La letteratura ci salverà dall’estinzione

 

Scritto da  MARIA NISII.

 

Chi li ha resi cocciuti e incorreggibili? Chi gli ha offuscato la vista, sigillato gli occhi e aperto i cuori alla superstizione a tal punto che ora abbisognano di truffaldini per riconoscere i Tuoi lampi? E di imbonitori per udire i primi gabbiani volare in fuga dalla Tua tempesta? E di empietà per spaventarli nel profondo del loro cuore? (GüntherAnders, Il futuro rimpianto)

Se nonostante le voci che si levano da tutti i fronti non siamo stati ancora capaci di reagire alla minaccia climatica e alla possibile catastrofe della specie, è perché – secondo Carla Benedetti, saggista e docente di letteratura italiana – non sappiamo farci «acrobati del tempo». Si tratta di un’espressione coniata da GüntherAnders nel 1989, con la quale il filosofo tedesco intendeva parlare dello sforzo «di mettersi nei panni di chi si troverà, in un futuro assai prossimo, a vivere su un pianeta dal clima sconvolto». Assumendo la metafora di Anders, l’autrice intende sostenere che l’umanità è oggi carente di immaginazione ed empatia.

Oltre naturalmente al mondo della scienza, la letteratura e il cinema sono state tra le «voci» levatesi per annunciare il disastro, voci che al pari delle altre non hanno ottenuto risultati migliori in termini di spinta al cambiamento. Movimentatisi nei più noti generi della fantascienza apocalittica e post-apocalittica, letteratura e cinema hanno fatto leva sulla paura, in genere fonte di paralisi più che molla all’azione. Ma attribuire alla narrativa un potere mobilitativo potrebbe stupire coloro che ne stimano la sola funzione rappresentativa e che nella migliore delle ipotesi vi attendono un contributo in termini di conoscenza e non certo di stimolo riformista.

 

13 Allora Dio disse a Noè: «È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra. 14 Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori. 15 Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza. 16 Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore.17 Ecco io manderò il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne, in cui è alito di vita; quanto è sulla terra perirà. 18 Ma con te io stabilisco la mia alleanza. Entrerai nell’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. 19 Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell’arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te: siano maschio e femmina. 20 Degli uccelli secondo la loro specie, del bestiame secondo la propria specie e di tutti i rettili della terra secondo la loro specie, due d’ognuna verranno con te, per essere conservati in vita. 21 Quanto a te, prenditi ogni sorta di cibo da mangiare e raccoglilo presso di te: sarà di nutrimento per te e per loro». 22 Noè eseguì tutto; come Dio gli aveva comandato, così egli fece.(Genesi 6)

 

Per mostrarne l’efficacia, Benedetti richiama l’episodio genesiaco dell’annuncio divino del diluvio. In questo brano si suppone che Noè abbia avuto a disposizione un lasso di tempo sufficientemente ampio da consentirgli di vedere crescere i cedri necessari alla costruzione dell’arca, un tempo tanto lungo però anche per riflettere sulla sorte dell’umanità che non sarebbe scampata, come lui, al disastro. Come spesso capita, la laconicità del testo biblico ha indotto i commentari rabbinici a integrarlo in vari modi, chiedendosi in particolare se Noè non avesse impiegato una parte di quel tempo anche per avvertire i suoi contemporanei e tentare di salvarli. Da questa domanda sarebbe partito anche Anders nel suo racconto Il futuro rimpianto (1961), ove troviamo un Noè che si spende in ogni modo per invocare un cambiamento nell’umanità malvagia.

“Cento volte”, disse adirato, “ho dato prova della mia pazienza. I miei piedi sono gonfi, ho la gola rossa dal tanto che ho gridato, ho trascurato i miei affari e sono diventato estraneo agli occhi del mio primogenito. Ma non ho badato alle mie ferite e mi sono sottratto ai biasimi di mio figlio. Non sono riuscito a rassegnarmi ai morti di domani e sono andato ogni giorno a caccia dei ciechi per aprire loro gli occhi e a caccia dei sordi per urlare nelle loro orecchie tappate, al fine di convincerli che il diluvio non è mio bensì Tuo, e che adesso dovranno fare qualcosa da soli con le loro mani. Ho preso le tue difese dicendo loro che anche Tu nella Tua magnanimità desideri vederli salvati, ma adesso siamo giunti alla vigilia della catastrofe. Li ho fermati per strada come un mendicante, mi sono aggrappato alle loro vesti come un malfattore, gli sono corso dietro quando si svincolavano, non ho avuto timore della loro rabbia e non mi sono affatto curato di venir dileggiato come un uomo ridicolo.”

Nonostante i vari tentativi, le sue parole restano inascoltate al pari dei tanti profeti del passato. Decide quindi di tentare un’ultima carta, giocando sulla sorpresa: si finge in lutto e gira per le strade con gli abiti stracciati e il capo cosparso di cenere. Una tale messinscena incuriosisce i passanti, ai quali spiega che sta piangendo i morti di domani per poi raccontare loro la catastrofe imminente come qualcosa di già successo perché chi l’ascolta possa viverla come propria.

 

Michelangelo, volta Cappella Sistina

 

Dopodomani il diluvio sarà ciò che è stato. E voi sapete cosa significa […] Ecco cosa significa. Che dopodomani il diluvio sarà ciò che è stato, allora tutto questo, ovvero tutto ciò che c’era prima del diluvio, sarà ciò che non è mai stato.

[…] se il diluvio arriverà domani, allora sarà troppo tardi per ricordare e troppo tardi per portare il lutto. Perché non ci sarà più nessuno che potrà ricordarsi di noi e nessuno che potrà portare il lutto per noi. […] perché le acque inghiottiranno i lamenti funebri assieme ai morti, chi avrebbe dovuto impartire la benedizione assieme a coloro che dovevano essere benedetti, le generazioni future assieme ai posteri, e perché noi tutti saremo defraudati del nostro Kaddish.

Il meccanismo del racconto si mostrerà vincente, in quanto immaginare un futuro senza posterità svuota di senso il presente. Il racconto rende infatti il dolore futuro come qualcosa di percepibile già nell’oggi, suscitando la reazione desiderata: «Chi costruirebbe cattedrali, faticherebbe a bonificare le terre, si sforzerebbe di carpire nuovi segreti all’universo, se pensasse che dopo di lui non ci sarà più nessuno a trarne beneficio o a rendergliene merito?» (p. 40). Tuttavia non basta perdere l’illusione della posterità come mero dato conoscitivo; per mettere in moto l’azione occorre che di questa perdita si faccia esperienza. Una narrazione profetica in grado di trasformare i suoi ascoltatori in «acrobati del tempo» grazie alle strategie dell’immedesimazione, si rivela pertanto più efficace di una narrazione apocalittica della fine incapace di far attraversare la paura. È mettendo a confronto due generi biblici, profetico e apocalittico, che l’autrice spiega come la letteratura possa «salvare l’umanità dall’estinzione», offrendo una prospettiva per superare l’attuale impasse.

Leggere riattiva l’immaginazione, ci rende acrobati del tempo. Poi chiudiamo il libro e decidiamo come prendere parte alla custodia del Creato.

 

https://www.youtube.com/watch?v=9ht4xI18KtQ

 

Cavalli e cavalieri

 

 

Scritto da   NORMA ALESSIO.

 

Quando sentiamo nominare “I cavalieri dell’Apocalisse”, l’immagine che evoca in noi è quella di quattro cavalieri che seminano morte e distruzione attorno a loro. Alcune opere, decisamente “apocalittiche” e fortemente simboliche, mostrano le inquietudini dell’età contemporanea, rendendo visibili simultaneamente gli otto versetti del sesto capitolo dell’Apocalisse, ma nella descrizione drammatica si basano probabilmente sull’ultimo: “Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra” (6,8).

Infatti così gli artisti moderni li hanno raffigurati, come nel disegno di Salvador Dalì del 1970, dal titolo “Il cavaliere dell’Apocalisse”, in cui  si esprime con drammatico surrealismo, attraverso il segno, i colori forti e l’aggiunta dell’atmosfera che ritroviamo in un frammento della Scrittura sul tempo dell’apparizione dei quattro cavalieri dell’Apocalisse: “… vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come un sacco di crine, la luna diventò tutta simile a sangue” (6,12), stravolgendo il senso dato dalla scrittura che invece è pieno di speranza.

 

 

Lo stesso soggetto lo ritroviamo in altri ambiti dell’arte,come quello cinematografico, con il film di Vincente Minnelli, remake del film omonimo di Rex Ingram del 1921, tratto dal romanzo di Vicente Blasco Ibáñez. Qui si racconta che alla fine degli anni ’30, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Julio Madariaga, un anziano argentino, muore tra le braccia del nipote, Julio Desnoyers, profetizzando la venuta dei quattro dell’Apocalisse intesi simbolicamente con la peste, la guerra, la fame e la morte ( questo è il significato più frequentemente assegnato a ognuno di quattro cavalieri, segni che caratterizzano l’umanità).

 

 

 

Anche gli autori di videogiochi si sono cimentati su questo tema utilizzando esaltanti effetti grafici per il gioco dal titolo Darksiders. Analizzando la Sacra Scrittura nel sesto capitolo dell’Apocalisse con l’espressione “vengono”, appaiono, a seguito di una chiamata, uno alla volta dopo l’apertura dei primi quattro sigilli, altrettanti cavalieri che cavalcano cavalli di colore diverso e con differenti attributi: un arco, una spada, una bilancia e l’«inferno», a cui sono state date nel tempo dagli esegeti le interpretazioni.“Ed ecco, mi apparve un cavallo bianco e colui che lo cavalcava aveva un arco, gli fu data una corona e poi egli uscì vittorioso, per vincere ancora” (6,2). “Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada(6,4). “… E vidi: ecco, un cavallo nero. Colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano. E udii come una voce in mezzo ai quattro esseri viventi, che diceva: «Una misura di grano per un denaro, e tre misure d’orzo per un denaro! Olio e vino non siano toccati” (6,5-6). “E vidi: ecco, un cavallo verde. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli inferi lo seguivano. Fu dato loro potere sopra un quarto della terra, per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra” (6,8).

