere il verso del salmista: il tuo volto, Signore, io cerco. E’ come se da duemila anni l’uomo dicesse: lo cerco; e con l’arte, la tecnica, la ricerca, l’archeologia, la speranza della fede, faccio di tutto per trovarlo, e  rappresentarlo e scriverlo e riscriverlo.

 

 

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  • In copertina: Particolare del Cristo Velato, Napoli, Musei Cappella SanSevero
  • Il video finale è Who is this broken man?, tratto da Jesus Christ Superstar.

La forza della parola libera (2)

Scritto da MARIA NISII.

La prima parte di questo articolo è stata pubblicata su questo blog in data 18/6/22.

 

Contro l’Unione degli Scrittori e coloro che si piegano alle ragioni del partito, Mandel’štam ricorre alla forza della parola libera, che gli costerà la vita. La letteratura è “sale dei congiurati”, le sue armi sono le parole e le immagini (tra cui il gelo e le stelle, già presenti nella poesia precedente). Nel 1930 scrive quindi Quarta prosa, testo polemico contro l’establishment letterario che, inedito fino al 1988, circola in forma di samizdat negli anni sessanta.

La razza degli scrittori professionisti emana un odore ripugnante (…) però è sempre vicina alle autorità, che trovano rifugio ai propri membri nei quartieri a luci rosse, come le prostitute. Perché la letteratura adempie a un’unica funzione: aiuta i capi a mantenere la disciplina tra i soldati, e i giudici a massacrare i condannati. Lo scrittore [autorizzato] è un miscuglio di pappagallo e di pope, un loreto nel più alto senso della parola. Parla in francese se francese è il suo padrone, ma, venduto in Persia, dirà in persiano “loreto-cretino” o “loreto vuole lo zucchero”. Il pappagallo non ha età, non conosce giorno né notte. Quando viene a noia al suo padrone, questi lo copre con un panno nero, che serve alla letteratura come surrogato della notte.

 

 

 

 

Mandel’štam morì poco prima del suo quarantottesimo compleanno in un campo di transito vicino a Vladivostok. La moglie racconta il modo in cui le fu data la notizia:

Mi inviarono un avviso che mi invitava a recarmi all’ufficio postale di Porta Nikita. Qui mi fu restituito il pacchetto che avevo spedito a M. al campo. «Il destinatario è morto», mi informò la ragazza allo sportello. Sarebbe abbastanza facile stabilire la data in cui mi fu rispedito il pacchetto – era lo stesso giorno in cui i giornali pubblicarono il lungo elenco dei riconoscimenti governativi – i primi in assoluto – agli scrittori sovietici.

Se il suo corpo non è mai stato trovato, dobbiamo gran parte delle sue poesie alla moglie, Nadežda, che le ha apprese a memoria per preservarle clandestinamente. Di seguito un testo di Mandel’štama lei dedicato, ove sembra intuire quello che sarà:

Quanto vorrei, oh quanto

– non visto, non sentito –

volare dietro a un raggio

là dove non esisto.

 

E tu nel cerchio irradia –

non c’è altra beatitudine –

e da una stella impara

che significhi luce.

 

Ciò che ti voglio dire

è che sto bisbigliando

e sottovoce affido

te, mia bambina, a un raggio.

La coppia Mandel’štam è sopravvissuta al tempo storico grazie alla forza che vivere in quei tempi ha risvegliato in Nadežda, che si è fatta carico di preservare il lavoro del marito e la sua biografia.

“La consapevolezza di Nadežda era assoluta, ma veniva sopportata alla luce di una coscienza sana. Improvvisamente divenne una guerrigliera dell’immaginazione, votata alla causa della poesia, alla conservazione dell’opera di suo marito e, in particolare, alla conservazione dei suoi manoscritti. Alcune parole della condanna commutata che intendeva «isolare» e «proteggere» il poeta potrebbero applicarsi anche al compito che Nadežda si assegnò istintivamente e religiosamente – la parola non è troppo forte dal momento in cui la polizia segreta penetrò nel loro appartamento. Da allora in avanti, fu come un prete perseguitato all’epoca dei campi di prigionia, spostandosi rischiosamente insieme all’altare della fede proibita, sistemando i manoscritti al sicuro presso gli adepti segreti. E inevitabilmente, essendosi consacrata custode, era destinata a diventare testimone…”

“Dopo il secondo arresto di Osip, ad esempio, quando Nadežda faceva il turno di notte in una fabbrica tessile della cittadina di Strunino, si teneva sveglia borbottando i versi tra sé e sé: «Dovevo affidare tutto alla memoria in caso mi avessero portato via i manoscritti, o le varie persone cui avevo dato le copie si fossero spaventate e le avessero bruciate in un momento di panico.» C’è poi questa scena in un solaio occupato da ladruncoli, che fu riferita a Nadežda da un uomo che era passato dall’ultimo campo di transito contemporaneamente a suo marito: Seduto con i criminali c’era un uomo con un’ispida barba grigia che indossava un giaccone di pelle giallo. Recitava versi che L. riconobbe. Era Mandel’štam. I criminali gli offrirono pane e roba in scatola, ed egli si servì tranquillamente e mangiò. Evidentemente era solo timoroso di mangiare cibo offertogli dai suoi carcerieri. Lo ascoltarono nel silenzio totale e ogni tanto gli chiesero di ripetere una poesia.”

(da un saggio di  Seamus Heaney su Osip e Nadežda Mandel’štam)

In Ogni storia è una storia d’amore, Alessandro D’Avenia dedica a Nadežda uno dei racconti: https://www.cislscuola.it/fileadmin/cislscuola/content/Scuola_e_formazione/2018/02_2018/DAvenia.pdf

e il gruppo Marlene Kuntz ha messa in musica la sua storia nel brano “Nella tua luce”:

https://www.youtube.com/watch?time_continue=31&v=JUs8cYFGjxo&feature=emb_logo

 

 

 

 

Il poeta, come il profeta, non può tacere. Una volta sgorgata dal profondo, la parola chiede di essere fissata nella forma scritta. Poesia e profezia sono vissute come un compito a cui non ci si può sottrarre, nonostante i rischi che comporta:

“Voi, togliendomi i mari, la rincorsa, lo slancio, e dando al piede il sostegno di una terra forzata, cos’avete scoperto? Un principio sagace: che il moto delle labbra non può venir sottratto.”

In queste parole sembrano riecheggiare i versi dei profeti biblici:

Le mie viscere, le mie viscere! Sono straziato.

Le pareti del mio cuore!

Il cuore mi batte forte; non riesco a tacere,

perché ho udito uno squillo di tromba, un fragore di guerra.

Si annunzia rovina sopra rovina:

tutto il paese è devastato (Geremia 4,19-20)

Ero come un agnello mansueto che viene portato al macello, non sapevo che essi tramavano contro di me, dicendo: “Abbattiamo l’albero nel suo rigoglio, strappiamolo dalla terra dei viventi; il suo nome non sia più ricordato” (Geremia 11,19).

Come Geremia, anche Mandel’štam viene “condotto al macello” purché taccia. Ma le sue poesie, come gli oracoli, sono votati all’eternità:

No, non la luna, ma un quadrante luminoso
brilla per me e per quale motivo sono colpevole
di sentire la sostanza lattea delle stelle?

E l’orgoglio di Batjuškov mi repelle:
che ora è? Gli hanno domandato qui –
e lui ha risposto con curiosità: è l’eternità!

(La pietra, 1913)

“Per la beata parola senza senso, io pregherò nella notte sovietica”, e il nome di Dio sembra un tutt’uno con la libertà negata:

La tua immagine, dolorosa e incerta,
non posso tastare nella nebbia.
“Signore!” Dissi per sbaglio
senza pensare io stesso di dirlo.

Il nome di Dio, come un grande uccello,
spiccò il volo dal mio petto.
Dinanzi turbina una fitta nebbia
e indietro una gabbia vuota.

(Tristia, 1922)

 

 

Marc Chagall, L’angelo che cade

 

 

Di lui si racconta che di sera, nel gulag dove trascorse gli ultimi giorni di vita, per consolare i detenuti recitava davanti al fuoco le sue traduzioni di Petrarca (aveva appreso l’italiano per leggere Dante).

