“Inception” , mito e religione tra i sogni

 

 

Scritto da DARIO COPPOLA.

 

Nel film Inception di Christopher Nolan, del 2010, vero protagonista è il sogno elevato a potenza. Inception è un termine che indica l’inizio, le origini. Dove sono qui celate le origini? Soltanto il ruolo di Miles (Michael Caine) pare essere riferito nella trama alla sola realtà. Difficile è capire dove tutto abbia origine, e cosa sia o non sia onirico.
La chiave di lettura per uscire da questo labirinto è preziosa e difficile da trovare giacché la trama è una selva oscura di sogni, una foresta di simboli. Tra essi anche riferimenti alla mitologia e alla religione, nonché alla Sacra Scrittura.

 

 

Procediamo per gradi. Intanto il nome della co-protagonista, interpretata da Ellen Page, è Arianna, un architetto, e questo personaggio ci proietta evidentemente nel labirinto di Cnosso: da lì cerchiamo di uscire anche noi seguendo il suo filo, così come fece Teseo, che per Nolan è Dom (Dominic) Cobb, interpretato da Leonardo Di Caprio. Proprio a Dom, il misterioso imprenditore Mister Saito (chi è davvero?) chiede letteralmente un atto di fede per non rimpiangere il passato e attendere la morte da solo.

 

 

L’innesto è il filo conduttore della trama che si dipana come un legame col mistero e solca la prima topica freudiana (conscio, preconscio, subconscio), spingendosi sino al limite fra mito e religione, del quale confine è espressione (o impressione) il Limbo (*) . Esso si rifà all’antico concetto ebraico di Sheol. Poi la teologia cattolica medievale denominò così l’anticamera dell’inferno stesso (Dante ne parla nel IV canto della prima cantica nella Commedia), ove per l’eternità sarebbero esiliate le anime dei giusti e dei bambini nati senza il battesimo. Si tratta di un concetto teologico nato con la prima Scolastica (dopo Pietro Lombardo), e sviluppatosi fino ad affermare che Cristo stesso sarebbe disceso nel Limbo, dopo la sua morte, per liberare le anime dei giusti dell’Antico Testamento. Se i francescani ubicavano il Limbo sotto la superficie leggermente illuminata della terra, i domenicani lo relegavano nel più profondo e buio sottosuolo. Nel libro di Giobbe (Gb 3, 9-12; 16-20), si parlava di un luogo che evoca il Limbo e, successivamente, la Sura II del Corano è dedicata proprio a questo luogo: Al’a-Rậf. Nel 2007 – tre anni prima dell’uscita del film – Benedetto XVI, riprendendo le sue precedenti dichiarazioni, affermò definitivamente la non esistenza del Limbo: la misericordia di Dio provvede alle anime che prima si pensavano nel Limbo.

 

 

La presenza/assenza dei bambini, i figli di Dom Cobb che egli non può vedere in volto sino alla fine evoca, oltre al Limbo, persino – pur rovesciato – il mito di Medea, nella figura di Mal (dal francese malheur, indica il male, il malessere), ossia la moglie di Dom, e madre dei suoi figli. Mal, interpretata da Marion Cotillard, è associata alla canzone Je ne regrette rien di Édith Piaf: la Cotillard interpretò proprio la mitica cantante nel film La Vie en rose (2007) di Olivier Dahan, e cantò anche le canzoni della Piaf in Chloé di Dennis Berry (1996) e Amami se hai coraggio di Yann Samuell (2003). Mal, prima di compiere il gesto estremo sul cornicione del palazzo nell’anniversario del loro matrimonio, reitera a Dom la richiesta di un atto di fede.

 

 

Parliamo però del ruolo del personaggio interpretato da Dileep Rao: egli veste i panni di un chimico di nome Yûsuf che Cobb chiama con sé. V’è, indubbiamente, un richiamo alla Sura XII del Corano, intitolata proprio Sura di Yûsuf, ossia di Giuseppe. Qual è il suo ruolo? L’interpretazione dei sogni, appunto. Giuseppe, che compare nel Corano, è proprio il figlio di Giacobbe, del quale parla il libro della Genesi (Gn 37-50).

Leggiamo in uno dei tanti blog specializzati nell’interpretazione di Inception (**)  quanto segue:

Nel film ricorre spesso il numero 528491, un numero primo composto dai numero 528 (la frequenza armonica della nota “mi”, considerata simbolo di “miracolo”) e 491 (il peccato imperdonabile, come quello di Cobb: la Bibbia dice infatti che “il Signore perdona settanta volte sette”, ovvero 490). 528-491 è il numero che Fischer dà a Cobb e Arthur; le stanze principali in cui si svolge l’azione nell’hotel sono la 528 e la 491; la combinazione della cassaforte è 52-84-91 […]

 

 

E ancora:

Se si fa attenzione ad osservare le mani di Cobb, si può individuare la sua fede di nozze all’anulare solamente nelle scene in cui il personaggio sta sognando.

 

 

Interessante – in termini soprattutto teologici – è questo riferimento alla fede nuziale, che richiama il già citato atto di fede, e al matrimonio.

I numerosi treni, che abbondano nel film di Nolan, simboleggiano l’arrivo dei sogni.
Sono, infine, presenti nel film i totem: sappiamo che essi costituiscono la primitiva ed elementare forma di ideologia religiosa, sin dal paleolitico, nella fase che precede l’avvento del feticismo ove, a differenza del totemismo, v’è l’adorazione di un dio.

 

 

La trottola è il totem di Dom (oltre all’alfiere d’oro di Arianna e al dado di Arthur) che annuncia il risveglio e la presa di coscienza della realtà, prima che i sogni riaffiorino, ancora e infinitamente. Interpretarli e cercarvi una spiegazione è arduo come fermare l’acqua sul bagnasciuga.
Tuttavia, abbiamo trovato qui elementi sufficienti per non spoilerare ma, certamente, per dire solo ai pochi che non avessero ancora visto Inception, che si tratta, ancora una volta, in un turbinante giro vorticoso di una riscrittura della Scrittura.

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  • (*) Sul Limbo :

La Scimmia Pensa.com   Inception, Spiegazione del film di Christopher Nolan (24.01.2020), in https://www.lascimmiapensa.com/2020/01/24/inception-spiegazione-nolan/

Donini A., Enciclopedia delle religioni, Teti, Milano  1977, 261.