 

 

Inizialmente il tema era legato alla rappresentazione dell’intero ciclo dell’Apocalisse che si diffuse in tutta Europa dal Medioevo, divenendo raro dopo il XVI secolo. Da esso ne derivò la figura autonoma del quarto cavaliere come il “Trionfo della morte” (vedi post del 3 novembre 2017: https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/il-trionfo-della-morte) in cui la morte, simboleggiata solitamente con uno scheletro, avanza con una falce, talvolta seguita dal simbolo dell’Inferno. Nelle raffigurazioni più antiche, tra XI e XIV secolo, i quattro cavalieri erano rappresentati generalmente separati, come vediamo ad esempio nelle miniature illustrate da Facundus, conservate alla Biblioteca Nazionale di Madrid, per una versione del codice dell’XI secolo al Commento all’Apocalisse, scritto nell’VIII dal Beato di Lièbana.

 

 

Ancora distinti sono nell’affresco del XIII secolo, nell’abside centrale della cripta di San Magno della Cattedrale di Anagni: il primo cavaliere, l’unico con l’aureola, è su un cavallo di colore bianco e sta per scoccare una freccia in direzione del secondo cavaliere, che fuggendo si volta atterrito, vestito in origine di colore rosso, come ancora si intravvede nelle poche tracce rimaste;  il terzo cavaliere nudo, scuro e alato, con la bilancia in mano, insegue il quarto cavallo dal colore verdastro.

 

 

Non rimane quasi nulla della tradizione apocalittica nel dipinto di Carlo Carrà del 1908, conservato all’Art Institute of Chicago, che risale al suo periodo futurista. Rappresenta – attraverso i colori dati ai cavalli difficilmente distinguibili- il dinamismo del movimento: i cavalieri visibili sono tre, due dei quali figure femminili che anziché cavalcare con determinazione, sembrano piuttosto trascinate nella corsa dei loro cavalli. Il quarto cavaliere monta un cavallo bianco e non verde, è rappresentato con una figura di donna nuda che non porta nessun attributo che la indichi come portatrice di distruzione. La morte è il quarto cavaliere, che dovrebbe cavalcare il cavallo verde, mentre qui, per assumere una posizione centrale e dominante, cavalca il terzo, reggendo un’asta, forse come ricordo del bastone della falce, e appare avvolta in un manto rosso che si gonfia e nasconde il secondo cavaliere. Il terzo cavallo quasi si rovescia trascinato nel vortice della cavalcata.

 

 

 

Non ci sono colori a contraddistinguerli, ma solamente gli attributi nel gruppo scultoreo in bronzo “I quattro cavalieri dell’apocalisse e il bianco cavallo della pace, del 1973, posto nei Giardini pubblici Indro Montanelli a Milano, di Harry-Pierre Rosenthal : uno scultore viennese, ebreo, sfuggito alle persecuzioni naziste, convertitosi al cattolicesimo. È formato da quattro statue di cavalieri con basamenti di diversa altezza collocati a distanza l’uno dall’altro come sono nel testo biblico; due cavalli sono rampanti, uno è slanciato in avanti e uno è fermo. L’artista ha introdotto una quinta statua con un solo colore simbolico: il “bianco” indicante la trascendenza divina (Dn 7,9) realtà propria del Risorto (Ap 1,14-18) come riporta il Teologo Marcello Marino; è senza basamento, un cavallo senza cavaliere, fermo, intento a brucare l’erba, quasi in disparte a testimonia della  profonda e originale religiosità dell’artista.

 

 

Un Cristo donna

 

 

Scritto da MARIA NISII.

https://www.youtube.com/watch?v=uX0iavGvLYQ

Nel mondo distopico di Cecità, raccontato da José Saramago e tradotto in immagini nel film di Fernando Meirelles, tutti gli uomini e le donne uno a uno diventano ciechi senza ragione apparente. Che questa cecità non sia un fatto meramente fisico è chiaro dal biancore latteo che tutto avvolge in luogo della normale caduta nelle tenebre. Questo male che affligge l’umano è rivelativo della sua natura, come in ogni situazione estrema, ma di quale male si tratti non è detto, sebbene molte interpretazioni arrivino dai diversi personaggi della storia (cfr: https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/tutti-ciechi).

L’unico personaggio a essere esonerato dall’esperienza della cecità è la moglie dell’oculista. I suoi occhi rimasti efficaci sono tuttavia costretti a vedere l’orrore che gli altri possono solo immaginare, ovvero come il mondo di ciechi sia riuscito ad abbruttirsi e ad abbruttire tutto quello su cui ha messo le mani. Sin dall’inizio la donna si finge cieca per seguire il marito nella quarantena ordinata dalle autorità in un ex manicomio, dove man mano arrivano i pazienti che erano nello studio dell’oculista il giorno in cui è arrivato il primo cieco (il paziente zero). Nei giorni a seguire il manicomio si riempirà ben oltre le sue possibilità di ricovero, e a quel punto è ormai chiaro che la cecità è un male contagioso. Le vettovaglie però, sin da subito irregolari, si faranno sempre più rade. Così, in mancanza di condizioni igieniche adeguate e di quel minimo di assistenza necessaria, il mondo degli internati si trasforma presto in un inferno.

 

 

Il primo gruppo di ciechi – composto dal medico, la moglie e i pazienti dell’ambulatorio – riescono a restare uniti fino alla fine, anche grazie all’aiuto della donna che, pur non rivelando il suo vero stato, li guida e soccorre al di là delle proprie forze. Ma nel momento di crisi, quando la camerata degli ultimi arrivati ruba le vettovaglie di tutti per distribuirle solo dietro compenso (prima tutti i possessi che i ciechi hanno portato con loro e poi prestazioni sessuali), assieme alle altre donne la moglie del medico sacrifica il proprio corpo perché altri possano continuare a nutrirsi. Mentre la sua determinazione e forza d’animo è in grado di suscitare seguaci: «Dovunque andrai, verrò» (p. 169-70), le dice ripetutamente un’altra donna – rimando a Lc 9,57 «Ti seguirò dovunque tu vada».

 

https://www.youtube.com/watch?v=mgZLIQx8E4Q

Affamati per il protratto digiuno, quando ormai i viveri da fuori non arrivano più, un gruppo nutrito di ciechi decide di assaltare la camerata dei bruti per recuperare il cibo sottratto. Il narratore li descrive come «angeli con l’aureola» e le sbarre di ferro dei letti che prendono come arma, divenute pesanti per la debolezza, sono come «croci sulle loro spalle» (p. 177).

 

 

La donna è ritratta come una figura cristica, l’unica da cui possa provenire salvezza da un mondo irredento. Si è sacrificata per l’uomo che ama, accettando di assistere al suo tradimento in un momento di debolezza. Quando non ci sono più guardie a vigilare che nessuno esca dall’edificio, i ciechi si precipitano fuori ma nessuno vuole restare solo perché «sanno che nessun pastore li andrà a cercare» (p. 186).Il gruppo guidato dalla moglie del medico invece ha il suo pastore e «sembrano un solo corpo» per come sono uniti (p. 188). Dopo un’uscita estenuante, la donna cerca un luogo dove potersi riprendere e di lei il narratore dice che non trova «pietra su cui posare il capo» (p. 266)– richiamo a Lc 9,58: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».

 

 

Come dentro il manicomio, anche fuori è sempre lei la salvezza del piccolo gruppo, andando in cerca di cibo e poi guidando i sette ciechi nelle rispettive case, vivendo insieme l’ansia di quello che avrebbero trovato e i piccoli momenti di pace che per loro diventano una festa. Dopo aver girato per le altre case, raggiungono infine l’abitazione del medico e di sua moglie, miracolosamente preservatasi dai saccheggi. Per non sporcarla vi entrano scalzi come in un luogo sacro, bevono acqua pura da bicchieri di cristallo come a riprodurre un rito. Lì il gruppo vive semplicemente, ascoltando alla sera la donna leggere storie di un’umanità perduta. Una piccola comunità umana che ricomincia una nuova vita, basata su regole di comunione, solidarietà, convivenza. Quasi a conclusione il bagno delle donne sul balcone sotto la pioggia  è un momento di gioia quasi infantile, ma puredi purificazione dalla sporcizia fisica e morale che hanno vissuto.

 

 

Durante i primi mesi della pandemia questo e altri romanzi famosi come La peste di A. Camus o altri che non riscuotevano interesse da tempo (La peste scarlatta di J. London o Diario dell’anno della peste di D. Defoe) o persino non ancora mai tradotti in italiano (L’ultimo uomo di M. Shelley) diventano letture d’obbligo. In tanti vi hanno cercato richiami a quanto si stava vivendo, per altri semplicemente è stato un modo per sfruttare il tempo improvvisamente divenuto libero per leggere. In Cecità l’ateo irridente che è stato Saramago ha raccontato una storia dell’orrore donandoci una piccola luce nell’oscurità, una salvezza possibile incarnata in una figura femminile. Una donna che sembra non avere niente di speciale per essersi preservata dal contagio, nulla al di fuori dell’amore che nutre per l’uomo che ha sposato e poi per gli amici che incontrerà sulla sua strada.

 

 

 

Sei tu

Scritto da LORENZO CUFFINI

Riscrittura inconsapevole *

 

Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». 14Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». 15Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». 16Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

 

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Te l’ho detto. E Te l’ho detto io.