Il poeta OsipMandel’štam fu visto l’ultima volta
in un campo di smistamento prigionieri
presso Vladivostok nel dicembre del trentotto
mentre cercava resti commestibili in un
cumulo di immondizie. Morì prima ancora che finisse l’anno

I suoi assassini a quei tempi amavano parlare
del “cumulo di macerie della storia
sopra il quale
sarà gettato il nemico”

E dunque questo era il nemico: il poeta in fin di vita
e questo il cumulo di macerie (come già disse Lenin:
“La verità è concreta”) Se l’umanità avrà fortuna
gli archeologi delle macerie della storia porteranno alla luce
ancora qualcosa della nostalgia di una cultura universale

Se l’umanità avrà ancora fortuna saranno uomini
gli archeologi sulle macerie della storia

(Erich Fried, Macerie)

 

 

Marc Chagall, Giobbe

 

 

La luce di Mandel’štam non si è spenta ma ha continuato a brillare negli animi di coloro che hanno ritrovato il suo spirito negli anni bui della repressione, che in quelle terre ha conosciuto varie ondate e non pare si sia ancora esaurita. Ol’ga Sedakova, poetessa contemporanea che ha proseguito la tradizione di questi grandi, ne riferisce un episodio esemplare:

“Racconterò una storia che ho ricevuto di prima mano dal suo protagonista. Si tratta di un dissidente che negli anni settanta era stato incarcerato e per molti mesi interrogato ogni giorno. Da lui esigevano che firmasse determinate dichiarazioni e intervenisse pubblicamente con un pentimento quando sarebbe parso opportuno.

A un certo momento – raccontava lui stesso – mi fu tutto chiaro. Mi addormentai con il sentimento che quel giorno avrei firmato tutto ciò che era necessario. Non per paura, ma perché tutto era indifferente. Niente aveva qualche significato. Ed ecco che improvvisamente affiora alla mente una poesia di Mandel’štam, dall’inizio alla fine: Del greco flauto théta e iota. E anch’io provai in verità ciò che mi raccontava la gente di chiesa, quel che essi sentivano dopo la comunione, e pensai: sicuramente dev’essere la stessa cosa. Il mondo intero, tutto è comunione con Lui. Dopo di che fui saldamente cosciente che non avrei firmato nulla. Ormai era impossibile. Dovettero capirlo, e da quel giorno non mi chiesero più nulla e mi mandarono dove era necessario.” (Ol’gaSedakova, Il nodo della vita”. La poesia come esperienza spirituale in Anna Achmatova e OsipMandel’štam).

Nell’enciclopedia di nuovo non c’è posto
per OsipMandel’štam
di nuovo è senza un tetto
è sempre così difficile trovare un alloggio
registrarsi a Mosca è quasi impossibile
lo chiama il Caucaso echeggia la bassa foresta
dell’Asia quei giorni non sono ancora giunti
altri raccolgono ciottoli sulle spiagge del Mar Nero
continua sempre l’iniqua istruttoria sebbene l’uniforme
mostri un taglio nuovo
e un sarto sempre diverso
senza volto s’inabissi in inchini profondi
Chiudi il libro un fragore di sparo e la polvere
bianca della carta solletica il naso
è sera
cade una neve latina nessuno verrà più oggi
è tempo di dormire quando busserà alla tua porta sottile
aprigli.

(Adam Zagajewski)

Mandel’štam è stato ispiratore e profeta anche fuori dall’ex Unione sovietica. È stato infatti maestro di Paul Celan, che lo ha tradotto in tedesco, nella lingua dei suoi persecutori, per raccontare la shoah alle generazioni che non l’avevano conosciuta. Perché la poesia può dire quello che altre parole non saprebbero esprimere. Per questo può bruciare più del fuoco. Per questo inquieta i potenti di sempre che sanno solo metterla a tacere. Un segno della sua forza, la forza di una libertà che non si può incatenare.

Non si può tacere… Il moto delle labbra non può venir sottratto.

(2) Fine.

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La forza della parola libera

 

Scritto da  MARIA NISII 

 

«Ah, come è finito l’aguzzino,
è finita l’arroganza!
5 Il Signore ha spezzato la verga degli iniqui,
il bastone dei dominatori,
6 di colui che percuoteva i popoli nel suo furore,
con colpi senza fine
,
che dominava con furia le genti
con una tirannia senza respiro
.
…11 Negli inferi è precipitato il tuo fasto,
la musica delle tue arpe;
sotto di te v’è uno strato di marciume,
tua coltre sono i vermi.
12 Come mai sei caduto dal cielo,
Lucifero, figlio dell’aurora?
Come mai sei stato steso a terra,
signore di popoli?
13 Eppure tu pensavi:
Salirò in cielo,
sulle stelle di Dio
innalzerò il trono,
dimorerò sul monte dell’assemblea,
nelle parti più remote del settentrione.
14 Salirò sulle regioni superiori delle nubi,
mi farò uguale all’Altissimo.
15 E invece sei stato precipitato negli inferi,
nelle profondità dell’abisso!
(Isaia 14)

 

 

Secondo Robert Alter, quando Osip Mandel’štam scrive Epigramma di Stalin nel 1933 – le dita come dieci grossi vermi… si trastulla con i tributi di mezzi-uomini…si rotola sulla lingua le esecuzioni come acini – ripercorre il filone della satira poetica già presente nel profeta Isaia, ad esempio nell’elegia irrisoria del cap. 14 che gli studiosi ritengono rivolta a un monarca babilonese o a un re assiro, e che i cristiani hanno riletto in chiave luciferina per i riflessi mitologici presenti nel testo. Purtroppo, conclude Alter, il poeta non ha qui “l’abilità del profeta di immaginare una soluzione felice” (L’arte della poesia biblica). Ma c’è indubbiamente una qualità profetica anche in un certo tipo di poesia esterna al canone biblico, con questo in continuità (per la sua azione contestatrice del potere) e talvolta in discontinuità (perdita della dimensione escatologica).

Viviamo senza fiutare il paese sotto di noi,
i nostri discorsi non si sentono a dieci passi
e dove c’è spazio per un mezzo discorso
là ricordano il montanaro caucasico.
Le sue dita tozze sono grasse come vermi
e le parole , del peso di un pud, sono veritiere,
ridono i baffetti da scarafaggio
e brillano i suoi gambali.

E intorno a lui una marmaglia di capetti dal collo sottile,
si diletta dei servigi di mezzi uomini,
chi fischia, chi miagola, chi frigna
appena apre bocca e alza un dito.
Come ferri di cavallo forgia decreti su decreti –
a chi da’ nell’inguine, a chi sulla fronte, a chi nelle sopracciglia, a chi negli occhi
ogni morte è per lui una cuccagna
e l’ampio petto di osseiano.

(novembre 1933)

È la pubblicazione di questi versi quasi candidi per la loro schiettezza, in cui Mandel’štam definisce Stalin «il montanaro del Cremlino», a decretarne l’arresto nel 1934. Oltre a scagliarsi contro il leader sovietico, la sua è una critica al regime comunista, che egli definisce colpevole di numerosi e imperdonabili errori, tra cui la collettivizzazione forzata in Ucraina, che aveva procurato solo grande carestia.

https://www.raiscuola.rai.it/storia/articoli/2021/02/Stalinismo-la-collettivizzazione-forzata-dfbe3564-8320-4350-941a-2d7ef81fc9bf.html

 

 

“I poeti sono tra i pochi a rendersi conto della farsa. Svelano che il re è nudo… Per questo il potere ha sempre cercato d’imbonirsi i poeti. ‘I partiti politici moderni’, dice Octavio Paz, ‘trasformano il poeta in propagandista e così lo degradano. Il propagandista dissemina nella ‘massa’ le idee dei gerarchi. Il suo compito è quello di trasmettere certe direttive, dall’alto verso il basso’” (RubemAlves, Parole da mangiare p. 152).

Il vero poeta però non si lascia piegare alle direttive del potere. Così è stato per Osip Mandel’štam (1891-1938), poeta di origine ebraica, che nel 1934 viene arrestato per la prima volta e mandato al confino per tre anni. Sarà arrestato ancora una seconda volta nel 1938, condannato ai lavori forzati in Siberia, dove morirà qualche mese più tardi. “Scrive poesie da salotto”, aveva decretato l’Unione degli Scrittori (associazione voluta dal partito comunista per controllare la produzione letteraria del Paese). Poco prima dell’arresto Mandel’štam scrive:

Per qualche tempo ancora proverò meraviglia

Del mondo, dei bambini e della neve,

ma come una strada è aperto il mio sorriso,

non docile, non servo.