Ratzinger J., Rapporto sulla fede, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, 154-155.

Cfr. Commissione Teologica Internazionale, La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo, LEV, Città del Vaticano 2007.

 

 

 

Le firme di Scrittori Di Scrittura al Salone del libro di Torino 2021

 

Molti ci hanno chiesto se e come fosse possibile incrociare gli Autori dei libri della nostra collana nel corso della kermesse libraria di Torino, che si apre in questi giorni. Volentieri diamo le indicazioni di massima sulla loro presenza ai vari appuntamenti. Precisiamo che le informazioni sono tratte dal programma ufficiale del salone, consultabile qui:

https://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4

Per ogni autore presente, forniamo il link ove si possono reperire le indicazioni sui vari incontri.

MARGHERITA OGGEROhttps://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4&search=MARGHERITA%20OGGERO

GIAN LUCA FAVETTO  https://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4&search=GIAN%20LUCA%20FAVETTO

ELENA LOEWENTHAL  https://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4&search=elena%20loewenthal

GIANLUIGI RICUPERATI  https://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4&search=gianluigi%20ricuperati

ELENA VARVELLO https://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4&search=elena%20varvello

DAVIDE LONGO  https://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4&search=davide%20longo

PAOLO DI PAOLO  https://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4&search=PAOLO%20DI%20PAOLO

CHRISTIAN RAIMO https://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4&search=CHRISTIAN%20RAIMO

BRUNO GAMBAROTTA https://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4&search=BRUNO%20GAMBAROTTA

GIUSEPPE CULICCHIA https://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4&search=GIUSEPPE%20CULICCHIA

ALESSANDRO ZACCURI https://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4&search=ALESSANDRO%20ZACCURI

IGIABA SCEGO https://www.salonelibro.it/programma.html?filters[programs]=4&search=IGIABA%20SCEGO

Il Fuoco purgatorio

Scritto da NORMA ALESSIO.

 

Qual è il destino degli uomini nel momento che intercorre tra la morte e il Giudizio finale? Qual è la sorte delle anime dei defunti, costrette ad attendere la resurrezione finale? Queste sono domande che i cristiani si pongono da sempre. Il tema dell’aldilà ispirò, oltre a una rilevante letteratura, anche una ricca iconografia dovuta alla fantasia creativa degli artisti, da quelli medioevali in poi, che riguardava il Giudizio Universale o Finale (vedi https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/il-giudizio-finale) in cui appaiono l’Inferno, per i peccatori dannati e il Paradiso per i buoni beati.

E i peccatori pentiti dove si trovano? Se le immagini, attraverso i dipinti, dell’Inferno e del Paradiso, interpretano passi della Scrittura, il terzo luogo dell’aldilà, il Purgatorio, sembra non avere riferimenti nelle scritture.Tuttavia qualche studioso ha ritenuto di trovare un richiamo ai luoghi dell’aldilà nel versetto 2 del capitolo 14 del Vangelo di Giovanni in cui «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore» e nella prima lettera di San Paolo ai Corinzi (3,11-15) in cui si evoca il fuoco, «(…) l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà la ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco invece sarà consumata dal fuoco, ne avrà danno, però si salverà, ma come attraverso il fuoco», e ancora in Malachia (3,3): «Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai.Siederà per fondere e purificare; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’oblazione secondo giustizia».

Questo terzo luogo, di “passaggio” per andare in Paradiso, comparve in un testo ufficiale del secondo concilio di Lione (1274) e approfondito dai concili di Firenze (1439) e in quello di Trento (1563) e fu concepito come un fuoco in cui le anime sono immerse, così che talvolta viene confuso nelle opere d’arte con quello infernale soprattutto quando è all’interno del tema del Giudizio finale. In tutti i Giudizi affrescati su un’unica parete normalmente si ritrova la divisione netta della scena in due spazi: l’Inferno a sinistra e il Paradiso a destra, nel mezzo la transizione del Purgatorio (quando è presente). I peccati da cui le anime del Purgatorio devono purificarsi sono i sette vizi capitali e nei dipinti del Giudizio Finale ritroviamo le immagini che li rappresentano: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria. Con la scrittura della Commedia nel XIV secolo, Dante Alighieri descrive in modo dettagliato i tre luoghi dell’aldilà rendendoli “immaginabili” e “rappresentabili”, così che gli artisti trovarono spunti per le loro raffigurazioni.

 

Vediamo ora di riconoscere il Purgatorio all’interno dell’enorme Giudizio Universale della controfacciata della Chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino (PE) affrescato da un artista ignoto verso la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento. L’interpretazione data ha influenze orientali, soprattutto nel cosiddetto “ponte del Capello”. Essa raffigura, al di sopra di un fiume di pece, un ponte che si restringe al centro fino a diventare sottile come un capello; solo poche anime che lo attraversano riescono a superare la prova e a passare dall’altra parte dove le accoglie un angelo addetto a condurle al Paradiso o all’Inferno: ma c’è chi barcolla sotto il peso della colpa, scivola, cade ed è trascinato via dai gorghi del fiume infernale. A poca distanza dal ponte attende le anime S. Michele, intento alla loro “pesatura”. Sarà questo il ponte Purgatorio?

 

 

 

Diversa è la rappresentazione del Giudizio Universale di Bartolomeo di Tommaso da Foligno dipinto intorno al 1450 su richiesta della famiglia Paradisi nella Cappella omonima, della chiesa di San Francesco a Foligno. Qui il Giudizio è distribuito sulle tre pareti: la centrale reca le immagini del Giudizio Universale e il Paradiso; la parete di destra l’Inferno e specularmente a sinistra il Purgatorio e il Limbo. In questo modo sono distinguibili i diversi mondi dell’aldilà. Il Purgatorio è strutturato come l’Inferno in un sistema ipogeo di caverne sovrapposte, brulicanti di peccatori. Si riconoscono dalle scritte le prigioni che ospitano gli accidiosi, i vanagloriosi, gli avari, gli iracondi e i lussuriosi, il cui atteggiamento – rispetto ai dannati dell’Inferno –  non è la disperazione. Qui non vi sono  diavoli torturatori, ma angeli che si lanciano sulle anime per aiutarle a uscire dagli avelli del Purgatorio e raggiungere la visione di Dio dopo la purificazione e l’espiazione dei peccati.