Non so da dove mi sia venuto, come mi sia uscito, in che modo l’ho pensato. Io non sono fatto per pensare: io lavoro, io non penso. Pensare mi spaventa e mi confonde. Quella domanda che ci hai fatto a bruciapelo, voi chi dite che io sia?, non avevo mai voluto pormela, da solo. Troppo rischiosa, troppo difficile, troppa roba per un pescatore.

Non che non avessi la tentazione di chiedermelo. Non tanto per arzigogolare, al contrario: per richiamarmi a un minimo di ragione che  evidentemente, da quando Ti ho incontrato, ho completamente perso. Così, nelle notti passate nei bivacchi, Tu a dormire con  noi, oppure da solo, in disparte, a pregare sotto un cielo vastissimo e enigmatico per come lo fissavi, in quelle notti tormentate, appena finito il sonno accumulato nelle marce quotidiane e nelle emozioni contrastanti, sveglio e inquieto, mi chiedevo: ma io, io, chi sto seguendo? Che sto facendo? Dove sto andando? Solo che, come si vede, quel Chi veniva come risucchiato, stemperato, coperto e tacitato dal mio voler indagare  su di me e sul senso delle mie scelte. Un ragionare sofferto, ma che allontanava la bomba innescata di quel chi?

Confusamente, in modo arruffato e masticato male ( che pretendete da un pescatore?) certe cose erano venute a galla, e non volevano più tornarsene sott’acqua: Ti guardavo, vicino a me o lontano nel chiarore agitato di una fiamma, e mi dicevo che eri Tu l’origine di tutto dentro di me, in questa mia nuova vita, come se io avessi abboccato a un amo che mi trascinava vorticosamente via; che stare vicino a Te era toccare con mano la distanza compresa tra me e l’universo. Che eri  Tu, e Tu solo, il motivo per cui la mia storia era cambiata: cambiata? buttata all’aria completamente, a ben vedere.  Io invece, Simone, sapevo di non essere affatto migliorato, di essere restato quello  di sempre: solo che, con la Tua vicinanza e le Tue parole, per non parlare dei Tuoi sguardi scorticanti, ora vedevo molto meglio i miei errori e i miei sbagli. Mi era ben chiaro che Tu li sapevi tutti, prima e insieme a me: ma senza mai giudicarli. La cosa mi metteva in uno stato di tensione spirituale continua che non potevo approfondire. Avevo capito, questo sì, che Tu eri il limite, il confine tra la luce e il buio che ci sono in me, e che si alternano in quel crepuscolo dove io vado a nascondermi, gettandomi nel mio fare, nel mio lavorare, nel mio non pensare. Una zona d’ombra  dove avevo imparato a mimetizzarmi, a camuffare le mie mani rotte: non solo per i calli e le reti mille volte rammendate, ma anche per la fatica quotidiana di sbatterle ogni giorno contro il muro della normalità che perseguivo cocciutamente, del buon senso, del “non ho tempo da perdere, io”, del “non credo alle favolette, io”.

In quelle notti ansiose , a voltarmi e rivoltarmi nel mio mantello, una cosa la cominciavo a capire: che eri Tu la forza che  mi sento dentro  ogni volta che so di essere imperfetto, che eri Tu ad attraversare l’aria stessa che respiro e che mi fa vivere, ogni volta che mi tocchi . Che eri Tu a fare passare il mondo attraverso i miei occhi, quello che c’è oltre, voglio dire. Oltre l’orizzonte del lavoro, della barca, della pesca, dei pesci, della casa, della famiglia, insomma del piccolissimo cerchio tutto mio. Quello se n’era andato del tutto, rovesciato e annientato come un guscio travolto da una tempesta: mi avevi messo dentro il senso del futuro e del destino , a me, che mi facevo vanto di non voler mai staccare dalla terra  i piedi ben piantati . Di quel mondo nuovo  non conoscevo nulla. Sapevo solo che Tu mi seguivi e mi accompagnavi passo passo, come io fossi un bambino: per questo Ti sentivo come la cosa più bella, quella che ho sempre difeso, anche quando non la capivo, non comprendendo Te. Sei stato  Tu a sconfiggere i miei dubbi, anche quando io mi ero già arreso, perché  ci vuole una forza incredibile per alzarsi ogni mattina, dire buongiorno e ripartire da capo, mentre provi a vagare la giornata intera fra te stesso, Te, e gli altri che Ti stanno intorno. Mi sono detto, in quelle notti, che tu mi hai visto credere e poi non crederci più, e che pure non mi hai cacciato. Mi sono detto che nonostante tutto io ero lì, ero restato, con una sconosciuta insistenza ad esistere, sentendomi  appeso ad un filo sottile…e lo dicevo io: non un poeta, non un filosofo, ma un pescatore. Uno che sa molto bene come serva a niente,  un filo sottilissimo.

Così sono arrivato ad oggi, alle mie parole , inaudite, per giunta in bocca mia: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.

Oggi è un giorno per credere in Te, e poi restare a testa bassa, senza più parole. Oggi voglio vivere i sogni che ho fatto, anche se lo so : Tu hai deciso di essere altrove, molto lontano dai miei sogni. Ma oggi è il giorno per credere in Te. Io ho parlato, e non saprei più dire altro. Lasciami così: senza parole, che è la mia dimensione naturale. Senza parole, perché io resto quello che non è fatto per parlare, non è fatto per pensare. Io direi: non è fatto per Te. Tu mostri di pensarla diversamente. Eppure lo sai già che resterò lo stesso, capace di dubbio, di paura, di rabbia.  Vuole dire che Ti va bene così? Non lo so e non lo credo. Ma dubbi, paura e rabbia che verranno, ecco: Te le do. Roba tutta mia. L’unica che ho da offrirti: quella che misura la distanza tra un uomo che ha vinto e un uomo sconfitto.

Sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.

Sì, sei Tu.

 

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Sei tu
Brano di Fabrizio Moro
Sei tu che dai origine a quello che pensoLa distanza compresa fra me e l’UniversoIl motivo per cui la mia vita è cambiataSei tu che hai visto i miei sbagli ma non l’hai giudicataE sei tu quel confine fra il giorno e la notteDove io mi nascondo con le mie mani rotteChe continuo a scagliare su un muro che non cade giùMa la forza che sento dentro ad ogni sospiro imperfetto
Sei tuChe attraversi il mio ossigeno quando mi tocchiSei tuIl mondo che passa attraverso i miei occhi
E sei tu che mi inietti nel sangue il destinoE accompagni i miei passi come fossi un bambinoSei la cosa più bella che ho sempre difesoE hai sconfitto i miei dubbi quando io mi ero arresoChe ci vuole una forza incredibile per dire buongiornoMentre provi a vagare fra te e chi sta intornoMi hai visto credere in me e poi non crederci piùMa l’insistenza di esistere appesi ad un filo sottile
Sei tuChe attraversi il mio ossigeno quando mi tocchiSei tuIl mondo che passa attraverso i miei occhi
Oggi è un giorno per credere in teOggi lasciami senza paroleVoglio vivere i sogni che ho fatto anche seHai deciso di essere altroveOggi è un giorno per credere in teOggi lasciami senza parolePrendi ancora se vuoi la mia rabbia in affittoLa distanza fra un uomo che ha vinto ed un uomo sconfitto
Sei tuChe attraversi il mio ossigeno quando mi tocchiSei tuIl mondo che passa attraverso i miei occhiSei tuIl mondo che passa attraverso i miei occhiSei tu
Fonte: LyricFind
Compositori: Fabrizio Mobrici / Roberto Cardelli
A questo link il video della canzone

Il vecchio e il bambino

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

Riscrittura Inconsapevole *

 

«L’alleanza dei vecchi e dei bambini salverà la famiglia umana». Lo ha affermato Papa Francesco durante l’udienza generale di oggi, mercoledì 17 agosto, nell’Aula Paolo VI . Proseguendo il ciclo di catechesi dedicate alla vecchiaia, il Pontefice ha preso spunto dalle parole del profeta Daniele per ricordare che «la testimonianza degli anziani unisce le età della vita e le stesse dimensioni del tempo: passato, presente e futuro».

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Non so che viso avesse, e nemmeno come si chiamava.

Da dove mi vengono queste parole che mi suonano in testa? Tornano e mi ritornano, mentre vi guardo in faccia. Uno a uno, tutti quanti, mentre passo davanti ai  vostri occhi. Voi che leggete. Che visi siete? Che nomi avete? Chi siete? Vi conosco? Vi dovrei conoscere? Qualcuno mi guarda con affetto, e mi sorride -chissà perché- incoraggiante: ma mi incoraggi a fare cosa? I più mi scrutano, come per indagarmi, per capire: cosa, non saprei. Qualcuno non mi guarda proprio e finge indifferenza: ma non è un bravo attore, se della sua finzione mi accorgo benissimo . Voi: chi siete? E IO:  voi sapete chi sono io? Dal fatto che siete qui, dovrei dedurre di sì. Ma il fatto è che ho smesso da tanto tempo di dedurre. Guardo, registro quello che posso, passo oltre. Non ho tempo da bruciare in convenevoli e ricordi.  Men che meno in deduzioni. E poi non ho pazienza per curarmi ancora di quello che di me si pensa o si crede di sapere.