 

 

Nel 1921 Nikolaj Gumilev, uno dei compagni, con i quali aveva fondato una scuola di poesia (l’Acmeismo, perché voleva occuparsi dei vertici, “acme”, dell’esistenza), viene fucilato con l’accusa di attività controrivoluzionaria. Mandel’štamlo viene a sapere mentre è ospite in una “casa delle arti”, dove cercava di accreditarsi come scrittore di Stato. Ma lì, una notte, arriva brutale la presa di coscienza:

Mi lavavo di notte nel cortile; il firmamento splendeva di rozze stelle.

Il loro raggio è sale sulla scure; la botte, colma fino all’orlo, gela.

 Il portone è chiuso a chiave, la terra è severa secondo coscienza.

Non troverai trama di verità più pura che in una tela fresca di bucato.

 Nella botte si scioglie, come sale, una stella e l’acqua gelata è più nera

Più pulita la morte, più salata la sventura, più sincera e terribile la terra.

Il momento in cui si trova a vivere non offre requie: le stelle illuminano una scure, ma il loro essere “sale” ne indica la saggezza, la consapevolezza della ferocia che in potenza è presente in un usuale oggetto di campagna. In quel cortile il poeta vede con chiarezza come tutto attorno a lui sia marchiato di segni luttuosi: l’acqua gelata è più nera della morte, il portone sprangato non lascia via di scampo (mala terra, severa e terribile, giudica secondo coscienza). L’unica verità possibile, oltre alla terra, risiede nella tela di un asciugamano che egli aveva con sé – “un asciugamano di tela grezza che ci eravamo portati dall’Ucraina”: ricorderà quella che allora era ancora la fidanzata -, un oggetto personale e familiare, l’unico capace di suscitare una nota di dolcezza e di tregua dalla sventura incombente. Ma questa sventura è “salata”, fonte di sapienza:ora egli sa.

 

Marc Chagall, Sopra Vitebsk (1914)

 

“Se non ci fossi tu, rabbia della letteratura, con quale cibo potrei mangiare il sale della terra? Tu dai sapore a quel pane insipido che è il comprendere, tu allegra coscienza del torto, tu sale dei congiurati, tramandato con un perfido inchino un decennio dopo l’altro nella saliera sfaccettata, con tanto di salvietta! È per questo che mi dà tanto piacere smorzare l’ardore della letteratura con il gelo e con le stelle acuminate. Manda un crepitio come fosse neve? La gelida strada nekrasoviana le mette allegria? Se è autentica letteratura sì.”

(1) Continua.

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  • In copertina: dettaglio della Cappella Sisitina

 

«Quello che vedi, scrivilo in un libro» (Ap 1,11)

 

 

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

Quando ascoltiamo le letture del tempo di Pasqua nell’anno liturgico C, brani tratti dal libro dell’Apocalisse di Giovanni, dalle descrizioni degli eventi ne abbiamo una percezione “apocalittica” col senso che oggi diamo al termine stesso per indicare cataclisma, enorme disastro e fine del mondo. Da un’attenta lettura emerge il fascino che questo testo sacro ed enigmatico ci trasmette attraverso le descrizioni dettagliate di immagini ricche di simboli. D’altra parte, fin dal prologo si presenta come un libro da “guardare” e dove la vista gioca un ruolo così importante, che in non meno di 36 volte nei suoi 22 capitoli, Giovanni scriverà «io vidi». Partendo dal significato letterale di Apocalisse, “levare il velo”, “rimuovere il velo per mostrare ciò che era nascosto”, approfondiamo il suo contenuto e le espressioni artistiche che ne sono derivate.

 

Come affermano lo studioso Eugenio Corsini e il biblista Claudio Doglio, il testo dell’Apocalisse rappresenta “fondamentalmente celebrazione della Pasqua, inno liturgico e annuncio della risurrezione avvenuta, evento centrale della storia di salvezza, anello di congiunzione fra l’inizio e la fine, dalla creazione alla risurrezione, al ritorno di Cristo nella sua comunità. Gli stessi definiscono inoltre l’Apocalisse come una rilettura cristiana dell’Antico Testamento alla luce dell’avvenimento pasquale, essendo Rivelazione di Gesù Cristo. Per le sue indiscusse visioni mistiche e descrizioni fantastiche, l’Apocalisse ha stimolato molti artisti, costituendo uno dei temi più diffusi dell’arte sacra fin dal secolo V, con uno straordinario incremento fino al periodo medioevale e poi rinascimentale, favorito in quel momento dalla visione della vita come un passaggio verso quella futura e definitiva, sommata a una vasta diffusione delle paure e delle speranze nel destino ultimo dell’uomo e dell’universo. Nelle opere figurative medioevali veniva messo in evidenza l’aspetto più violento e catastrofico delle visioni: esseri infernali, mostri e strane creature del mondo fantastico facevano da corona alle intense figure sacre. Le molte raffigurazioni dell’Apocalisse tra l’ XI e il XIV secolo sono collegate alle interpretazioni date dai vari commentatori sottoforma di miniature dei manoscritti. Per avere una lettura illustrata complessiva di questo testo vi sono i cicli dell’Apocalisse risalenti per lo più al medioevo. Quello più completo lo troviamo in Francia, ora nel Castello di Angers, nella serie di Arazzi del 1380. Ripercorre, pressoché fedelmente, la narrazione dell’autore, con costumi e iconografie tipiche della fine del Medioevo, con soggetti disegnati da Jean de Bandol, adattati al carattere di decorazione monumentale tipico della tappezzeria ed eseguiti da Nicolas Bataille per Luigi d’Angiò, in ottantaquattro scene e novantotto quadri. La lunghezza totale sembra fosse di 168 metri, ora ridotta a 140, e alta 6,10; in ognuna delle scene è presente San Giovanni, talvolta partecipe dell’azione, ma per lo più spettatore, di volta in volta sereno, curioso, sorpreso, terrificato, ansioso, triste, gioioso.(video El Tapiz del Apocalipsis,140 metros de bordado. Angers, Francia. Paseo Comentado.-You Tube: https://www.youtube.com/watch?v=nr0R1Fhaj-8)

Alcune immagini sono diventate simboli, ancora oggi utilizzati dagli artisti; talvolta compresenti, disposti gli uni accanto agli altri, senza rispettarne attinenza e  precisione descrittiva che si riscontrano nel testo originale, e inseriti all’interno di contesti figurativi sacri vari. Eccone riportati alcuni esempi:

la croce gemmata sul monte Golgota (Roma – Santa Pudenziana- abside),

 

 

la città celeste di Gerusalemme (Civate -Lecco – Basilica di San Pietro al Monte – volte),

 

 

i simboli degli evangelisti, gli agnelli che escono dalle città di Gerusalemme e Betlemme, il ritorno di Cristo nel giorno del Giudizio, la mano di Dio con o senza corona sulla testa di Cristo,

l’Agnello mistico che troviamo a : Anagni -Frosinone – Cattedrale – cripta ;

 

 

a Roma: -Santi Cosma e Damiano -Arco trionfale 

 

 

a La Rioja – Spagna– Cattedrale di Santo Domingo de la Calzada – cripta

 

 

un trono vuoto con le insegne di Cristo (l’Etimasia) talvolta con il capo circondato da un’aureola crucifera, la Donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi e coronata di 12 stelle.

In altri casi le singole scene dell’Apocalisse sono state fuse insieme. Una nuova edizione dell’Apocalisse, pubblicata a Milano nel 1941, porta un’innovazione iconografica profonda nella lunga storia delle illustrazioni del libro giovanneo ed è quella elaborata da Giorgio De Chirico tra il 1940 e il 1941, comprendente una serie di venti litografie per una così poco “apocalittica” interpretazione. A commento di quest’opera scrive la storica dell’arte Elena Pontiggia «E nessuno, forse, ne aveva raffigurato gli eventi con tanta tranquilla serenità, venata in alcune parti di un candore addirittura fanciullesco. Il libro sacro più misterioso e terribile, tradizionalmente interpretato come profezia della fine del mondo, anche se in realtà è più una meditazione sulla dolorosa storia dell’uomo che sul suo destino escatologico e culmina con la luce sfolgorante della Nuova Gerusalemme e col trionfo dell’Agnello. Le visionarie pagine giovannee, abitate da mostri e draghi, oscurate dalle tenebre dell’Anticristo e percorse dai flagelli orrendi dei Quattro Cavalieri, diventano in De Chirico un racconto fiabesco, insieme spontaneo e colto, soffuso in certi punti di un evangelico spirito d’infanzia, in altri di solenni accenti classici».