 

 

 

 

A Gris, comune di Bicinicco (UD), nella chiesa di Sant’Andrea, il Purgatorio (in basso, a sinistra), è parte di un Giudizio Universale affrescato da Gaspare Negro e il figlio Arsenio tra il 1531 e il 1534, immaginato come una grande cisterna di marmo bianco che contiene una gran folla di corpi nudi che si purificano tra le fiamme. I purganti espiano la loro colpa con gli occhi rivolti al cielo, nella speranza di un intervento divino che metta infine termine alle loro sofferenze.

 

 

 

 

Dal XVII secolo numerosi sono i dipinti che raffigurano solamente il Purgatorio, ora incentrato sulla liberazione delle anime a seguito di preghiere per i morti, così come sostenuto nel periodo della Controriforma, e compaiono alcuni santi quali intercessori presso la Trinità. Nelle opere ritroviamo sempre più le anime tra le fiamme e i simboli di morte. In alcuni casi viene inserito Gregorio Magno che celebra la messa (una delle trenta messe ininterrotte cosiddette gregoriane) a suffragio dei defunti, pratica particolarmente diffusa nel Medioevo. A Tournai, in Belgio, nella cappella di San Luigi della cattedrale di Notre – Dame, nel dipinto dell’artista fiammingo Peter Paul Rubens del 1636, gli angeli scendono dal Cielo e sollevano dalle fiamme i purganti che hanno terminato il periodo della pena facendoli salire fino a Dio Padre, al figlio Gesù e allo Spirito Santo per l’intercessione di Maria e Giovanni Battista.

 

 

 

 

A San Lorenzo di Sebato (BZ), nella cinquecentesca cappella funebre Egerer della chiesa parrocchiale, sull’altare oltre, a una pala raffigurante il Paradiso, la Trinità, gli angeli, gli apostoli e i beati, con in basso l’Inferno, vi è un complesso gruppo di statue settecentesche con le allegorie del Tempo e della Morte, due personaggi vestiti di nero in ginocchio e, soprattutto, un riferimento chiaro al Purgatorio: delle statue a mezzobusto di corpi sofferenti in catene tra le fiamme del fuoco purificatore, che esprimono una tensione verso la futura liberazione. Chiuso in una nicchia protetta da una grata vi è anche un secondo gruppo scultoreo di anime purganti in gesti di preghiera che si rivolge al cielo e invita i vivi alle diverse forme di suffragio per affrettare i tempi dell’espiazione, come un carcere in cui i prigionieri attendono la loro liberazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

La dimensione della salvezza delle anime viene completata anche con la costruzione di chiese, soprattutto al centro e sud Italia, da parte di confraternite con denominazioni riferite al Purgatorio. E’ il caso di  quella del Purgatorio Nuovo di Matera (il corpo principale progettato dall’ingegner Giuseppe FANTONE, 1726-1747), sulla cui imponente facciata convessa, realizzata da Vitantonio Buonvino e Bartolomeo Martemucci, vi sono rilievi con numerosi richiami allo stato delle anime in grazia che devono espiare: la lunetta con le fiamme di fuoco e un corpo emergente, un’anima dannata tra due scheletri di cui uno con la falce, allegoria della morte; i teschi diffusi sul portale ligneo in 36 riquadri che rappresentano prelati, regnanti e popolani ordinati; due nicchie con, da un lato, le sculture di San Michele Arcangelo che impugna la spada per debellare il peccato e dall’altro l’arcangelo Raffaele. Nella parte superiore sono visibili angeli e ancora penitenti avvolti nelle fiamme mentre al centro è presente una Madonna con bambino.

 

 

 

 

 

 

 

 

TESTIMONIAL

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

 

 

 

L’uso di ricorrere all’autorità di un personaggio famoso per promuovere un prodotto o un programma è una prassi abbastanza diffusa nell’ambiente pubblicitario. Vedere un volto conosciuto è rassicurante: c’è qualcuno accreditato presso il pubblico che ci mette la faccia, vuoi mica che sia una schifezza? Una variante in ambito letterario è la prefazione scritta da un nome di grido, una santa raccomandazione che dovrebbe convincere anche i più scettici ad accettare ciò che si trova nelle pagine successive. La Scrittura conosce un fenomeno simile con l’attribuzione di un determinato libro ad un personaggio che è già noto per vicende estranee al libro stesso. Così abbiamo nell’Antico Testamento un certo numero di testi che sono attribuiti al celebre re Salomone ma che è impossibile che risalgano a lui per ovvie considerazioni cronologiche. Salomone visse alla metà del X secolo a.C., mentre il libro della Sapienza che si presenta come sua creazione è di quasi mille anni più tardo e quello di Qoelet, “re d’Israele in Gerusalemme”, non può risalire oltre il III secolo a.C. Tecnicamente questi volumi sono chiamati “pseudepigrafi”, perché l’attribuzione della loro paternità si rivela falsa. E in alcuni casi non è facile da stabilire, perciò siamo in dubbio se l’autore della prima lettera di Pietro sia davvero il principe degli apostoli, mentre nel caso della seconda lettera di Pietro, databile all’inizio del II secolo d.C. la questione non si pone proprio.

 

 

L’uso di un’attribuzione fittizia è molto comune in quei testi che noi indichiamo come “apocrifi”, cioè libri che non sono entrati nel canone delle Scritture sacre. Lì è ancora più chiaro che la scelta di un nome di grido costituiva l’escamotage per avvalorarsi davanti ad un pubblico scettico.