Di tempo ne ho talmente tanto addosso, che ho smesso di guardarmi negli specchi: non mi riconosco più. Nemmeno lontanamente. Anche quella faccia che vedo riflessa non so che viso avesse e nemmeno  come si chiamava. Ho imparato a farmi la barba guardando la pelle, non il viso: osservando i centimetri intorno al rasoio, non l’immagine che mi guarda incorniciata. La mie giornate sono così. Il mio tempo è così. Tantissimo addosso, pochissimo in tasca. Il tempo degli altri ( figli, nipoti ) scorre in modo diverso dal mio: un dolore, all’inizio, le prime volte che me ne rendevo conto. Adesso, è così e basta. Le mie giornate sono così e basta. Così e basta è la mia storia. Il mio domani è adesso, e non so quanto questo adesso duri. D’altra parte Il mio ieri è talmente spesso, compatto, palpitante, che è una fatica andare a metterci le mani dentro. Solo che, per quanto io sia stanco e non abbia energie da sprecare inutilmente, ogni tanto si muove da solo e mi salta addosso e si impossessa di me completamente. Allora io lo lascio fare, gli lascio mano libera, campo aperto, briglia sciolta. Ma, fuori da quei momenti, se ne sta tranquillo, e a me non piace stuzzicarlo.

La gente- voi non offendetevi-  non mi piace piu’. A parte questo bambino che mi ritrovo accanto. Volete ridere? Io non so sempre chi sia . Anche per lui , non so sempre che viso avesse, e come si chiami per davvero. Le prime volte mi agitavo immensamente: poi ho imparato che , se è con me, è perché ci sarà una ragione. Ed è talmente  tranquillo, naturale nello stare con me, che è lui che mi tranquillizza. Non so sempre chi sia:  se sia un nipote, il figlio o il nipote di un vicino. Ho smesso di chiedermelo. E certo non lo chiedo a lui: sarebbe una inutile indelicatezza.  Quando so chi è, bene. Diversamente, so che mi è amico: e questo mi basta. Non è da pazzi? Con tutti gli amici che ho avuto nella vita, non ne vedo più nessuno. Invece ho un amico bimbo. Un amico, sì. Di un vecchio elefante, come me? Proprio. Lui arriva, mi saluta con il mento, mi guarda serio e mi prende per mano. Quanti secoli sono che qualcuno non lo fa più? Bene:lo fa lui, serio serio. M i da la mano, prende con la sua la mia e, tirandomi  pianino, perché è un tappetto alto appena così, cosa vuoi che tiri,mi dice: andiamo?

Sai che c’è di strano? Che non fa domande. Mi prende la mano e va. Cammina vicino a me, e va. Aspetta che io parli. Aspetta che io racconti. Ma ho ormai capito che, anche se non parlo e non racconto nulla, gli va bene uguale: mano nella mano, l’altra mano in tasca, cammina vicino a me. Tutto qui. Sembrerebbe poco: non lo è. Chi sta con me, chiunque, che io sappia chi lui sia o no, che io sappia chi io sia o no, è sempre preoccupatissimo di domandarmi roba e ancor piu’ preoccupato di quello che rispondo e di come gli rispondo. Per non parlare delle occhiate che lancia agli altri, se ci sono dei presenti. E senza contare che ogni tanto si mette a parlarmi come si parla a un bambino, per giunta  molto piccolo e molto disattento… ecco, a questo proposito, è per questo che io al mio amico bimbo non parlo mai come a un bambino. Dove c’è scritto che chi è bambino non deve capire le cose? Cretinate.

Facciamo lunghe camminate, io e il mio bimbo amico. Almeno, a me pare così. Non giurerei su quel lunghe, però. Non mi importa nemmeno, d’altra parte. E certamente non importa a lui. Non saprei nemmeno dire dove andiamo, camminando insieme. Adesso, per esempio, con voi che mi guardate: dove staremmo andando? Le luci stanno calando, quindi stiamo andando incontro alla sera, questo sì: c’è una bellissima polvere rossastra, che si alza in lontananza, come in certe tavole di fumetti degli anni cinquanta. Il sole brilla ancora- il sole nel cielo è una palla di fuoco, da dove mi viene questa? – ma la luce non scalda più, e pure lui mi sembra più un sole da film che un sole vero. Io mi guardo intorno, e so che dovrei vedere qualcosa, così come vedo le vostre facce: ma a perdita d’occhio c’è solo una pianura immensa, calma, in silenzio, e, per quanto io guardi, senza un’ anima viva da nessuna parte. Solo, indefinite, a perdersi sull’orizzonte, delle vaghe lontanissime colonne di fumo, almeno così mi sembrano, forse le stesse che spandono quel pulviscolo rossastro che colora la luce intorno.

Non so dove sia questo posto, ma lo conosco molto bene. E’ il posto dove mi trovo tutte le volte che la mia mente si allontana, e si allontana tutto il resto, e io vivo, ma non so bene dove, come, con chi, e chi sono. Ma non mi spavento: appunto perché il posto lo conosco, e so che da quel posto si ritorna; io almeno, ci sono sempre ritornato. Anche se magari non so più bene dove. E come si fa ad agitarsi poi   con quella piccola mano in mano? Basta che io dia una piccola stretta, ed eccola lì. Nella mano ho la mano del mio amico bimbo, placida e riposta, tranquilla e fiduciosa. Noi stiamo lì, camminiamo , che  il giorno cada pure e sprofondi, che importa? Finisce che mi commuovo, come sempre in questi casi. Generalmente faccio di tutto per non darlo a vedere, e soprattutto, cerco disperatamente di non piangere se ci sono presenti i miei figli e i miei nipoti: papà! Piangi?! E perché Piangi ? papà! Non piangere! Citrulli, li avrebbe bollati mia nonna, quella che quando la prendevo in giro per i suoi ohi! So’ tutta un dolo!  mi diceva:  te verrai vecchio anche tu, che credi? Citrulli, sì. Non sanno che i vecchi piangono, e lo fanno a ragion veduta? Si ritrovano così: con l’anima che ogni tanto si fa assente, oppure, così acutamente presente da risultare intollerabile. Con tutti i miti dell’età giovane, la consapevolezza che fossero soltanto dei gran miti, e la voglia pazza di poterli ancora rivivere – una volta sola! – con il sapore di quel tempo. I vecchi subiscono, impavidi, una dopo l’altra, le ingiurie degli anni, non sanno più distinguere sempre il vero dai sogni, e  non sanno sempre, nel loro pensiero, distinguere nei sogni il falso dal vero. Questo spaventa loro, spaventa chi sta con loro, spaventa tutti.

Ma non il mio amico bimbo.

Il quale, se parlo, ascolta. Se sto zitto, tace con me. Se piango, mi lascia piangere: un po’ triste, ma senza dire nulla.  Aspetta. E resta, aspettando. E se, e quando, racconto, si fa tutto orecchie: attento, vivace, a non perdersi una parola sola. A dire il vero, non sono sicuro di quel che gli racconto. Ma , oggi è uno di quei giorni, per esempio, so che lo faccio e ascolto un po’ sorpreso la mia voce, che parla di cose e tempi e posti e volti lontani per me, sconosciuti per lui. Ma a tutti e due va benissimo così.” Immagina questo coperto di grano, Immagina i frutti e immagina i fiori E pensa alle voci e pensa ai colori….” Man mano che ascolto la mia voce, il mio paesaggio assente, quello che ci circonda, quello che conosco bene, piano piano cambia, e si popola e si colora: e la pianura, un albero dopo l’altro, si riempie di verde e di boschi, freschi come dopo una rigenerante  pioggia di primavera, tutta luccicante sotto il brillare limpidissimo del sole.

Quanto dura? Quanto è durato? Non saprei dirlo. A un tratto sbatto gli occhi, mi riscuoto e mi ritrovo seduto in poltrona. Mi guardo in giro: sono in casa, sparita la pianura e tutto il resto. Ma il mio amico bimbo, no. E lì, seduto sul bracciolo della mia poltrona, un piede che spenzola e gli occhi pieni di chissà che immagini sognate.  Quegli occhi ricordo di averli avuti anch’io, come no:  tutte le volte che mi raccontavano una storia che avesse avuto la forza di attirarmi dritta dritta nel suo mondo. Che viaggi! Capisco dalla luce dello sguardo e dal respiro un poco accelerato che l’amico bimbo ha appena viaggiato, ed è appena appena di ritorno.  Fa un piccolo, impercettibile sorriso: poi mi stringe un pelo la mano e mi dice, a voce bassissima: mi piacciono le tue storie! Raccontane altre.

 

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Il vecchio e il bambino

Brano di Francesco Guccini

Un vecchio e un bambino si preser per manoE andarono insieme incontro alla seraLa polvere rossa si alzava lontanoE il sole brillava di luce non vera.
L’ immensa pianura sembrava arrivareFin dove l’occhio di un uomo poteva guardareE tutto d’ intorno non c’era nessuno:Solo il tetro contorno di torri di fumo
I due camminavano, il giorno cadeva,Il vecchio parlava e piano piangeva:Con l’ anima assente, con gli occhi bagnati,Seguiva il ricordo di miti passati
I vecchi subiscon le ingiurie degli anni,Non sanno distinguere il vero dai sogni,I vecchi non sanno, nel loro pensiero,Distinguer nei sogni il falso dal vero
E il vecchio diceva, guardando lontano:“Immagina questo coperto di grano,Immagina i frutti e immagina i fioriE pensa alle voci e pensa ai colori
E in questa pianura, fin dove si perde,Crescevano gli alberi e tutto era verde,Cadeva la pioggia, segnavano i soliIl ritmo dell’ uomo e delle stagioni”
Il bimbo ristette, lo sguardo era triste,E gli occhi guardavano cose mai visteE poi disse al vecchio con voce sognante:“Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!”
Guarda qui il video:
*) Riscritture inconsapevoli: canzoni scritte dai loro autori  per motivi e contesti tutti diversi, eppure in grado di rappresentare, almeno a qualche orecchio, un pezzo di Scrittura, che si riscopre lì dentro, come inconsapevolmente richiamata.