 

 

Ma se volessimo ancora vedere un ciclo moderno dove l’iconografia classica dell’apocalisse non è rispettata, ma rivisitata con le sue creature mostruose, ecco il libro a fumetti pubblicato nel 2019 disegnato da Corrado Roi e scrittoda Alfredo Castelli (https://www.youtube.com/watch?v=jvG7U8TAaNg). Da una recensione si ricava che “i suoi personaggi sono spesso graffiati, dai contorni sfumati, quasi a indicare l’impossibilità di afferrare del tutto le visioni di Giovanni”. E nel commento conclusivo emerge che “Pur non essendo, il loro, un fumetto nato per la catechesi, Castelli e Roi si sono pronunciati a favore del fatto che il medium del fumetto possa contribuire alla conoscenza del testo biblico. Il merito di questo lavoro risiede proprio nell’aver tentato una rilettura che evitasse le trappole del didascalismo e potesse incuriosire i lettori ad andare a leggere il testo originario”.

 

 

 

Alì e l’altro uomo dagli occhi azzurri in Uccellacci e uccellini

 

 

Scritto da  DARIO COPPOLA.

 

Centenario pasoliniano (2)

Troviamo in Uccellacci e uccellini (1966) diversi omaggi al grande cinema: Totò e Ninetto ricordano nei movimenti e nei dialoghi personaggi chapliniani; si vedono anche elementi felliniani nelle caratteristiche grottesche di alcuni personaggi.

Pasolini ha rivelato espressamente il sottofondo religioso di questo e di altri suoi film con una serie di autocitazioni e rimandi, che si rifanno alle vicende evangeliche. Basti guardare II Vangelo secondo Matteo per coglierne alcune: l’arcangelo Gabriele, nell’Annunciazione, è interpretato in quel film dalla stessa attrice (Rossana Di Rocco) che in “Uccellacci e uccellini” è la ragazza con le ali d’angelo, per la recita religiosa.

 

Inoltre in “Uccellacci e uccellini” scorgiamo, in filigrana, cenni chiari del percorso evangelico. Il corvo dirà: “Beati voi…” riferendosi ai semplici, riprendendo le Beatitudini (Matteo, 5); la cacciata dei mercanti al tempio è collocata nel film durante la leggenda di s. Francesco, il quale cita “Il Capitale” di Karl Marx: volutamente Pasolini, giocando con i contrasti, accosta i due estremi, come già ha fatto nel film Il Vangelo secondo Matteo, ove fa risuonare i canti rivoluzionari russi mentre il Cristo parla alle folle. La gente che è radunata a causa di una morte, in Uccellacci e uccellini, dà lo spunto per la riflessione dell’autore sull’esistenza, ma ricorda la folla dei racconti evangelici che chiedeva i miracoli al Cristo che risuscitava i morti. L’incontro con la prostituta è presente anche negli Evangeli, così come l’annuncio profetico della propria morte fatto dal Cristo e dal corvo parlante in Uccellacci e uccellini.

 

 

 

 

Se l’ultima cena è anticipazione della passione e della morte di Cristo negli Evangeli, nel film è subìta dal corvo che viene mangiato: coincidono con la cena, la passione, la morte in termini religiosi, psicologici e anche antropologici (la ripresa del pasto totemico di S. Freud in “Totem e tabù”…). Anche nei film Accattone e Mamma Roma troviamo evocato lo stesso percorso evangelico (Angelo – passione – Ultima cena – morte). I tre enigmatici protagonisti ricordano le tre persone della trinità: Padre, Figlio e Spirito santo (quest’ultimo rappresentato da una bianca colomba, normalmente). Ma dopo la morte, secondo l’ateismo marxista è assente la vita e quindi il corvo è, a un tempo, la goffa e tetra immagine dell’angelo decaduto, il cui nero colore è inquietante e contrasta con la sua dolcezza, con la sua fragilità ma soprattutto con la sua arguzia. Il corvo richiama lo scarafaggio di kafkiana memoria; evoca funesti presagi che, dalla sua comparsa, riconducono direttamente il pensiero alla morte: non a caso il corvo si introduce nel discorso quando il padre e il figlio (simbolo della vita che continua nelle generazioni) riflettono sulla morte.
Un’altra serie di riferimenti, sia stilistici sia contenutistici, va ai classici: sicuramente compaiono elementi tipici del teatro dell’assurdo (S. Beckett, Aspettando Godot) e anche riferimenti a M. Cervantes (don Chisciotte della Mancia). Ma fondamentale è la ripresa di uno stile caro a Esopo, a Fedro e poi a La Fontaine, che mettevano sulla bocca degli animali, talora proprio a un corvo, le parole suggerite agli uomini dalle menti di questi ultimi, spesso più feroci di quelle degli animali stessi. In questo caso, il corvo è più innocente degli innocenti, anzi è vittima innocente di essi.

 

 

L’uomo sembra subordinato alla bestia ma, alla fine, solo comportandosi da bestia, domina la bestia; al contrario dell’”uomo umano” incarnato da frate Ciccillo, la cui summa del pensiero è espressa in quel suo idealistico e filantropico “Cantico delle creature”, subito smentito dalla realtà (è Marx che si stacca da Feuerbach). B. Pascal diceva: “l’uomo non è né angelo né bestia; disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia” (Pensieri, 358). Il tema dell’albatro (o del gabbiano), le cui ali troppo grandi imprigionate nella tolda di una nave lo portano alla lenta morte e all’impossibilità di spiccare il volo, è notoriamente attribuito a  Baudelaire e a Coleridge: sono riferimenti presenti anche in  Accattone ma evidentemente sono racchiusi qui nel corvo di Uccellacci e uccellini.

 

Altro livello interpretativo è quello storico-politico: la storia del comunismo russo evocato dai riferimenti, anche musicali, all’Internazionale, a Karl Marx, al partito comunista italiano al quale Pasolini aderì, l’omaggio a Palmiro Togliatti, alla Cina di Mao e all’Enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII: sono soltanto alcune citazioni e cammei che esprimono, al di là dell’omaggio, l’autocritica pasoliniana, sulla propria figura inadeguata e non compresa di intellettuale di sinistra che si rivolge altrettanto criticamente al suo partito e alla Chiesa.

 

In essa Pasolini, pur criticamente, spera autocitandosi: il testo predicato da s. Francesco nella scena dell’invio missionario dei fraticelli Ciccillo e Ninetto, con riferimento al Cristo, è “Profezia”, una poesia rielaborata ma già pubblicata dallo scrittore[1]. Al ritorno dei frati da s. Francesco, Pasolini fa citare dal santo di Assisi lo stesso Marx, sfumandone il testo. In questa dissolvenza di testi troviamo le parole del papa! Già ne parlammo in queste pagine:

Lo spettatore non si accorge che Pasolini passa da Marx alle parole del papa Paolo VI, che è l’uomo dagli occhi azzurri di cui parla s. Francesco.  Il papa è citato da Pasolini letteralmente[2]: egli era appena tornato in missione di pace dall’ONU, ove pronunciò le parole ‘Mai più la guerra’[3].

 

 

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Fine. La prima parte dell’articolo è pubblicata su questo blog in data 28 maggio 2022

  • Note

[1] Riportiamo integralmente l’articolo del 2017, tratto dal sito MDF https://www.decrescitafelice.it/2017/04/profezia-una-poesia-di-pier-paolo-pasolini/ [19.05.2022] su questo componimento pasoliniano. “Profezia” conosciuta come Alì dagli occhi azzurriè una poesia di Pier Paolo Pasolini considerata una dei componimenti poetici e profetici tra i più importanti del nostro tempo.