 

 

Nel caso poi dell’Apocalisse ci troviamo di fronte ad un caso molto particolare. Il genere letterario unico all’interno del Nuovo Testamento rendeva il libro parecchio sospetto, perciò l’autore deve spesso ricorrere alla garanzia costituita dalla sua persona. Ma per farlo adopera una certa discrezione perché si presenta semplicemente con il suo nome, Giovanni. Se avesse voluto davvero impressionarci, avrebbe dovuto dirci: “Sono quello che ha scritto il Quarto Vangelo!”, oppure: “Sono uno dei dodici apostoli”. Perciò è apprezzabile che l’autore faccia leva sulla credibilità del contenuto delle sue visioni e sul suo ruolo di profeta piuttosto che esibire un curriculum da scrittore di grido. Il problema, però, si ripresenterà successivamente, quando il tenore delle sue rivelazioni si presterà a molte critiche e si renderà necessario assicurarne il loro perenne valore. Ne abbiamo una curiosa risonanza in un capolavoro artistico medievale, l’arazzo dell’Apocalisse di Angers. In questa impressionante sequenza di pannelli che ritraggono scene tratte dall’ultimo libro della Bibbia, compare quasi sempre il personaggio di Giovanni, anche laddove di per sé il testo sacro non lo menziona. Che senso ha, quindi, la sua presenza? In un certo modo funziona anche qui da testimonial, cioè sta lì a ricordarci che la veridicità di ciò che gli artisti hanno raffigurato sull’arazzo riposa in definitiva sulle visioni di un uomo di Dio e non sulla semplice immaginazione umana.

 

 

Al tempo stesso, poi, il testimonial ci invita a vedere le scene rappresentate dal suo stesso punto di vista, così che lo spettatore sia coinvolto nel dramma raccontato non come elemento estraneo ma come protagonista che si lascia trasformare da quanto sta osservando.

 

 

Se c’è Dio ci sono anch’io

Scritto da  DARIO O. COPPOLA.

 

“Beati sono i santi,

i cavalieri e i fanti.

Beati i vivi e i morti

ma soprattutto i risorti.

Beati sono i ricchi

perché hanno il mondo in mano

Beati i potenti e i re,

beato chi è sovrano.

Beati i bulli di quartiere

perché non sanno quello che fanno

e i parlamentari ladri

che sicuramente lo sanno.

Beata è la guerra,

chi la fa e chi la decanta

Ma più beata ancora è

la guerra quando è santa.

Beati i bambini

che sorridono alla mamma,

beati gli stranieri

ed i soufflé di panna.

Beati sono i frati,

beate anche le suore.

Beati i premiati

con le medaglie d’oro.

Beati i professori,

beati gli arrivisti,

I nobili e i padroni

specie se comunisti.

Beata la frontiera,

beata la Finanza

Beata è la fiera

e ogni circostanza.

Beata la mia prima donna

che mi ha preso ancora vergine

Beato il sesso libero,

(se entro un certo margine).

[Beati i sottosegretari e i sottufficiali]

Beati i sottoaceti

che ti preparano al cenone,

Beati i critici e gli esegeti

di questa mia canzone.

(Le beatitudini)

 

 

Ho appreso, in una conversazione con un mio caro amico di Como, che prevale tra alcuni fans di Rino Gaetano la tendenza a voler eliminare il significato spirituale delle sue beatitudini: qualcuno ha proprio asserito che queste beatitudini di Rino non abbiano nulla a che fare col discorso della montagna. Ma è proprio così?

Chiariamo allora subito alcuni dettagli:

1) il testo delle beatitudini di Rino Gaetano è ispirato certamente dal vangelo secondo Matteo e non da quello di Luca. Matteo fa parlare il Cristo in terza persona plurale riferendosi agli astanti; Luca, invece, fa parlare Cristo più direttamente, in seconda persona plurale (Beati voi) e aggiunge anche le cosiddette maledizioni (Guai a voi). Perciò, se il problema è il riferimento al discorso della montagna (quello di Matteo) o al discorso della pianura (quello di Luca), non v’è dubbio: Rino si riferisce a Matteo.

 

2) Nel testo di Luca i riferimenti alla povertà sono certamente più materiali e concreti: si tratta di una povertà economica (la si associa proprio solo alla fame) mentre Matteo dice: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia» (Mt 5 ,6 ) riferendosi non  solo agli affamati; infatti, all’inizio, Matteo dice: «Beati i poveri in spirito»  (Mt 5, 3), mentre Luca dice «Beati voi, poveri» (Lc 6, 20) e «Beati voi che avete fame» (Lc 6, 21). In questo senso, Rino allarga il suo riferimento a tutte le categorie sociali, non certamente solo considerando la povertà economica. E parla pure di guerra, come anche Matteo: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5, 9).

 

3) Rino scrive un testo ironico. Cosa significa? Parla al contrario! Il termine εἰρωνεία (ironia) indica proprio la dissimulazione di chi afferma il contrario! Cioè come quando esclamiamo che è una bella giornata ma fuori diluvia (l’ironia non è riducibile allo scherzo tout court, come purtroppo molti pensano). Perciò se Rino dice beati, egli intende il contrario. Oppure se dice che beati sono coloro che fanno la guerra egli intende proprio che beati sono gli operatori di pace: tema tipico del discorso della montagna, come detto sopra. Nella sua ironia, dunque, i “beati” di Rino stanno sulla terra e sguazzano (incuranti della giustizia  terrena e divina) nel benessere, non nella precarietà. Perciò il cantautore sta sferzando criticamente, con l’ironico termine beati coloro che abusano del loro potere e della propria situazione sociale dominando sugli altri: questo è molto vicino allo spirito del discorso della montagna. Forse, l’unica cosa che manca in queste beatitudini è la speranza in una vita migliore sia nell’al-di-qua sia nell’al-di-là… Ma come facciamo a dirlo, con certezza? Vedremo, per questo, altri testi di Rino…

 

4) Se egli non avesse voluto riferirsi a Cristo stesso, e a quel discorso di Matteo, non avrebbe scelto quel titolo (Le beatitudini) e quel brano molto allusivo al discorso della montagna. Avrebbe potuto scegliere mille altri riferimenti a testi già scritti. Rino, però, è stato indubbiamente colpito dal testo che ha scelto. Questo era già avvenuto con Pasolini e De Gregori, come abbiamo già avuto modo di vedere.

Le Beatitudini di Matteo sono il manifesto del Regno dei cieli, mentre quelle di Rino Gaetano sono il manifesto dei vari e inquieti regni, regnanti e servi della gleba, in cerca della pace mai trovata.

Le suggestioni spirituali, il tono profetico, lo sguardo distaccato dalla realtà, l’amore per le donne e per la vita… sono i temi fondamentali del cantautore calabrese.