Assunta sulla collina dei ciliegi

Scritto da  LORENZO CUFFINI

Riscrittura inconsapevole di Ferragosto (*)

 

“Che cosa dona al nostro cammino, alla nostra vita, l’Assunzione di Maria? La prima risposta è: nell’Assunzione vediamo che in Dio c’è spazio per l’uomo, Dio è la casa dell’uomo, in Dio c’è spazio di Dio. Ma c’è anche l’altro aspetto: non solo in Dio c’è spazio per l’uomo; nell’uomo c’è spazio per Dio. Anche questo vediamo in Maria. In noi c’è spazio per Dio e questa presenza di Dio in noi, così importante per illuminare il mondo nella sua tristezza, nei suoi problemi, questa presenza si realizza nella fede: nella fede apriamo le porte del nostro essere così che Dio entri in noi, così che Dio può essere la forza che dà vita e cammino al nostro essere E così, fede e speranza e amore si combinano.”

Benedetto XVI, Omelia dell’Assunta, 15 agosto 2012.

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Una donna. “Portata “in cielo. Non  “ in spirito”, come siamo abituati a dire e a sentir dire di chi muore. Una donna che non muore. Vive. E, viva come è, viene portata in cielo. La dicono assunta. Che cosa dona, al nostro cammino, alla nostra vita, l’Assunzione di Maria?  Dirlo parola per parola, consequenzialmente, effetto dopo causa, non si puo’ fare. Ma tentare per immagini, per intuizioni, per suggerimenti, forse sì.  Forse, così,  si puo’  provare. E dunque: che cosa ci balugina, che cosa intravvediamo, che orizzonte ci si sfoca davanti?

Questo, per esempio.

Davvero tu puoi vivere una vita luminosa e più fragrante. Se vuoi farlo, coraggio: cancella  tante suppliche dai tuoi occhi e dalle tue parole. Tu lotti e fatichi per diventare saggio: ma troppo spesso la saggezza è solamente la prudenza più stagnante.
E quasi sempre il sole c’è: ma si trova dietro la collina.

Qui c’è una donna, la diciamo  assunta in cielo. Perché  rinunciare ad essere come lei, azzurra e luminosa come ce la rappresentiamo? Perché  non  “spaziare” con lei? Volando intorno la tradizione, come fa un colombo intorno a un pallone frenato. E poi, con un colpo di becco ben dato, forarlo  e pfffffffffffffffffff , lui giù, giù, giù…E tu, al contrario,  ancora, ancor più su. Planando sopra boschi di braccia tese. Con un sorriso che non ha più ne’ un solo volto, né più un’età. A  respirare brezze freschissime,  che dilagano su terre senza limiti e confini. Ad allontanarsi anni luce,  e poi ritrovarsi  insieme, vicinissimi. A chiudere gli occhi un istante e immaginare:  più in alto, molto di più. Più in là, molto.di più. Ora e per sempre, immersi nella immensità.

Magari ad “ ascoltare” una Voce che ti dice:

“Se segui la Mia mente,  abbandoni facilmente le antiche gelosie. Ma non ti accorgi che è solo la paura che inquina e  uccide i sentimenti? Le anime non hanno sesso, né puoi dire : sono mie. No, non temere: tu non sarai preda dei venti. Ma perché non mi dai la tua mano: perché? Potremmo correre sulla collina. E fra i ciliegi veder la mattina (e il giorno)
E dando un calcio ad un sasso – residuo d’inferno – farlo rotolar giù, giù, giù….E noi ancora, ancor più su. Planando sopra boschi di braccia tese, con un sorriso che non ha né più un solo volto né più un’età. E respirando brezze che dilagano su terre senza limiti e confini: ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini.
E più in alto e più in là, ora figli dell’immensità”

E così, forse, fede e speranza e amore si combinerebbero.

 

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Lucio Battisti – La Collina Dei Ciliegi

Testo di MOGOL

E se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante
Cancella col coraggio quella supplica dagli occhi
Troppo spesso la saggezza è solamente la prudenza più stagnante
E quasi sempre dietro la collina il sole
Ma perché tu non ti vuoi azzurra e lucente
Ma perché tu non vuoi spaziare con me
Volando intorno la tradizione
Come un colombo intorno a un pallone frenato
E con un colpo di becco
Bene aggiustato forato e lui giù, giù, giù
E noi ancora, ancor più su
Planando sopra boschi di braccia tese
Un sorriso che non ha
Né più un volto, né più un’età
E respirando brezze che dilagano su terre
Senza limiti e confini
Ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini
E più in alto e più in là
Se chiudi gli occhi un istante
Ora figli dell’immensità
Se segui la mia mente
Se segui la mia mente
Abbandoni facilmente le antiche gelosie
Ma non ti accorgi che è solo la paura che inquina
E uccide i sentimenti
Le anime non hanno sesso né sono mie
Non non temere
Tu non sarai preda dei venti
Ma perché non mi dai la tua mano perché?
Potremmo correre sulla collina
E fra i ciliegi veder la mattina (e il giorno)
E dando un calcio ad un sasso
Residuo d’inferno e farlo rotolar giù, giù, giù
E noi ancora, ancor più su
Planando sopra boschi di braccia tese
Un sorriso che non ha
Né più un volto né più un’età
E respirando brezze che dilagano su terre
Senza limiti e confini
Ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini
E più in alto e più in là
Ora figli dell’immensità
Fonte: LyricFind

https://www.youtube.com/watch?v=n-9RIxpyyKA

 

*) Riscritture inconsapevoli: canzoni scritte dai loro autori  per motivi e contesti tutti diversi, eppure in grado di rappresentare, almeno a qualche orecchio, un pezzo di Scrittura, che si riscopre lì dentro, come inconsapevolmente richiamata.

 

Insieme a Te non ci sto più

 

Scritto da LORENZO CUFFINI

Riscrittura inconsapevole *

Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?». 61 Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: «Questo vi scandalizza? 62 E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? 63 È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. 64 Ma vi sono alcuni tra voi che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65 E continuò: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio».
66 Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.  Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?»

Giovanni 6,60-67

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Hai capito bene: sì, io mi tiro indietro. No: non vengo più con te.

Che poi, con te: ma quando mai? Al massimo, dietro a te. Con te,  io non ci sono mai veramente stato. Oh: non che non lo volessi. L’avrei voluto, con tutte le mie forze. Per questo me n’ero andato da casa mia, e non c’era stato verso di farmi ragionare. All’inizio, la cosa era bella, forte, entusiasmante, grande. Andiamo con il Rabbi! Andiamo con il Nazareno! Non che fosse facile parlare con te, nemmeno i primi tempi: facevano cortina  i tuoi intimi, quelli che dicevano di essere stati scelti da te, uno per uno, chiamati per nome, eletti. No: noi si stava a distanza. Noi ti si seguiva da lontano. Noi, al massimo, si parlava con uno di loro, uno dei dodici. Che mettevano su certe arie d’importanza e di protezione, di sussiego e di degnazione: a marcare bene la vicinanza, tutta loro, e la distanza, tutta nostra.

Insieme a te, non ci sto più.

Ti sono venuto dietro pieno di speranze e di illusioni. Non che tu le alimentassi, per la verità: erano speranze e illusioni tutte e solo mie. Dovessi dirti, non saprei nemmeno quello che ero venuto a cercare veramente in te: probabilmente le tenerezze che non ho mai avuto, la comprensione che nessuno mi ha mai dato, e che io non so trovare in questo mondo stupido. A ben vedere, a sentirti parlare – sempre e soltanto da lontano, intendiamoci- non ho mai trovato nulla di tutto ciò: niente coccole, lisciamenti, incoraggiamenti, complicità. Niente di facile. Niente di comodo. Niente di accattivante. Poche parole, spigolose e contropelo. E io a dirmi:  colpa mia. Non capisco? Capirò. Non mi esalto? Mi esalterò. Mi sono nascosto i fatti, mi son negato la realtà: perché c’è solo una cosa più amara del credere in una illusione sbagliata: riconoscerlo, e ritornare sui tuoi passi. Adesso, l’incantesimo è finito, adesso il giocattolino si è smontato. Tu non sei la persona che volevo, non lo sei più, anzi non lo sei mai stato. Finisce qua. Io vado via. Me ne torno a casa. Chi se ne va, fa qualcosa di male?

Nessuno puo venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio, hai detto oggi. Bene, Tutto chiaro. Il padre tuo, evidentemente, non mi dà il nulla osta. Permesso negato, strada sbarrata, storia finita. Io ho bisogno di leggerezza, di aria pura, di acqua chiara, di boschi verdi; di vallate piene di sole: lo so, lo so. Questa, che io vado cercando, è solo una favola, una storia  a lieto fine e tutta rosa. Ma era questo, che mi scaldava il cuore e mi accendeva i sogni. Non le tue parole, dure da capire e fredde da ascoltare.

Me ne vado, adesso. Guardo le nuvole che corrono rapide nel cielo. Già: il cielo. Il regno dei cieli, il figlio dell’uomo, tuo padre. Posso dirtelo, Rabbi? Io non ti capisco, quando parli. E tu non fai nulla per aiutarmi a capirti. Io me ne vado, e so che quando andrò non ci sarà un tuo saluto, un tuo sorriso, un tuo resta!, un tuo dove vai? Non sarà facile. Non sarà facile per niente, andarsene da te. Soprattutto non sarà facile andarsene dalla idea che io mi ero fatta di te. Rinnegare questa idea, sarà un po’ come morire: si ha un bel dire che si muore un po’ per poter vivere. Sarà anche: il fatto è che  io, a morirmene,  poco a poco, per conto mio, già ero bravissimo, già ero abituato. Era una vita nuova di pacca, bella, miracolosa, vincente, vittoriosa, dritta verso la gloria, quella che mi aspettavo da te. Non una nuova piccola, grande morte : a me stesso. E tutto quel parlare di amore? Ma quale amore c’è, nel dire: forse anche voi ve ne volete andare? Pronti, quella è la strada. Sì, arrivederci, Amore. Ciao, Amore. Corso via, sparito, tutto questo parlar di amore, come corrono inarrestabili le nuvole di questa mattina. Io male non ne ho fatto. Chi se ne va da te, che male fa?