Scritta, probabilmente, nel 1962 e pubblicata nel volume Poesia in forma di rosa l’opera è stata, per stessa ammissione del poeta, il frutto di una conversazione tra Pasolini e il suo amico Sartre. Testimonianza ne è la dedica che ne fa da introduzione: “A Jean Paul Sartre, che mi ha raccontato la storia di Alì dagli Occhi Azzurri”. Pasolini si trova a Parigi per far vedere il Vangelo, resta fortemente deluso, per non dire offeso, dalla reazione degli intellettuali francesi marxisti. Sartre lo consola e Pasolini dice: “Ho dedicato a lei, Sartre, una poesia, Alì dagli Occhi Azzurri, sulla base di un racconto che lei mi fece a Roma…”. E Sartre gli risponde: “Sono del suo avviso che l’atteggiamento (della sinistra) francese di fronte al Vangelo… è un atteggiamento ambiguo. Essa non ha integrato Cristo culturale. La sinistra lo ha messo da parte. Né si sa che fare dei fatti che concernono la cristologia. Hanno paura che il martirio del sottoproletariato possa essere interpretato in un modo o nell’altro nel martirio di Cristo”.

Poesia in forma di rosa esce nel 1964, ma nello stesso anno Pasolini pubblica ancora una seconda versione della Profezia e la mette nella importante raccolta di racconti, sceneggiature e progetti di film che va dal 1950 al 1965.

Al volume, pubblicato nel 1965, l’autore addirittura conferirà il titolo di Alì dagli occhi azzurri. Il titolo viene spiegato alla fine in una “Avvertenza” che descrive l’incontro con Ninetto in un cinema romano. Ninetto è un “messaggero” e parla dei Persiani.

I Persiani – dice – si ammassano alle frontiere. / Ma milioni e milioni di essi sono già pacificamente immigrati, / sono qui, al capolinea del 12, del 13, del 409 … Il loro capo si chiama: / Alì dagli Occhi Azzurri”.

Alì dagli Occhi Azzurri

uno dei tanti figli di figli,

scenderà da Algeri, su navi

a vela e a remi. Saranno

con lui migliaia di uomini

coi corpicini e gli occhi

di poveri cani dei padri

sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sè i bambini,

e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.

Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.

Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,

a milioni, vestiti di stracci

asiatici,e di camicie americane.

Subito i Calabresi diranno,

come da malandrini a malandrini:

” Ecco i vecchi fratelli,

coi figli e il pane e formaggio!”

Da Crotone o Palmi saliranno

a Napoli, e da lì a Barcellona,

a Salonicco e a Marsiglia,

nelle Città della Malavita.

Anime e angeli, topi e pidocchi,

col germe della Storia Antica

voleranno davanti alle willaye.

Essi sempre umili

essi sempre deboli

essi sempre timidi

essi sempre infimi

essi sempre colpevoli

 

[2] Paolo VI, Udienza generale di mercoledì 6 ottobre, in Insegnamenti di Paolo VI, 1965, v. 3, Tipografia poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1966, 548.

[3] La citazione dei mercanti al tempio di Gv 2, 15-16 v’è pure in Uccellacci e uccellini (1966), nel racconto di frate Ciccillo: parabola pasoliniana, mirabilmente interpretata da Totò, nella quale è rappresentato san Francesco, che fa un riferimento (ossimorico) alla Tesi su Feuerbach n. 11 di K. Marx: «I filosofi hanno […] interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo». Subito, senza soluzione di discontinuità, però il personaggio di san Francesco profetizza che «un uomo dagli occhi azzurri» verrà e dirà: «Sappiamo che la giustizia è progressiva […] progredisce la società, si sveglia la coscienza […] vengono alla luce le disuguaglianze […] fra classe e classe, fra nazione e nazione […] minaccia […] alla rottura della pace». Chi è costui? Nulla a che fare con  l’Alì, già nominato nel titolo di “Profezia”.

 

Uccellacci e uccellini che mangiano semi filosofici e cristiani

 

Scritto da Dario Coppola.

 

Centenario pasoliniano (parte I)

 

Il film “Uccellacci e uccellini” è sostanzialmente una riflessione filosofica sul tragico senso dell’esistenza, sotto forma di una favola.

Vari sono i risvolti formali dell’opera, che si possono notare uniti nel linguaggio filmico del neorealismo di impronta manieristica (si parla di manierismo pasoliniano): ad esempio, gli sguardi estatici dei personaggi, il tema della leggenda che si fonde con la realtà in una sublimazione tuttavia ironica, gli stessi personaggi che interpretano le scene come se entrassero, uscissero o si trasferissero all’interno di quadri o affreschi, i dettagli architettonici, la ricercatezza dei costumi (soprattutto quelli medioevali) e delle inquadrature di paesaggi, le citazioni classiche: letterarie e religiose (Cantico delle creature ed Evangeli), filosofiche (Pascal e il rapporto fede-scienza), pittoriche e musicali.

 

 

Sono altrettanto complessi i contenuti del film. Fra i molteplici livelli, il più evidente è quello di una storia comica che collega, in modo solo apparentemente chiaro e semplice, le argomentazioni filosofiche: tre protagonisti (un padre, un figlio, un uccello) camminano e parlano, finché i due uomini mangeranno il corvo parlante. Ma, come in ogni favola, oltre la semplicità ingannevole della trama, ecco emergere dall’irrealtà e dagli elementi surreali tutti gli altri significati dell’opera, talora esplicitati proprio dal terzo protagonista, il corvo, il più simbolico, l’alter ego del regista stesso: secondo la sceneggiatura, esso è un intellettuale di sinistra, figlio del “signor Dubbio” (P. Ricoeur collocava, fra i maestri della Scuola del sospetto, e quindi del dubbio, Karl Marx) e della ”signora Coscienza” La coscienza di cosa? Certamente la coscienza di classe! Il tema della coscienza, dopo Hegel, trova ancor più sviluppo lungo l’Ottocento. Ma il corvo viene da lontano, dalla Città del futuro (ossimoro?), e abita in via Karl Marx, al numero settanta-volte-sette (Matteo 18, 21-35).

A questo punto, ci pare più chiaro il titolo dell’opera: gli uccellacci sono i borghesi e gli uccellini sono i proletari. Fra queste due classi, la cui coscienza genera gli intellettuali (e quindi la nascita del partito comunista e della sua vocazione internazionale) non ci sarà mai pace, anzi non ci sarà mai “Amore”. Ma ci sarà, solo e sempre, una lotta: la lotta di classe.

 

 

Anche dopo che la cristianità avrà cercato la possibile conversione dei singoli, le due classi non potranno mai comunicare fra loro perché si esprimono con linguaggi antitetici: i falchetti stridono e i passerotti saltellano. Vani sono i tentativi della Chiesa, rappresentata da san Francesco, alter Christus, di riportare la pace sulla terra in questa lotta continua. Ma l’uccello più emblematico è il corvo-filosofo: egli è vate e il suo dire profetico non è compreso dalla massa ignorante, è disprezzato dalla piccola borghesia che di lui si beffa perché non lo capisce; padre e figlio, Totò e Ninetto, non amano sentir parlare quel profeta di sciagura, la cui origine è l’”ideologia” stessa. Essi sono i figli dell’apparente semplicità, della selvaggia innocenza, della più cinica ignoranza, che li spingerà in una lotta per la sopravvivenza, li collocherà in una catena infinita ove chi è sottomesso tende a sottomettere. I due protagonisti non rispettano i diritti altrui, “criticano” la proprietà privata ma solo per i propri bisogni corporali, tipicamente legati alla loro animalità (homo homini lupus). Ma Totò e Ninetto non comprendono gli insegnamenti del corpo e vengono, a loro volta, oppressi dalla classe dominante, della quale non comprendono usi, costumi, ossia quel linguaggio, dal quale sono solo stupidamente affascinati.

 

 

Se ci addentriamo nei meandri degli altri significati dell’opera, troviamo soltanto accennati i temi del controllo delle nascite e della contraccezione (l’antifecondativo…), dell’immigrazione e della sussistenza degli immigrati (la vendita del “callifugo”…), del progresso e della tecnologia (lo sbarco sulla luna…), della crisi della cultura e della letteratura (il congresso dei dentisti-dantisti…), della questione della lingua, alla quale il letterato Pasolini dedica molte opere e dibattiti (uso degli idiomi e dei vari dialetti popolari, contrapposto all’italiano colto), della superstizione (gli ex voto). E ancora: la guerra, la proprietà privata, la libertà, la partecipazione (tutti temi presenti nelle encicliche sociali: dalla Rerum Novarum fino alla Pacem in terris).