Rino ha colto in modo chiaro alla fine degli anni settanta, purtroppo solo affacciandosi sugli anni ottanta, i temi che ancora ci avrebbero visti a discutere, con una differenza: la sua epoca conobbe maggiormente, rispetto a oggi, il sapore della libertà di espressione e dell’innovazione. E i suoi testi cambiarono le mentalità passatiste, tanto da rimanere ancora attuali e, anzi, troppo scomodi ai perbenisti e ai potenti:

Beati sono i ricchi perché hanno il/ mondo in mano./ Beati i potenti e i re e beato chi è/ sovrano./ Beati i bulli di quartiere perché non/ sanno ciò che fanno./ Ed i parlamentari ladri che sicuramente lo sanno./ Beata la guerra, chi la fa e chi la/ decanta.

L’ironia può riferirsi forse alla critica di Platone a Omero – non dimentichiamoci che Rino nacque e visse gran parte della sua breve vita nella Magna Grecia, e soprattutto amò quella terra e la sua gente… – ma è indubbia l’attualità di questi versi, che, senza averle viste, sembrano alludere a certe guerre di oggi, oltre che a quelle di ieri…

Ma più beata ancora è la guerra/ quando è santa./ Beati i bambini che sorridono alla/ mamma./ Beati gli stranieri ed i soufflé di/ panna./ Beati sono i frati, beate anche le/ suore/. Beati i premiati con le medaglie/ d’oro./ Beati i professori, beati gli arrivisti, i nobili e i padroni specie se/ comunisti./ Beata la frontiera, beata la finanza/ beata è la fiera ad ogni circostanza./ Beata la mia prima donna che mi ha/ preso ancora vergine./ Beato il sesso libero sì ma entro un/ certo margine./ Beati i sottosegretari, i sottufficiali. / Beati i sottaceti che ti preparano al/ cenone./ Beati i critici e gli esegeti di questa/ mia canzone.

L’ultimo riferimento raggiunge anche noi che scriviamo, come già faceva l’ironia di Cervantes.

Rino seppe amare molto, tanto da raggiungere ancora le ultime generazioni con questa sua passione; ha sempre amato e cantato, anche utilizzando temi mitologici, le donne: da Berta a Maria, da Lucia a Mary, da Marianna ad Aida, da Jaqueline a Gianna. Tutto questo, anticipando una concezione libera dell’amore:

Ma la notte, la festa è finita/ evviva la vita/ la gente si sveste/ comincia un mondo/ un mondo diverso/ ma fatto di sesso:/ chi vivrà vedrà.

(da Gianna).

Non è una visione solo materialista, come superficialmente potrebbe apparire. C’è molta spiritualità… c’è una forza nascosta che nel pensiero di Rino Gaetano si muove per produrre immagini, che ancora ci stupiscono per l’intelligenza anticipatrice e la serenità equilibrata, che scaturiva talora dalla difficile accettazione del dolore personale (Visto che mi vuoi lasciare), talora dalla lotta continua al fianco degli oppressi (Metà Africa, metà Europa), e dal conseguente superamento critico dei problemi sociali, per i quali Rino si è battuto e impegnato come impareggiabile aedo.

“Visto che posseggo/ un panino/ un’aranciata/ ed ho una donna in/ testa/ sia beninteso che/ per pochi intimi/ stasera io darò/ una festa/ e tu che Dio ti/ benedica/ non portarti appresso/ la tua amica/ ma vieni da sola/ perché da solo con/ te grazie a Dio grazie a/ te […] e dopo un poco ci/ provo e va tutto/ okey/ grazie a Dio grazie a lei”.

(da Grazie a Dio, grazie a te).

Il tema della festa, già a partire dalla musica orecchiabile e popolare, è molto presente nei testi di Rino, come in una vera liturgia, e supera il momento del dolore con l’amore per la vita nella sempre ironica, perciò efficace, lotta per la vera pace.

“Mi alzo al mattino con una nuova illusione,/ prendo il 109 per la rivoluzione […] io cerco il rock’n’roll al bar e nei metrò,/ cerco una bandiera diversa senza sangue sempre tersa/ Ma ci ripenso però, mi guardo intorno per un po’/ e mi accorgo che son solo,/ in fondo è bello però […] in fondo è bella però è la mia guerra e io ci sto”.

(da E io ci sto)

Sembra di rivedere il fanciullo, emblema dell’oltreuomo che Nietzsche descrive in La Gaia Scienza, nella sua serena accettazione dell’eterno ritorno, simboleggiata dal mordere il serpente uroborico. Rino aveva accettato, fedele a questa terra, i suoi dolori e le sue gioie e ha saputo comunicarcelo:

Insieme a te vivo il mio momento strano/ mi mordo una mano mi sento divino/ divento un bambino insieme a te/ mi compro un turbante e mi invento un’amante/ ma solo con io solo con io/ solo con io […]”.

(da Solo con io)

Sapeva e sa ancora comunicare continuando a farci cantare Ma il cielo è sempre più blu.

E, inequivocabilmente, ascoltiamo – non senza un brivido –  cosa ci dice qui Rino:

[…] sempre il gioco è la vita mia/ che poi finirà/ ma se c’è Dio ci sono anch’io/ buon Dio lo sai/ e c’è Dio di notte ti sento ci/ sei […] e c’è Dio di notte ti sento ti/ voglio ci sei.

(da Ma se c’è Dio)

Non è bastato un incidente, quel giugno del 1981, a far tacere la sua voce e a far cessare quello che di materiale e di spirituale ancora Rino ci dice.

LA VERITÀ SECONDO IL FIGLIO

Scritto da  MARIA NISII.

 

Il Vangelo di Marco, che non oserei definire falso, è tuttavia esagerato. E andrei ancor più cauto per quelli di Matteo, Luca e Giovanni, che mi hanno attribuito parole che non ho mai pronunciato e mi hanno descritto come mite anche quando ero pallido di rabbia. Le loro narrazioni sono state scritte molti anni dopo la mia dipartita e si limitano a ripetere quanto era stato raccontato loro da uomini anziani. Molto anziani […] Darò quindi la mia versione […] vera, perlomeno per quanto io possa ricordare (Norman Mailer, Il vangelo secondo il figlio, 1997, pp. 9-10).