Dicono che sai tutto. Puo’ darsi: io so che ci ho creduto, ciecamente, e ora, che me ne è venuto in tasca? Che me ne torno a casa, dove mi aspettano i lazzi dei parenti e la derisione degli amici. Dicono che leggi nei cuori di chiunque. Se lo hai fatto con me, sei stato bravissimo a nasconderlo. Se lo hai fatto con me, non sai, non capisci che basterebbe uno sguardo, un sorriso del cuore, il mio nome pronunciato dalle tue labbra, per fermarmi, per legarmi a te, per farmi restare , chissà, magari per sempre? Tu invece nulla. Non mi guardi, non mi chiami, non mi consideri. Quindi è vero: si muore un po’ per poter vivere; e io me ne torno alla mia vecchia vita, mezzo morto di delusione e di fallimento.

Non riesco ad avercela con te , però. Ce l’ho con me: questo sì. Tanto. A fondo. Completamente. Con te, no. Non riesco. Mi hai acceso il cuore, lo spirito, la fantasia, la vita. “E lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita.” hai detto. E non è colpa tua, se queste tue parole io non le capisco.

Non è nemmeno colpa mia, però. E’ forse “colpa” di quel Padre che non mi ha concesso di comprendere?  Puo’ darsi, ma ormai non mi importa. Ormai la questione è chiusa. Arrivederci al tuo parlar damore. Ciao. Il tempo è scaduto. Le nubi corrono via, e io farò la stessa cosa. Chissà che , da lontano, da lontanissimo, non ci si rincontri un giorno? “ E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?” hai detto. Già: e se lo vedessimo, per davvero? E se ti vedessi io? Salire, essere innalzato? E io, giù, a guardarti, sotto? Per il momento finisce qua.  Arrivederci, tuo gran parlar d’amore.  Arrivederci: a un altro momento, forse. A un altro tempo, forse. A un altro fallimento, probabilmente. Magari tuo, e non soltanto mio, come lo sento oggi. Forse, tra falliti, il nostro incontro finalmente sarà possibile.

Ciao, Rabbi.

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Insieme a te non ci sto più
Brano di Caterina Caselli, reinterpretato da Franco Battiato
Insieme a te non ci sto più
Guardo le nuvole lassù
Cercavo in te
Le tenerezze che non ho
La comprensione che non so
Trovare in questo mondo stupido
Quella persona non sei più
Quella persona non sei tu
Finisce qua
Chi se ne va che male fa?
Io trascino negli occhi
Dei torrenti di acqua chiara
Dove io berrò
Io cerco boschi per me
E vallate col sole
Più caldo di te
Insieme a te non ci sto più
Guardo le nuvole lassù
E quando andrò
Devi sorridermi se puoi
Non sarà facile ma sai
Si muore un po per poter vivere
Arrivederci amore ciao
Le nubi sono già più in là
Finisce qua
Chi se ne va che male fa?
E quando andrò
Devi sorridermi se puoi
Non sarà facile ma sai
Si muore un po per poter vivere
Arrivederci amore ciao
Le nubi sono già più in là
Arrivederci amore ciao
Le nubi sono già più in là
Finisce qua-a-a-a
Arrivederci amore ciao
Arrivederci amore
Ciao
Fonte: LyricFind
Compositori: Michele Virano / Paolo Conte / Vito Pallavicini
Testo di Insieme a te non ci sto più © Sugarmusic s.p.a.
Guarda qui il video:

 

 

Vasco e la rabbia del maggiore

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

Riscrittura inconsapevole *

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato“. (Lc 15,25-32 )

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Il mio vecchio questa volta ha davvero esagerato

Non solo è un sacco di tempo  che me lo sorbisco in sospiri e attesa, a scrutare l’orizzonte dalla terrazza di casa,  nella speranza di veder ricomparire quel fagnano di mio fratello minore, sì, quello che se n’è andato, e chi s’è visto s’è visto. Non solo ho dovuto raddoppiare il lavoro, facendo il mio e il suo; quello del fratello piccolo, dico, quello che  un bel giorno, toh: sai che c’è? Padre mio, me ne vado: dammi la mia parte dei beni, e ognuno per la sua strada. Lui sparito, io piantato nei campi, come una zucca, sole e pioggia, estate e inverno, tutto il santo giorno a spaccarmi la schiena, piegare la fronte e inghiottire la bile. Un padre aveva due figli, dice la gente raccontando la nostra storia: li aveva, sì, ma era come se ne avesse perso uno, dal momento che quello se n’era andato a cercare…che cosa? Ventura? A godersi la vita, se n’era andato, ma diciamocelo: a bruciarsi in anticipo la sua parte di eredità in donne, bordelli, mangiate, bevute, perso in chissà che posto. Aveva due figli, il padre: ma gliene era restato uno solo, al fianco. E lui, invece di riconoscerlo, di maledire quell’altro, di ritenerlo morto, girar pagina e via, che aveva fatto? Nulla: tutto il giorno, tutti i giorni, a sperare, a scrutare, a guardare e a illudersi in un ritorno di quel bestione.

Ma adesso si è superato, e ha superato il limite della mia pazienza e della mia sopportazione. Tanto per cambiare, io ero nei campi. Finisce la giornata, me ne torno a casa, stanco come uno straccio strizzato. Mentre mi avvicino, cosa sento? Musica. Canti. Suono inconfondibile di danze. Da casa di mio padre? Da casa nostra? Una festa, qui? Acchiappo per il braccio il primo servo che risale su per il sentiero, gli occhi accesi e la faccia ridente, e gli chiedo: ma che succede? “Non lo sai?, fa quello tutto trafelato. Tuo fratello è qui! E’ tornato! e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Poi si divincola, e scappa via. Mi avesse dato uno schiaffo in piena faccia, mi avrebbe fatto meno male. Mio fratello? Mio “fratello”? “Mio” fratello? Qui? Adesso? E arrivato da dove? E arrivato come? E perché?. Poi , feroce come una martellata picchiata in testa: il vitello grasso? Quello? Quello speciale, quello unico e solo, quello delle grandi occasioni, ammazzato così, là per là, in tutta fretta? Per festeggiare? Ma festeggiare cosa? Mi  lascio cadere a bordo della strada, senza parole e senza fiato.

In tutto questo tempo, persino parlare con mio padre mi è stato difficile: perché lui non c’era. Io lo sentivo , lo vedevo, e soprattutto lo sapevo lontano, con la testa lo sguardo e il cuore persi nella speranza disperata di rivedere quell’altro. Certo, il suo carattere è così, mi dicevo: per scusarlo e mettere un tappo alla mia rabbia. Non si cambia la propria natura. Non è mica come cambiare una robetta da poco. Cambiare un attrezzo, una macchina per lavorare i campi, per dire, puo’ esser molto facile. Cambiare donna, faccio per dire….. cavoli, già un po’ più difficile. Ma cambiare vita e modo di  vita,  quello è quasi impossibile! Vorrebbe dire cambiare tutte le abitudini, eliminare quelle meno sensate e meno  utili, che so… quella di stare ore e ore alla finestra a struggersi scrutando l’orizzonte a cercare di intuire la sagoma di quel depravato che se ne torna a casa. Vorrebbe dire cambiare direzione, e abbandonarlo finalmente e per sempre al suo destino, concentrandosi piuttosto su di me,  stupido poveraccio che è rimasto al suo posto,  per senso del dovere e dell’onorare il padre e  e la madre, secondo il decalogo…

Mille, ma che dico, diecimila volte, mi sono chiesto: ma il vecchio, a me, ci pensa, ogni tanto? Ha una lontana idea di quello che mi costa, mi è costato e mi costerà, restare qui, al mio posto, fedele e inamovibile come una roccia che non muove? Con l’esempio sotto il naso di quell’altro, con il sapere che basterebbe chiedere e via: anche a me, soldi, parte di eredità, libertà, libertà, libertà. Anche per me: tutto quello che vorrei.  Sai che c’è? Lui mi ha sempre dato per scontato. Ma cosa crede? Che non abbia anche io le mie passioni, la mia voglia di scatenarle, il mio diritto di cavarmi una a una tutte le mie voglie? Crede che non mi sia costato nulla limitarmi, cancellare “ i vizi”, far finta che non ci siano? E non parlo delle piccole rinunce quotidiane, quelle non son poi così difficili: parlo della grande lotta, della lotta fondamentale e tutti i giorni ripetuta:  tenerle a freno, le passioni, soffocare le mie emozioni, non cadere nelle tentazioni. Crede, il vecchio, che solo quel debosciato di mio fratello avesse il diritto e la possibilità che gli è stata riconosciuta senza colpo ferire di fare quel che gli passava per la testa e non solo?