 

 

Un altro strato di simboli caratterizza il film: il cammino è “eterno”. Il film inizia quando i due protagonisti principali, padre e figlio, già camminano e finisce quando ancora camminano; il viaggio è già finito, perciò lo scopo del cammino, che è l’esistenza, la vita, non trova soddisfazione. Il viaggio è un’alienazione, che permette, ingannando, una fuga perché l’esistenza è talmente tragica da perdere il suo senso. Sulla strada della vita, subito i protagonisti incontrano infatti la morte e fra loro ne parlano senza accettarla. Ma ecco arrivare subito chi può capirla, il corvo, perché, da buon profeta, sa che troverà la morte proprio grazie ai due suoi compagni di viaggio, quel viaggio già finito appena il cammino è iniziato. I vari autobus perduti rappresentano i ritardi, i fallimenti, l’impossibilità di realizzare il viaggio dell’esistenza e quindi di comprenderne il senso. La luna è l’unica speranza, perché lontana e irraggiungibile, anche se in quegli anni la si è raggiunta.

 

 

Il discorso della luna  di Giovanni XXIII era stato pronunciato circa quattro anni prima del film. L’ambientazione del film è proprio lunare, ma quasi conquistata dall’uomo. L’uomo si crede di nuovo al centro dell’universo? La luna rappresenta perciò forse l’alienazione, intesa come fuga dalla realtà, verso l’assurdo, come già esprimeva un pioniere della storia del cinema qual è G. Méliès (Viaggio sulla luna, 1902) ma ancor prima  Ariosto (Astolfo sulla luna). Anche la prostituta si chiama Luna: è il rifugio nei piaceri della vita per Totò e Ninetto che, fuggendo la dura realtà, sciupano il danaro sufficiente solo ai propri piccoli piaceri e ai propri piccoli dolori, indebitandosi. Due aeroplani decollano, quando i protagonisti incontrano la luna: simboli fallici, ma anche allegoria di questa fuga facile dal mondo degli oppressi e degli sfruttati. Il cammino ha avuto inizio sull’autostrada in costruzione nella periferia romana…

 

 

L’invito alla fuga è anche espresso dai surreali cartelli stradali che indicano città simboliche molto distanti… (Istanbul, anzi “Istambul” e Cuba) inoltre i cartelli che indicano le vie del quartiere periferico di Roma ricordano uomini semplici, sconosciuti con nomi simbolici. I guitti interpretano uno spettacolo sull’antica Roma che ha rovinato il mondo.

 

  • 1 (Continua)

Così stava la madre

Scritto da MARIA NISII.

 

Settemila chilometri…

Non puoi sentire la madre chiamare,

nel fischio tremendo del vento polare,

nella stretta delle intemperie,

inselvatichisci, inferocisci: tu, adorato,

tu, ultimo e primo, tu, nostro.

Indifferente la primavera vaga

Sulla mia tomba di leningradese.

 

Chi usa la parola per raccontare, talvolta paga un prezzo altissimo, nella delegittimazione, nell’isolamento e in quello che devono pagare i loro cari. La poetessa russa Anna Achmatova (1889-1966), vissuta nel periodo della rivoluzione bolscevica, è ritenuta dal regime una dissidente, ovvero uno scarto della società del passato che si intende modificare. Il suo ex marito, a sua volta poeta, viene fucilato. A differenza di altri, Achmatova, come Pasternak, sceglie però di restare nella sua terra:

 

una voce mi giunse. Suadente

mi chiamava, diceva:

Vieni qua,

lascia il paese sordo e peccatore,

lascia la Russia per sempre…

Io mi tappai le orecchie con le mani,

perché l’indegno discorso,

non profanasse l’anima dolente.

 

A quel tempo Achmatova era già una poetessa di fama, specie in Francia, e pertanto era difficile toccarla senza dare un’immagine repressiva della Russia sovietica. Per questa ragione quello che fanno è colpirla negli affetti e nel 1938 arrestano Lev, figlio del primo marito. Lei vorrebbe patteggiare la propria vita per lui, ma non le viene concesso.

In quel periodo assieme alle altre madri, Anna si sottopone ogni giorno a lunghe ed estenuanti ore di attesa, in fila nella neve, portando con sé viveri e vestiti al carcere di Leningrado. Ma quel tempo di attesa possiede una promessa, che il pacco sia accettato: un segno questo che il prigioniero è vivo. In caso contrario, purtroppo, era certamente deceduto.

«Ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro me e che, sicuramente non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di tutti noi e mi domandò in un orecchio (lì parlavano sussurrando): “Ma questo lei può descriverlo?”. E io dissi: “Posso”. Allora una specie di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto».

Per le donne che stavano in fila con lei con i pacchi da consegnare, Anna scriverà in Requiem:

 

Per loro ho tessuto un ampio manto

Di parole povere ch’esse non ascolteranno.

 

Il manto di parole vorrebbe proteggerle, per quanto a quelle donne non giungeranno mai. La promessa di serbare il ricordo di quei momenti è tutto quanto premeva loro. Ed è proprio quella richiesta di scrivere a diventare l’occasione di Requiem.

Poteva Beatrice creare come Dante,

o Laura cantare il fuoco dell’amore?

Io ho insegnato alle donne a parlare

Mio Dio, ma come obbligarle a tacere?

 

Madonna della Misericordia

 

La parola poetica è per Anna Achmatova luogo di salvezza, di forza e possibilità di resistenza – espresso nella bella immagine dell’ampio manto, che rimanda alle Madonne delle icone sacre. E anche se non può pubblicare, i suoi versi si diffondono attraverso copie manoscritte. Lidija Cukovskaja, sua intima amica, ricorda come Anna fosse rigidamente sorvegliata dal regime attraverso cimici nascoste nel suo appartamento e nelle case dei suoi familiari. In un libro di memorie intitolato Incontri con Anna Achmatova, racconta come l’Achmatova scriveva quelle poesie, nella sua casa sulla Fontanka, uno dei canali di San Pietroburgo, poco distante dalla prospettiva Nevskij: « Anna Andreevna, quando veniva a trovarmi, mi leggeva versi di Requiem in un sussurro, ma a casa sua, alla casa sulla Fontanka, non si risolveva neppure a sussurrare; d’un tratto, nel bel mezzo del discorso, si interrompeva e, indicandomi con gli occhi il soffitto e le pareti, prendeva un pezzetto di carta e una matita; poi diceva ad alta voce qualcosa di molto frivolo: «Volete del tè?», oppure: «Come siete abbronzata!», scriveva velocemente fino a riempire il foglietto e me lo porgeva. Io leggevo i versi e, quando li avevo impressi nella memoria, glieli restituivo in silenzio. «L’autunno è venuto così presto» diceva Anna Andreevna ad alta voce e, acceso un fiammifero, bruciava il foglietto in un posacenere. Era un rito: le mani, il fiammifero, il posacenere – un rito splendido e doloroso».

Un giorno arriva la sentenza della condanna a morte del figlio di Anna che, sebbene sarà poi convertita in condanna ai lavori forzati (fino al 1943), lascia una traccia ne La sentenza, una delle liriche di Requiem.

E sul mio petto ancora vivo

Piombò la parola di pietra.

Non fa nulla, vi ero pronta,

in qualche modo ne verrò a capo.

Oggi ho da fare molte cose:

occorre sino in fonde uccidere la memoria,

occorre che l’anima impietrisca,

occorre di nuovo imparare a vivere,

 se no… Oltre la finestra

l’ardente fremito dell’estate, come una festa.

Da tempo lo presentivo:

un giorno radioso e la casa deserta.

Il dolore impietrisce: come riapprendere a vivere? La festa è in attesa oltre la finestra: ma quale festa?

 

Bartolomeo Ferrari da Canova, Pietà, 1830

 

Una delle ragioni che la rendono indesiderata al regime è la sua religiosità. Troviamo quest’anima di Achmatova proprio in Requiem, laddove la poetessa si identifica con Maria sotto la croce, sente il suo dolore di madre simile a quello della madre di Dio:

 

10.La crocifissione

Non singhiozzare per Me, Madre, che giaccio nella bara.