 

Un incipit alquanto pretenzioso quello del «vangelo» secondo Mailer, autore americano di fama, ebreo di nascita, vincitore di due Pulitzer, regista di alcuni film, oltre a varie altre iniziative culturali a cui è legato il suo nome. La notorietà deve avergli fornito la giusta tracotanza per affrontare una riscrittura evangelica autenticata dal suo protagonista assoluto, al quale affida la narrazione in prima persona perché offra la sua verità screditando di conseguenza le fonti canoniche, interessate solo ad «accrescere il gregge». A questa pubblicazione Mailer offre una spiegazione: «è successo che ho riletto il Vangelo per la prima volta in cinquant’anni… E leggendo quel Vangelo [di Giovanni] prima e poi gli altri ho pensato che sì, c’erano alcuni passaggi bellissimi, ma che nel resto del libro, a chi lo legge con occhio critico, la narrazione risulta pedestre, mal scritta» (intervista di I. Bignardi su La Repubblica, 15 novembre 1997). Vediamo allora come l’autore abbia lavorato per migliorare quelle parti tanto mal scritte.

La versione autenticata fornitaci da Mailer rivela alcuni dati ignoti, quali il lavoro da apprendista nella bottega di Giuseppe («marito di mia madre», p. 12) o l’appartenenza della famiglia di Gesù agli esseni, «i più rigorosi dei Giudei nell’adorare un solo Dio, e i più sprezzanti nei confronti delle religioni dei Romani, con tutte le loro divinità» (p. 11), una necessità narrativa tesa naturalmente a spiegare il celibato di Gesù: «era raro che ci sposassimo […] mi era stato insegnato a non aver nulla a che fare con le donne […] Rispettare questa regola era legge, anche se la guerra era destinata a durare per tutta la vita» (p. 12).

 

George De La Tour, San Giuseppe falegname

 

«Saresti un buon falegname, se Dio avesse voluto che tu facessi questo mestiere» (p. 13), gli dice un giorno Giuseppe senza ulteriori spiegazioni. Gesù le aveva ricevute tempo addietro, ma nel frattempo le aveva perdute relegandole nell’oblio dell’infanzia: quando aveva dodici anni e con la sua famiglia tornava da Gerusalemme, Giuseppe gli aveva riferito la storia della sua nascita, ma per l’emozione il giovane Gesù ebbe un attacco di febbre e negli anni ha rimosso quel racconto fino alla morte dell’uomo che aveva creduto essere suo padre.

Degli anni della vita privata e ignota si racconta la frequentazione della scuola ebraica iniziata prima dei cinque anni, dai tredici il lavoro da apprendista garzone nella bottega di Giuseppe e dai venti l’attività di mastro carpentiere. Quest’ultima fase si conclude alla morte di Giuseppe, quando Gesù ricorda di avere un altro padre e per comprendere il da farsi sceglie di recarsi in pellegrinaggio dal cugino Giovanni il Battista, sebbene non lo conosca al di là dei racconti familiari e della fama di profeta che l’uomo si è fatta: «la prima volta ch’io lo vidi in volto, avrei voluto velare il mio. Giacché avevo capito che non sarebbe rimasto a lungo con noi» (p. 28). Di fronte al rigore del battezzatore, Gesù sente il bisogno di confessarsi, per quanto i suoi peccati siano ai suoi stessi occhi irrisori: «Scavai in me alla ricerca del male, e trovai solo il ricordo di qualche scortesia verso mia madre e qualche lotta notturna contro i cattivi pensieri. E forse talvolta ero stato poco tenero nel giudicare gli altri» (p. 29). Il battesimo è descritto come un racconto di vocazione profetica, richiamando le parole rivolte a Geremia ed Ezechiele. Ma Dio aggiunge che lui, in quanto suo Figlio, sarà più potente di qualsiasi profeta: Gesù ne è intimorito perché ha dentro di sé le immagini del Dio delle Scritture.

 

Gesù di Nazareth, di F. Zeffirelli

 

Invitato a recarsi nel deserto per comprendere il proprio compito, si accorge di essere protetto e insieme sottoposto a prova. Dio gli mette di fronte i peccati di Salomone e gli chiede di tenersi lontano dalle donne e da ogni ricchezza. Nelle notti di digiuno si sente in compagnia dei profeti biblici finché non arriva l’atteso visitatore. Bello e riccamente vestito, il diavolo strappa a Gesù un moto di ammirazione: «è la più bella creatura mai fatta da Dio» (p. 38). L’incontro si protrae ben oltre il racconto evangelico e l’infido tentatore si rivela notevole retore e lascivio seduttore, arguto argomentatore delle Scritture e antico conoscitore del Creatore che non teme di criticare. Gesù ne esce sfinito, ma altresì incerto di esser sfuggito del tutto alle tentazioni.

Secondo una cronologia traballante e non sempre giustificabile neppure dal punto di vista narrativo, gli episodi evangelici vengono “riordinati” dall’autore laddove sembrano meglio funzionare. Così al ritorno a Nazareth Gesù scopre che Giovanni è stato imprigionato a Macheronte e che di conseguenza è giunta la sua ora per proseguirne la predicazione. La madre invece preferirebbe che lui si unisse alla comunità essenica di Qumran, in quanto teme per la sua incolumità e non lo ritiene ancora pronto ad affrontare la vita nel mondo. Questi suoi presagi turbano il figlio, mentre giunge l’invito a un matrimonio da gente di Cana, dove Gesù mette alla prova i suoi nuovi poteri: «sul tavolo c’era un acino d’uva nera, ch’io mangiai lentamente, immerso nella contemplazione dello Spirito che in esso albergava. Sentii un angelo al mio fianco: dico davvero. In quell’istante, l’acqua delle idrie divenne vino. Sapevo che sarebbe successo. Mi erano bastati il limpido sapore di un acino e la presenza di un angelo» (p. 49). Quell’evento lo rassicura sulla tenerezza del Padre e sulla bellezza del Regno di Dio. E l’indomani lascia casa e famiglia.