Di colpo , la musica si è fatta più forte, le grida sono aumentate a dismisura, una porta si è aperta e quel vociare insopportabile e quasi osceno alle mie orecchie mi è arrivato addosso con tutta la sua caciara. Ed è stato allora che me lo sono visto davanti. Lui. Mio padre., Il Padre. Irriconoscibile, il vecchio: illuminato, raddrizzato, rinvigorito. Ringiovanito, ecco. E che fa? Inizia a blandirmi, e a supplicarmi di entrare, e di andare, e di partecipare alla festa…E si è vestito a festa pure lui, il vecchio: con la veste più ricca e splendente che possiede, e non riesco a non pensare che a una cosa sola: che così, mio padre io non l’ho mai visto in tutta la mia vita. Chiudo gli occhi, per non vederlo più. Mentalmente mi tappo le orecchie per non sentire più le sue parole, le sue suppliche  che traboccano di una contentezza e di una giocondità letteralmente insopportabili tanto sono genuine. Cosa mi stai chiedendo, vecchio? Ma che cavolo mi stai domandando? Fammi capire: arrivato a questo punto, io, IO, dovrei cambiare logica?  Io? Oh, sulla carta, molto bello, molto nobile, molto facile. Ma tu, la tua, l’hai mai cambiata?  Non mi pare, e dunque, che vuoi da me? Cambiare idea, cosa già molto piu difficile? Cambiare in qualche modo la  “fede” in base alla quale ho agito? Certo: tutta mia, ma forte, incrollabile, tanto che mi ha tenuto qui e in piedi fino ad adesso senza che ti mandassi sulla beata e me ne andassi anche io. Sai quante volte ci ho pensato? Cambiarla, questa “mia fede” , è quasi impossibile. Dovrei essere io a cambiare tutte le mie ragioni, sante , santissime, sacrosante? Riconoscere di ragionare  in modo sbagliato? Riconoscere che sono quelle ragioni a essere fonte del mio errore di adesso? Un errore di giudizio, di valore, di considerazione, di merito, nel NON volere, as-so-lu-ta-men-te, per nulla al mondo, partecipare alla tua sconcia festa. Ma questo, insomma,  non sarebbe nemmeno naturale.

Così gli grido, senza nemmeno guardalo il faccia: Festa? Quale festa? A quale festa mi supplichi di partecipare? Io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Te lo ricordi questo? Lo sai questo?  Dovrei far finta di niente, passare sopra a quanto è successso in tutto questo tempo? E ora, che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso. E io dovrei applaudire, partecipare a questa follia, come se nulla fosse successo? Scordatelo. Dici bene:  Questo tuo figlio– E’ tuo figlio, non è più mio fratello. Fammi capire: lui va viene, briga, disfa, due lacrimucce e due paroline di pentimento e tutto cancellato, dimenticato, tutto come prima? Anzi: meglio, di prima?

Ma lo sai quello che mi chiedi, vecchio? Si’, vecchio: chiamarti padre mi costa troppo. Quello che mi chiedi, è troppo. Vedi: cambiare opinione non è difficile. Cambiare partito è molto più facile. Cambiare il mondo è quasi impossibile. Tu te ne stai lì a dire belle parole e a supplicarmi, e mi chiedi di cambiare me stesso: così, come fosse poco, come fosse niente. Ma è tutto! Se io ci riuscissi, farei una vera rivoluzione. E se avessi voluto farla, la rivoluzione, non me na sarei stato qui, bravo, obbediente, a cuccia e fedele come un cagnolino al fianco di un vecchio padre ingrato.

Poi mi taccio. E apro gli occhi. Perché sopra di me, la sua voce ha smesso di parlare, le suppliche e le esortazioni sono cessate. In silenzio io, silenzioso lui. Lo guardo, e riscopro, pur se vestito in quell’incredibile tenuta da gran festa, il volto stanco, appassionato e senza tempo che scrutava ogni giorno l’orizzonte da lontano in tutti questi anni. E’ con quello stesso sguardo, che adesso guarda me: a scrutarmi dentro, a capire cosa guardare e cosa vedere, cosa cercare e cosa trovare. Quando apre bocca, la sua voce non è più festosa e squillante, ma pensosa e bassa. Così bassa che devo fare uno sforzo per sentire  fino in fondo quello che mi sta dicendo. Ed è questo: “Tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato“. Tutto qui. Poi, un lungo sguardo carico di affetto esausto, e se ne va.

Vecchio . Vecchio pazzo. Vattene. Va via. Lasciami in pace. Vattene, torna  a fare festa. Tu sei sempre con me, dice. Tutto ciò che è mio, è tuo, dice.. Sempre con me, mio, tuo. Sono a pezzi, ma quelle  parolette  mi sono restate in testa. Queste, e più nient’altro. Macerie mentali, rovine di pensieri, desolazione, e queste parolette. Svuotamento, e queste: sempre, con me, mio, tuo.

Valeva la pena vivere bene o cercare di vivere al meglio?  Fare il meno male possibile? Devo, devo, devo. Guardami qui, in che stato mi trovo adesso, io con il mio assoluto senso del dovere. Forse, non si tratta di dover  essere il migliore, costantemente, senza ammetterlo. Sei sempre con me, cioì che mio è tuo: allora  non si tratta, , di avere paura di perdere tutto. No lo so, no lo so. Riesco solo a pensare che , ancora un volta, sono e restano cavoli miei, e che sarà difficile, cavarsela da questa situazione.

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Cambia-menti
Brano di Vasco Rossi
Cambiare macchina è molto facile
Cambiare donna un po’ più difficile
Cambiare vita è quasi impossibile
Cambiare tutte le abitudini
Eliminare le meno utili
E cambiare direzione
Cambiare marca di sigarette
O cercare perfino di smettere
Non è poi così difficile
È tenere a freno le passioni
Non farci prendere dalle emozioni
E non indurci in tentazioni
Cambiare logica è molto facile
Cambiare idea già un po’ più difficile
Cambiare fede è quasi impossibile
Cambiare tutte le ragioni
Che ci hanno fatto fare gli errori
Non sarebbe neanche naturale
Cambiare opinione nonè difficile
Cambiare partito è molto più facile
Cambiare il mondo è quasi impossibile
Si può cambiare solo se stessi
Sembra poco ma se ci riuscissi
Faresti la rivoluzione
Vivere bene o cercare di vivere
Fare il meno male possibile
E non essere il migliore
Non avere paura di perdere
E pensare che sarà difficile
Cavarsela da questa situazione
Compositori: Luca Rossi Schmidt / Simone Sello / Vasco Rossi

 

 

(*) Riscritture inconsapevoli: canzoni scritte dai loro autori  per motivi e contesti tutti diversi, eppure in grado di rappresentare, almeno a qualche orecchio, un pezzo di Scrittura, che si riscopre lì dentro, come inconsapevolmente richiamata.

Creature d’acqua

Scritto da  MARIA NISII.

 

 

 

 

Questa primavera è passato per le sale un piccolo film indipendente di un regista esordiente, inglese di origini pakistane, che racconta la storia di un incontro tra culture e religioni, After love. Ambientato tra Calais e Dover la religione cristiana è di fatto fuori campo, a parte un breve accenno, mentre al centro troneggia quella islamica. La protagonista Mary assume il nome Fahima quando si converte all’islam prima di sposare il marito Ahmed, che conosce quando è ancora giovanissima e con cui vive un lungo matrimonio fino alla morte improvvisa di lui.

Il film si apre sull’inquadratura della coppia che discute a distanza: lei in cucina prepara una bevanda calda per entrambi, mentre lui è nella stanza accanto, visibile dalla porta aperta nella profondità di campo. Lo si sente rispondere fino all’arrivo di lei con le tazze, quando lo spettatore comprende che non vive più. Poco prima i due stavano discutendo del rito della rasatura praticato sui neonati: alla donna fa ancora effetto continuare a vedere quelle piccole teste senza capelli, ma lui dice che è qualcosa di simile al battesimo quando si immerge la testa del bambino nell’acqua. Lei accenna sommessamente al fatto che non è proprio così che avviene.

 

 

Nella scena successiva Mary-Fahima è totalmente ricoperta dall’abito bianco del lutto, circondata da familiari e amici che ne condividono la fede, ma in parte anche estranea a quanto sta succedendo e ai segni di lutto di chi vorrebbe condividerne la pena. L’immagine della locandina la isola infatti sulla scena, statuaria e mastodontica, in un salotto invaso dall’acqua, come un diluvio che le è penetrato in casa, devastandola. L’acqua e l’abito del lutto sono infatti i due grandi simboli della storia, che si intrecciano in diversi momenti del racconto.

Mary-Fahima torna sulle scogliere dove un tempo andava ad attendere la nave del marito, fa le abluzioni prima della preghiera, si immerge nell’acqua del mare per lenire il suo dolore – un’immersione come un battesimo, come un bisogno di rinascita che stenta a raggiungerla. E il velo, come la fede ormai parte di sé, l’avvolge senza contenerne la corporeità straripante su cui la macchina da presa indugia quasi spietata.

 

 

Fahima e Ahmed hanno vissuto a Dover. Lui era capitano di nave e per lavoro passava sovente da una parte all’altra del mare che separa l’Inghilterra dalla Francia. Quando lo sapeva in arrivo, lei si avvicinava alle scogliere sbracciandosi per salutarlo. Solo dopo la morte del marito, la donna saprà che dall’altra parte Ahmed si era fatto un’altra famiglia. Ma prima di partire e di superare il mare per andare a conoscere la donna francese con cui ha condiviso il suo uomo, Mary torna sulla scogliera e guarda al di là come persa.

 

 

L’incontro tra le due donne, l’inglese e la francese, è costruito come un gioco a specchi, dove ciascuna ripete i gesti che sono già stati dell’altra. Come la casa di Mary è metaforicamente devastata dal diluvio, quella di Geneviève sembra sgretolarsi – giustificandone solo apparentemente la necessità del trasloco. Entrambe entrano nella casa dell’altra a cercare tracce della vita del proprio uomo quando era assente – ora lo sanno – per stare con l’altra.