Salutò l’ora suprema un coro d’angeli,

e i cieli si dissolsero nel fuoco.

Disse al padre: “Perché Mi hai abbandonato…?”.

E alla Madre: “Oh, non piangere per Me…”.

 

Identificandosi con Maria, Anna assume su di sé il dolore del suo popolo, lo canta e lo trasforma in preghiera. La sua è una religiosità popolare, non raffinata, in contrasto con le “ricerche” religiose dell’epoca.

 

Nathan Altman, Anna Achmatova (1915)

 

Boris Pasternak, a sua volta perseguitato dal regime staliniano che lo costringe a non ritirare il Nobel per la letteratura, scrive una lettera all’amica Anna per starle accanto in quel suo dolore:

Come ricordarle a sufficienza che vivere e voler vivere (non secondo precetti altrui, ma solo secondo un’intima sua aspirazione) è suo dovere di fronte ai vivi, in quanto le idee sulla vita si distruggono con facilità e di rado vengono sostenute da qualcuno, mentre lei rimane la loro principale creatrice” (1 novembre 1940).

Ma Achmatova sembra non aver bisogno di consolazione:

 

Lunghi anni dammi di male,

affanno, insonnia e malaria,

prendi anche il figlio e l’amico

e il segreto dono del canto – …

Perché la nube sulla Russia oscura

Diventi un nembo di raggi di gloria.

 

La sua poesia è preghiera e offerta sacrificale, non ripetibile da altri (prendi anche il figlio). Anna concepisce la sua vita come servizio reso al popolo. Pertanto la sua voce è personale e insieme corale, e la sua biografia universale:

Io ero allora col mio popolo,

là dove, per sventura, il mio popolo era.

E la sua vita è tale nella storia di un popolo. Una storia che in lei traspare in una prospettiva religiosa, anche se questa coscienza non elimina il dolore. Questa prospettiva però rende la storia grandiosa, una festa, persino nei momenti più tragici:

Tutto è stato rubato venduto tradito,

infuria l’ala della morte nera,

tutto è roso dall’affamata angoscia,

perché mai per noi si è fatta luce?

E così vicino passa il miracolo…

È in questo mondo che la rinascita è possibile, una rinascita che sgorga dalla stessa poesia. Perché la poesia “può” raccontare “tutto questo” – secondo la richiesta di quella donna anonima davanti alle carceri di Leningrado. E la parola che racconta si fa memoria, come la storia sacra.

 

Stabat Mater, Porto Alegre (Brasile), XIX sec.

 

Oltre al figlio, Requiem (scritto tra il 1935 e il 1940) è dedicato alle vittime del terrore degli anni 1937-38. Per oltre vent’anni, il testo non ha avuto una versione scritta, ma è stato preservato solo nella memoria della poetessa e di alcuni amici fidati. Non appena fu possibile trascriverlo, si diffonde immediatamente in tutto il Paese, diventando una delle opere poetiche più famose del sasmizdat (ovvero “edito in proprio”), l’editoria clandestina degli anni ’60, per essere pubblicato ufficialmente solo negli anni Ottanta. Natal’jaGorbanevskaja racconta così l’esperienza del samizdat: “In una stupenda giornata di dicembre del 1962 fui partecipe di un avvenimento che ritengo straordinariamente importante: mentre ero in visita da Anna Achmatova, in uno degli appartamenti di Mosca dove veniva ospitata, io, come molti altri a quei tempi, ebbi il permesso di trascrivere il suo Requiem… Per molti anni lo si poté ascoltare solo in una scelta cerchia di amici dell’autrice, che per la maggior parte imparavano i versi a memoria. Né la stessa Achmatova, né il suo numeroso pubblico affidò mai Requiem alla carta. Ma … nel 1962… l’Achmatova pensò che forse era giunto il momento …che Requiem uscisse nel samizdat. Porgendomi una penna a sfera, Anna Andreevna disse: – Prima di lei con questa matitina ha copiato Requiem Solzenicyn. Ma oltre a me e a Solzenicyn, a casa dell’Achmatova, con quella ‘matitina’, Requiem era stato copiato da decine di persone. E naturalmente tutti, o quasi tutti, tornando a casa, si erano messi alla macchina da scrivere. Io stessa l’ho ricopiato, probabilmente una ventina di volte, ogni volta in quattro copie. Diffondendo Requiem tra gli amici e i conoscenti, facevo sempre una semplice richiesta: – Ricopiatelo, e poi restituitemene una copia –. E così ricominciava il giro. In questo modo, solo dalle mie mani, uscirono e si diffusero centinaia di copie di Requiem, ma la sua tiratura complessiva nel samizdat raggiunse almeno qualche migliaia di copie”.

 

Si tratta di una composizione in dieci parti vicina alla struttura dello Stabat Mater, il pianto della madre di Dio presso la croce (preghiera del XIII sec. attribuita a Jacopone da Todi). Le prime sei poesie e la nona non hanno titolo, mentre la settima è intitolata La condanna, l’ottava Alla morte e la decima La crocifissione.

Ti hanno portato via all’alba,
Io ti venivo dietro, come a un funerale,
Nella stanza buia i bambini piangevano,
Sull’altarino il cero sgocciolava.
Sulle tue labbra il freddo dell’icona.
Il sudore mortale sulla fronte… Non si scorda!

La madre segue il figlio portato via (così immagina nei giorni della sentenza), un figlio già trasfigurato in immagine iconica. Il figlio non le perdonerà di aver raccontato la sua morte, perché prima ancora non le ha mai perdonato di averlo lasciato alla nonna nei primi anni di vita, anche se era per salvarlo. Il dolore di Anna è però sovrapersonale, tutto suo in quanto tutto di un popolo che piange i suoi figli. Allora come oggi.

 

No, non sono io, è qualcun altro che soffre.
Io non potrei esser così, ma quel che è successo
Neri drappi lo ricoprano
,
E portino via le lanterne…
Notte.

https://www.youtube.com/watch?v=oFbnC_2OOJE

Mi gettavo ai piedi del boia,
Figlio mio e mio terrore.
Tutto s’è confuso per sempre,
E non riesco a capire
Ora chi sia belva e chi uomo,
E se a lungo attenderò l’esecuzione.

 

https://www.youtube.com/watch?v=CVwne4YEN7A

 

Quel che è stato non capisco.
Come ti guardavano, figlio,
Le notti bianche, in carcere,
Com’esse di nuovo guardano
Con occhio ardente di sparviero,
E della tua alta croce
E della morte parlano.

 

https://www.youtube.com/watch?v=yfgWCMPT3FI

 

E nulla essa mi consente
Di portare via con me
(Per quanto la si implori
E la si annoi con le preghiere):

Né gli occhi spaventosi di mio figlio –
Pietrificata sofferenza -,
Né il giorno in cui venne la bufera,
Né l’ora della visita in prigione,

Né il caro refrigerio delle mani,
Né le ombre agitate dei tigli,
Né un lieve suono di lontano –
Le parole dei conforti estremi.

 

https://www.youtube.com/watch?v=h1m4a0c6VUU

 

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  • Nell’immagine di copertina: Anna Achmatova

Madre de Mayo

 

 

Scritto da  LORENZO CUFFINI. 