 

Marco d’Oggiorno, Nozze di Cana (1520)

 

Sulla strada di Cafarnao, preso dai dubbi, cade malamente salvo scoprire che è stato il Padre a spingerlo. Gesù tenta di sottrarsi al compito con le stesse giustificazioni che altri prima di lui avevano adottato e ancora una volta Dio lo invita a non preoccuparsi. Senza sapere come e perché, chiama a seguirlo due pescatori che trova sul Mar di Galilea e lo sguardo d’intesa che riceve in cambio gli fa pensare di aver ricevuto «facoltà diaboliche»: «avevo imparato a parlare alla maniera di Satana. Sapevo rivolgermi agli sconosciuti con la massima cortesia e con quella gioiosa confidenza di chi sente di avere con l’altro un’intesa fondata su molte cose mai espresse a parole» (p. 54). Per allinearsi alla versione canonica il racconto rischia spesso il ridicolo: «Simone sarebbe diventato la mia pietra. Così avevo deciso. Ben presto cominciai a chiamarlo Simon Pietro, poiché Pietro, oltre a derivare dalla parola con cui i Romani indicano la roccia, suona anche bene. E Pietro sarebbe stata la mia roccia in tutte le occasioni, tranne una» (p. 54). L’autorità con cui parla è poi superiore a scribi e farisei in quanto se gli altri leggono i rotoli con voce fievole e lamentosa, lui invece predica con voce tonante che li sovrasta.

Gesù racconta in uno stato di quasi esaltazione la facilità con cui guarisce i molti che ormai si recano da lui, ma Pietro lo avvisa: «La gente adesso ti cerca e temo che saranno in molti. Ti avverto: sono curiosi. Vogliono assister a miracoli. Ma questo ti darà il potere di cambiare le loro anime?» (p. 57). Secondo Ferdinando Castelli, questo Gesù che fa miracoli “dà l’impressione di essere un pover’uomo in cui, di tanto in tanto, si riversa la potenza di Dio” (Gesù insonnia del mondo, p. 68). Quale verità è questa millantata da Mailer?

Il romanzo si fa anche leggere, ma certo non convince. Risulta fuori luogo, ad esempio, far notare come la figlia di Giairo appena riportata in vita, non sembri molto contenta di trovarsi ancora lì. Intuizione dalla quale Gesù deduce il matrimonio infelice dei genitori e l’ambiente malsano in cui la giovinetta avrebbe vissuto. Il costante riferimento ai testi canonici non esclude naturalmente qualche impavida rimostranza: «coloro che dovevano diventare i miei scribi, e in particolare Matteo nel suo Vangelo, avrebbero parlato del mio Discorso della Montagna. Mi hanno fatto dire cose d’ogni genere, alcune in contraddizione con altre. Matteo ha messo insieme tanti detti da far pensare ch’io abbia parlato senza posa per un giorno e una notte, articolando le parole con due bocche che si ignoravano a vicenda. Posso solo riferire ciò che so: volevo comunicare a tutti loro la mia conoscenza di Dio» (p. 84). Come ci si potrebbe attendere poi non mancano le accuse ai farisei i quali, ridotti al rispetto rigoroso del precetto, diventano semplici bigotti. Con loro Gesù prova una furia che gli toglie il fiato e un avvilimento dello spirito che paragona a quello che doveva aver sperimentato Mosè nel deserto di fronte alle continue mormorazioni del popolo.

La narrazione banalizza, come spesso capita in questo genere di tentativi. Così se un giorno a Cesarea di Filippo Gesù chiede ai suoi che cosa pensi la gente di sé è perché lui stesso al mattino, svegliandosi, non sa più chi sia. Le predizioni della passione sono quindi il frutto di un sogno tormentato e la reazione dei discepoli un segno che «l’oscurità confina con l’esaltazione». Il frequente spostamento di contesto dei detti evangelici poi non è semplicemente fonte di disorientamento, che al limite potrebbe anche essere giustificato dalla struttura narrativa. Invece è la semplificazione di cui sono oggetto a ridicolizzarli. È il caso della parabola della pecorella smarrita, che serve a convincere gli undici ad attendere Levi che si è attardato a bere con gente dei quartieri bassi. Pietro però interviene sostenendo che nella realtà nessun pastore si comporterebbe in quel modo, rischiando le tante per l’una. Le parabole sono peraltro così giustificate: «La capacità di risolvere un indovinello ci faceva sentire pervasi dallo Spirito divino» (p. 100).

 

Statuetta di pastore crioforo

 

Inutile proseguire con la resa del racconto, che procede maldestramente fino a Gerusalemme, alla passione e morte, resurrezione compresa: «È proprio vero che al terzo giorno sono resuscitato. I miei discepoli però hanno infarcito di favole i loro resoconti». Non è improbabile che anche Mailer sia stato imbarazzato dalla quadruplice versione canonica, non ultimo di una lunga serie. Le varianti evangeliche sarebbero quindi “favole” e “tentazioni sataniche”, che la sua “verità” rimetterebbe al giusto posto. Ma non pago di questo, dopo aver bacchettato gli evangelisti, prosegue con la storia del cristianesimo, dando conto di chiese ricche e culti alla madre la quale ora è finalmente soddisfatta del figlio. Il Padre invece è sempre in lotta con il diavolo e le guerre sarebbero il frutto delle sue battaglie perse.

Una ben triste “verità” questa di Mailer, una versione di cui avremmo fatto volentieri a meno, come tante altre di cui cerchiamo di dar conto. Quando si può, si cerca di salvare qualcosa, ma qui non si saprebbe da dove cominciare: non utile a suggerire una critica costruttiva all’evangelizzazione o a fornire spunti di dialogo o magari appagare il lettore per le brillanti intuizioni narrative. Che ci si possa fregiare della parola “verità” per proporre una tale assurda accozzaglia di banalità fa venire i brividi. Verità è una parola delicata, da usare con parsimonia, timore e tremore.

Chi vanta la verità – ci ha allertato George Orwell – è suo primo manipolatore. Nel mondo distopico di 1984 infatti il Ministero della Verità si occupa di gestire la “riscrittura” di articoli e notizie perché siano conformi alla versione ufficiale. Il passato viene aggiornato, corretto né ci si può “permettere che resti traccia di notizie o opinioni in contrasto con le esigenze del momento. La storia è un palinsesto, che può essere raschiato e riscritto tutte le volte che si vuole”. E questa cos’è, fiction o verità?

 

CHE COSA È VERITÀ?

 

 

Scritto da  MARIA NISII.