Il figlio avuto da Mary è morto neonato, mentre il figlio di Geneviève, Solomon, è un adolescente ribelle che teme di rivelare la sua omosessualità. I tre si conoscono, si separano e infine si ricongiungono. La macchina da presa li inquadra sulle scogliere, dalle quali gradualmente si allontana, lasciandoli a una vita nuova senza Ahmed, l’uomo che hanno condiviso e che continuano ad amare.

 

 

In questo film il mare è quasi un personaggio, oltre a essere simbolo di lutto. È diluvio che sommerge improvvisamente la vita, l’elemento in cui ci si vorrebbe perdere – come l’immersione tra le onde a Calais – alla ricerca di una leggerezza impossibile. Mary-Fahima vi si immerge con tutti i vestiti come si trovasse nel suo elemento, e che la scena sia ripetuta (sebbene solo nel trailer) sta a sottolinearne la centralità. La donna nell’acqua sembra affrancarsi dal suo peso, il peso di una corporeità segnata dagli anni, dalle tracce di una gravidanza finita in tragedia, ma insieme anche peso del dolore.

 

 

In tutte le religioni l’acqua è simbolo di purezza e purificazione (abluzioni), rigenerazione (battesimo), fecondità (madre primordiale, vita, amore divino). Ma in questi ultimi anni il cinema sembra aver stimato in modo speciale il legame simbolico dell’acqua con il femminile. Ne sono esempio, oltre a questo recente, altri due film degli ultimi anni: La forma dell’acqua di Guillermo del Toro (2017) e Maria Maddalena di Garth Davis (2018).

 

 

Il primo è ambientato negli anni Sessanta nell’America della Guerra Fredda. La protagonista è Elisa, una giovane muta che lavora come donna delle pulizie in un centro scientifico sperimentale, dove casualmente scopre una creatura anfibia su cui si stanno eseguendo crudeli esperimenti. Sentendo un’inusitata somiglianza con questa forma di vita antropomorfa, con cui entra subito in comunicazione, la donna riesce a salvarla decidendo infine di unirsi al suo mondo marino. Mettendo al centro una creatura esclusa dal consorzio umano, che si sente affine solo ad altri “diversi” (una collega di colore, un vicino omosessuale), questa fiaba racconta l’amore che nasce tra due esseri marginali (e per questo vittime di soprusi), rendendo questo amore simbolo di salvezza – immanente, com’è ovvio attendersi, o “antidoto al cinismo” come il regista l’ha definito. Una fiaba secolarizzata allora, in cui l’acqua resta elemento vitale, fonte di rigenerazione a vita nuova e dimensione dell’amore, ove realizzare la felicità che la società emersa non sa offrire.

 

 

Maria Maddalena inserisce invece questo elemento come cifra simbolica della discepola di Gesù che, unica donna in un mondo di uomini, deve superare lo scetticismo e gli ostacoli che la sua femminilità incontra. La protagonista, già originaria di un paese sul lago di Tiberiade, sin dalla prima scena è alle prese con reti da sbrigliare. Nell’acqua sarà poi battezzata dal Nazareno con una triplice immersione, ma è ancor più nell’immagine subacquea di lei che il film gioca a caratterizzarla. Maddalena infatti si sente “immersa” e sprofonda (col pensiero) ogni volta che ha bisogno di staccarsi da quanto la circonda.

Come Mary-Fahima e come Elisa, anche Maddalena cerca nell’acqua un senso di liberazione, un affrancamento dai“pesi” della vita sulla terra. Pur nelle diverse sensibilità e sottolineature, attraverso il simbolo dell’acqua i tre film offrono una visione della spiritualità come oggi siamo capaci di pensarla, come fossero alla ricerca di vie nuove e meno compromesse dai modi tradizionali. Come visto non si tratta tanto di un simbolo nuovo, anzi, l’acqua è quasi “il” simbolo per eccellenza, tanto da essere comune a tutte le forme religiose della storia, pur nelle varie accezioni. Invece è il diverso modo di rappresentarlo a dirne la novità. E che al centro ci siano tre protagoniste femminili, sembra suggerire la forza di questa ricerca incarnata in volti nuovi e tradizionalmente marginalizzati nelle religioni e nelle società.

“La lotta controil drago, la bestia, il serpente,…il male”

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

Quando ci troviamo davanti  immagini di draghi, bestie e serpenti, pensiamo alla fantasia fiabesca, ma se li vediamo in rappresentazioni di soggetti sacri ricerchiamo i riferimenti alle Scritture. Questi rimandano al libro dell’Apocalisse e alle varie citazioni presenti nell’Antico Testamento. Nell’Apocalisse infatti si parla di drago, di serpente e di Satana come della medesima “creatura”, identificata con il “drago rosso” e l’“antico serpente”, con una valenza altamente simbolica. Se nelle dottrine orientali il drago è considerato una divinità benefica, nella cultura occidentale, in particolare quella cristiana, è sinonimo di peccato ed è simbolo di Satana. Il drago appare nell’Apocalisse in vari momenti. Quando tenta di divorare il figlio alla donna vestita di sole (Ap. 12, 1-5): “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme dragorosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato”; nella sua lotta contro le schiere angeliche (Ap. 12, 7-9) “Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli”. E ancora lo troviamo nell’episodio della sua cattura (Ap. 20, 1-3) “Vidi poi un angelo che scendeva dal cielo con la chiave dell’Abisso e una gran catena in mano. Afferrò il dragone, il serpente antico cioè il diavolo, satana e lo incatenò per mille anni.”

Il drago è descritto con precisione nel capitolo 12 e si trova diffusamente rappresentato come tentatore – combattuto e vinto, ma mai eliminato definitivamente – in contesti differenti in tutta la storia dell’arte cristiana. Il combattimento è stato variamente interpretato dagli artisti, che hanno dato più o meno rilievo ai diversi particolari del racconto, a San Michele, ed è stato spesso raffigurato come immagine singola, con l’esaltazione del gesto che compie verso il drago. Quest’ultimo nel tempo è diventato uno degli attributi costanti del santo, oltre ad altri tra i quali il più ricorrente è la bilancia per accompagnare e pesare le anime dei defunti davanti a Dio il giorno del Giudizio universale. In un riquadro appartenente alla tavola del XIII secolo del maestro di Sorigueola, conservata al Museo Nazionale d’arte della Catalogna, San Michele, non ancora in vesti militari, è rappresentato da solo mentre combatte il drago e sullo sfondo le stelle:

 

 

Rappresentazione analoga si trova, nel XIV secolo, in una formella quadrilobata nella Cappella degli Scrovegni di Padova, dove però il rivoluzionario Giotto, lo ritrae a mezzo busto con ali dispiegate tra gli emicicli destro e sinistro degli archi dei lobi, saldo come una roccia, a puntare  una lancia sul drago, ora con sembianze umane, ridotto a un vago contorno, quasi un’ombra indistinta della cornice nelle parti basse della scena.

 

 

 

Nel riquadro centrale del Trittico di San Michele arcangelo del 1492, ora al Museo nazionale di Capodimonte, attribuito a Francesco Pagano, San Michele indossa un’armatura ed è con i piedi direttamente sul corpo del drago dell’Apocalisse, dalle fattezze semiumane, senza alcuna evidente espressione di azione violenta, con la lancia nella mano destra, contrastato dal drago/demonio che, con un gesto irriverente e curioso, sta emettendo contro San Michele un peto sbuffante tra la lunga coda serpentina attorcigliata alla sua gamba.

 

 

 

 

Un’altra scena del medesimo capitolo è raffigurata in modo sintetico in un affresco del XII secolo su uno dei due archi della volta del nartece dell’abbazia di Saint-Savin-sur-Gartempe. Giovanni seduto a sinistra vede il drago rosso in attesa che  nasca il bambino per divorarlo; l’angelo lo prende e lo porta al sicuro, mentre la donna per sfuggire al drago ha ali d’aquila, il fiume alla destra, inghiottito dalla terra dopo che il drago per vendicarsi lo vomita per annegare la donna.

 

 

 

 

La rappresentazione di Guido Reni nella tela del 1635 circa, nella Chiesa di Santa Maria della Concezione a Roma, coglie invece la possente visione di Giovanni del capitolo 20, il momento della cattura da parte di San Michele che, irrompendo vittorioso, con moto vigoroso della spada sollevata e brandita verso Satana, lo incatena e lo calpesta.

 

 

 

 

Mi pare anche interessante prendere in considerazione in che modo il capitolo 12 sia stato interpretato dagli artisti in un’unica scena. Nel dipinto del 1623-25, ora alla Alte Pinakothek di Monaco, Peter Paul Rubens, pittore fiammingo di fede calvinista convertitosi al cattolicesimo, raffigura “La vergine come la Donna dell’Apocalisse” con grandiosità scenica: una Donna con la luna sotto i piedi che schiaccia la testa di un serpente, riferimento a un altro testo biblico (Genesi 3, 14-15), con il neonato in braccio in procinto di essere “rapito” dal drago e alle spalle un angelo che le pone le due ali d’aquila, mentre San Michele con i suoi angeli, sguainando la spada all’ordine di Dio Padre, nella parte superiore del dipinto, si lancia in volo accompagnato dalla schiera degli altri suoi armati verso il drago, che avvolge con le sue spire gli angeli ribelli, ormai dai volti animaleschi.

 

 

 

 

Concludo con la citazione ancora tratta dall’Apocalisse (12,14): “Ma alla donna furono date le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per lei per esservi nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo lontano dal serpente”.

L’identità del “grande Drago”, del “serpente antico”, è un mistero incomprensibile, così come permane per noi umani, «l’incomprensibilità opaca della potenza del male», come ha scritto il teologo ed esegeta Ugo Vanni, uno dei più acuti studiosi dell’Apocalisse.

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  • In copertina: particolare dal Trittico di San Michele Arcangelo, Francesco Pagano (1492)