Andiamo per un attimo  con la mente  alla  serie firmata da Paolo Sorrentino, The young Pope. A una delle sue scene più iconiche. Pio XIII, il papa dagli abiti  impeccabili e dal volto beffardo e impenetrabile interpretato da Jude Law,  scruta  a lungo, di spalle, la meraviglia della Pietà di Michelangelo per poi concludere , pensoso: Alla fine si torna sempre qui, alla Madre. E’ l’Osservatore Romano , in un articolo di questa settimana, a ricordare questa sequenza, commentando poi: “Estrapolando la frase dal contesto cinematografico, non possiamo non riconoscere  una certa dose di verità a questa affermazione. Il mondo cristiano fin dai primi secoli ha sempre avuto particolare affetto e devozione verso la Madre per eccellenza, la Madre Vergine. E sempre il popolo cristiano a lei torna, nei suoi momenti più difficili e tormentati”

 

 

E’ successo anche quest’anno,  mentre ci troviamo nel pieno  della crisi dovuta alla guerra in Europa. Papa Francesco , il 25 marzo, giorno della Annunciazione,  ha  voluto consacrare, richiamandosi a quanto richiesto a Fatima durante le apparizioni del 1917, Russia e Ucraina al Sacro Cuore di Maria. È il gesto “del pieno affidamento dei figli che, nella tribolazione di questa guerra crudele e insensata che minaccia il mondo, ricorrono alla Madre”. Come i bambini che “quando sono spaventati vanno dalla mamma a piangere, a cercare protezione”, così nel suo Cuore “limpido, incontaminato” gettiamo “paura e dolore, consegnando sé stessi a lei” . E ora che siamo in maggio, mese mariano per eccellenza, Bergoglio chiede con insistenza a tutti i fedeli, alle famiglie e alle comunità, la recita del rosario quotidiano per il ristabilimento della pace. Ancora una volta Maria vista come  la madre di tutti : potremmo dire la Madre de Mayo,  richiamando così alla mente altre madri segnate, altre madonne laiche, altre riscritture viventi della Vergine Maria nella storia , proprio in quella Argentina da cui proviene Francesco. Come in loro, come allora, anche in Ucraina oggi, , «Cristo è ancora una volta inchiodato alla croce nelle madri che piangono la morte ingiusta dei mariti e dei figli”.

Insomma: sotto il levarsi della tempesta, sembra riprendere vigore , nella sostanza e nelle forme, ‘ l’ affidamento mariano. Per quanto mi riguarda, quando sento parlare di  devozione a Maria, confesso che una parte della mia testa parte in automatico verso una ben nutrita sezione della mia memoria. Quella in cui si trovano archiviate  le feste religiose della mia infanzia, particolarmente quelle in campagna, con le processioni, le donne con i ceri e il velo ricamato, gli uomini con il cappello in mano e i vestiti della festa, la banda  fragorosa e intonata approssimativamente, la statua della Vergine che incedeva sulle teste dei presenti con quella particolare andatura ondeggiante. Colonna sonora immancabile di quei momenti, che erano un misto tra festa di paese, tradizione radicata, espressione di fede sincera e  manifestazione di una spiritualità  prossima a fare il suo tempo, erano alcuni canti mariani che  sono, poi, quelli mariani per eccellenza, quelli che tutti sapevano e molti ancora conoscono, quelli che venivano cantati a voce spiegata, e possenza vocale talora spaventosa, da indomite pie donne battagliere  per le vie del borgo. Con il loro linguaggio oggi desuetissimo, al punto da suonare parente di quello dei  libretti d’opera, ma già allora completamene diverso dal parlato naturale, questi brani erano saldamente ancorati alle due preghiere mariane della Ave Maria e della Salve Regina, ed alle litanie, di cui riprendevano, variando e infiorando liricamente qualche espressione, i concetti fondamentali.

Niente  meglio di quei canti esprime la devozione popolare a Maria. Si tratta di melodie molto semplici e di facile orecchiabilità, perfette per le generose esecuzioni bandistiche ritmate. Null’altro erano che preghiere in musica:  di lode, di supplica, di intercessione.

 MIRA IL TUO POPOLO 

Mira il tuo popolo, o bella Signora,

che pien di giubilo oggi t’onora.

Anch’io festevole corro a’ tuoi piè;

o Santa Vergine, prega per me!

Il pietosissimo tuo dolce cuore

Egli è rifugio al peccatore.

tesori e grazie racchiude in sé;

o Santa Vergine, prega per me!

In questa misera valle infelice

tutti t’invocano soccorritrice.

Questo bel titolo conviene a te;

o Santa Vergine, prega per me!

Del vasto oceano propizia stella

ti vedo splendere sempre più bella.

Al porto guidami per Tua mercé:

o Santa Vergine, prega per me!

Pietosa mostrati con l’alma mia,

Madre dei miseri, Santa Maria.

Madre più tenera di te non v’è;

o Santa Vergine, prega per me!

A me rivolgiti con dolce viso,

Regina amabile del paradiso;

te potentissima l’Eterno fè:

o Santa Vergine, prega per me!

Nel più terribile, estremo agone,

fammi tu vincere il rio dragone.

Propizio rendimi il sommo re:

o Santa Vergine, prega per me!

 

 

IMMACOLATA, VERGINE BELLA

Immacolata*, Vergine bella,

di nostra vita tu sei la stella,

fra le tempeste deh guida il cuore

di chi t’invoca Madre d’amore.

 Siam peccatori, ma figli tuoi,

Immacolata, prega per noi. (2v)

 2            Tu, che nel cielo siedi regina,

a noi pietosa lo sguardo china;

pel divin figlio, che stringi al petto,

deh, non privarci del tuo affetto.

3            La tua preghiera è onnipotente,

innanzi al trono di Dio clemente:

sotto il tuo scettro Iddio s’inchina,

deh, non sdegnarci, o gran Regina.

 4            La tua preghiera onnipotente,

o dolce mamma, tutta clemente.

A Gesù buono, deh! Tu ci guida

accogli il cuore, che in Te confida.

5            Tu che del cielo sei la Regina,

su noi tuoi figli lo sguardo inchina;

sei della Chiesa modello e guida,

sorreggi sempre chi in Te confida.

 

 

Come è evidente, i testi ci riportano per sommi punti  i caposaldi della devozione mariana. Così, alla rinfusa: la bella Signora ci richiama alla mente la “bella signora” con cui Bernadette indicava l’apparizione  di Massabielle,  il pietosissimo tuo dolce cuore, egli è rifugio al peccatore riprende il refugium peccatorum delle litanie, la misera valle infelice è  un altro modo per dire la valle di lagrime della Salve regina, la propizia stella  riscrive entrambi i titoli di Stella del Mare e Stella del Mattino, Regina del paradiso indica la   Regina dei santi e dei martiri, e propizio rendimi il sommo re e’ un modo per dire Avvocata nostra.

La scansione ripetuta: prega per me! prega per noi! ricalca da vicino lo schema delle litanie mariane.

Interessante notare che, con il passar del tempo, e con l’avvento e il passaggio del Concilio,  alla semplice preghiera musicata, nel canto mariano si aggiunge qualcos’altro, e i testi diventano – cosa che a noi qui riguarda particolarmente – vere e proprie riscritture. Nei due esempi che seguono, il ritornello resta quello classicissimo dell ‘Ave Maria, ma ecco che le strofe parlano, e non solo pregano. Raccontano, riempiono i non detti, meditano sul mistero, evocano sensazioni e cercano di esprimere l’ineffabile. E’ la narrazione della riscrittura che precede e si mescola alla preghiera e all’affidamento.

 

GIOVANE DONNA

Giovane donna, attesa dell’umanità, un desiderio d’amore e pura libertà. Il Dio lontano è qui vicino a Te, voce silenzio, annuncio di verità.

Rit. Ave Maria, Ave Maria!

Dio t’ha prescelta qual madre piena di bellezza, ed il suo amore t’avvolgerà con la suo ombra. Grembo di Dio, venuto sulla terra, Tu sarai madre, di un uomo nuovo.

 Ecco l’ancella, che vive della sua Parola, libero il cuore perché l’amore trovi casa. Ora l’attesa è densa di preghiera e l’uomo nuovo è qui in mezzo a noi.

 

 

MADRE IO VORREI

 Io vorrei tanto parlare con te di quel Figlio che amavi
Io vorrei tanto ascoltare da te quello che pensavi
Quando hai udito che tu non saresti più stata tua
E questo Figlio che non aspettavi non era per te

Ave Maria
Ave Maria
Ave Maria
Ave Maria

Io vorrei tanto sapere da te se quand’era bambino
Tu gli hai spiegato che cosa sarebbe successo di Lui
E quante volte anche tu di nascosto piangevi, Madre
Quando sentivi che presto l’avrebbero ucciso per noi

Ave Maria
Ave Maria
Ave Maria
Ave Maria

Io ti ringrazio per questo silenzio che resta tra noi
Io benedico il coraggio di vivere sola con Lui
Ora capisco che fin da quei giorni pensavi a noi
Per ogni figlio dell’uomo che muore ti prego così

Ave Maria
Ave Maria
Ave Maria
Ave Maria

Ave Maria

 

 

Morale. Dice il celebre detto di Agostino: chi canta, prega due volte. C’è da domandarsi con un sorriso: chi, cantando, riscrive, quante volte prega?

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