 

Che cos’è la verità? (Gv 18, 33-38)

 

Nel Vangelo di Giovanni l’interrogatorio di Gesù condotto da Pilato è centrato sul tema della verità. Il procuratore romano cerca di comprendere le accuse che hanno condotto l’imputato lì da lui e per questo si informa sulla sua supposta regalità che potrebbe chiamarlo in causa in quanto rappresentante del potere di Roma:

Sei tu il re dei Giudei?

A questa domanda Gesù non risponde subito, ma avvia un tentativo di dialogo:

Dici questo da te, oppure altri te l’hanno detto di me?

Pilato nega un coinvolgimento diretto, come continuerà a fare anche dopo:

Sono io forse Giudeo? La tua nazione e i capi dei sacerdoti ti hanno messo nelle mie mani.

Ma infine tutto quello che gli interessa non è tanto la questione dell’identità (il “chi sia” quest’uomo e se sia un re), ma il “che cosa” dei fatti concreti su cui lui è stato chiamato a intervenire – gli accusatori infatti lo ritengono un malfattore (v. 30), qualcuno che compie il male. Pilato allora gli chiede:

Che cosa hai fatto?

Ed è a questo punto che Gesù torna alla domanda iniziale, spostandoil discorso dal “che cosa egli abbia fatto” al “chi egli sia”:

Tu lo dici; sono re; io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce.

Il dialogo tra i due si gioca su molti piani, come è tipico del quarto vangelo: la regalità di Gesù non è esercitata al modo di un potere mondano, come solo Pilato può intenderla. Gesù afferma invece che questa regalità è a servizio della verità che egli è venuto a testimoniare. Ma senza spiegare in che cosa consista tale verità, afferma che la sua testimonianza è ascoltata da coloro che sono dalla verità, nel senso di coloro che a questa verità appartengono. La verità appare pertanto divisiva: vi è chi l’accoglie e chi la rifiuta, chi si limita a “udire” la testimonianza di quella verità e chi la ascolta:

Che cos’è la verità?

A questo punto la domanda di Pilato sembra più che legittima, anche se possiamo constatare come il confronto tra i due sia ormai uscito dallo schema dell’interrogatorio. E tuttavia a questa domanda non viene data risposta e noi oggi non possiamo sapere se non sia stata riportata dall’autore del Vangelo o se la sua omissione significa che Pilato non sia rimasto lì a udirla. Comunque la si intenda, Pilato al massimo l’ha udita, ma di certo non l’ha ascoltata.

Di fatto a questa domanda Gesù aveva già risposto qualche capitolo prima, quando Tommaso gli chiedeva la via da seguire:

Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me (14,6).

Gesù è la verità, una verità che parla di amore, come il lascito ai suoi sta a indicare:

Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (13,34-5).

Dunque in Gesù verità e amore coincidono: l’amore è la verità che Egli è venuto a testimoniare.

Ma questo Pilato non può saperlo e neppure potrà mai capirlo. Tuttavia la sua domanda rimasta senza risposta non ha mai smesso di risuonare fuori e dentro la Chiesa. Vedere allora come questo tema sia stato trattato nelle riscritture evangeliche può aiutarci a riflettere su che cosa implichino le tante affermazioni a proposito della verità.

Ne L’uomo che cammina di Christian Bobin si offre una buona esegesi del tema:

Dice di essere la verità. È la parola più umile che esista. L’orgoglio sarebbe dire: la verità, ce l’ho. La possiedo, l’ho messa nello scrigno di una formula. La verità non è un’idea ma una presenza. Nulla è presente fuorché l’amore. La verità: egli lo è per il suo respiro, per la sua voce, per il suo modo amorevole di contraddire le leggi di gravità, senza farci caso  (L’uomo che cammina, Qiqajon, p. 20).

 

 

La verità di Cristo, secondo Bobin, si fa presente nella sua parola disarmata:

Non si può prestar credito alla sua parola sulla base della potenza che ne è storicamente scaturita: la sua parola è vera solo in quanto disarmata (p. 21)

e nel suo stesso essere, che non ha ancora smesso di interrogarci – e di far risuonare la domanda di Pilato:

Il fatto che milioni di uomini si siano nutriti del suo nome, che abbiano dipinto con oro il suo volto e fatto risuonare la sua parola sotto cupole di marmo, tutto questo non prova alcunché riguardo alla verità di quest’uomo (p. 20-1).

La parola di Cristo è umile e impotente, non si autoimpone, ma chiede di essere ascoltata. Di conseguenza anche la sua verità non è roboante né tantomeno autoevidente. Invece va appresa, cercata e scoperta nella realtà di ogni giorno – o persino nell’inaudito: «Per parlare di Dio – sapendo che se ne può parlare solo a fatica o forse non se ne può parlare del tutto – a volte ho pensato che Dio si mettesse un naso rosso, che avesse un naso da clown… Perché ci sono delle evidenze che appaiono così, di colpo, nel vissuto quotidiano, sempre con un lato buffo, persino un po’ bislacco. Mi dico che la verità è sempre di quest’ordine. Per quel che mi riguarda, le lezioni più belle, gli appoggi più solidi, più profondi, mi si sono fatti incontro spesso con un lato comico» (C. Bobin).

Che cosa è verità? Per Bobin è l’uomo che cammina senza sosta, a cui il suo racconto non dà mai un nome, perché anche il suo personaggio chiede di essere riconosciuto negli schizzi con cui l’autore sceglie di ritrarlo. La verità, dice allora l’autore, è tale se la accogli e la segui. Una verità dimessa e folle, ma la sola possibile:

Coloro che ne seguono le orme e credono che si possa restare eternamente vivi nella trasparenza di una parola d’amore, senza mai smarrire il respiro, costoro, nella misura in cui sentono quello che dicono, sono forzatamente considerati matti. Quello che sostengono è inaccettabile. La loro parole è folle e tuttavia cosa valgono altre parole, tutte le altre parole pronunciate dalla notte dei secoli? Cos’è parlare? Cos’è amare? Come credere e come non credere?

Forse non abbiamo mai avuto altra scelta che tra una parola folle e una parola vana. (pp. 29-30)

 

Ma se la follia dovesse risultare incompatibile con l’idea che ci siamo fatti della verità, bisognosi come siamo di certezze rocciose, lasciamoci sfidare da un’enigmatica – ed estrema – affermazione di Fëdor Dostoevskij:

Se qualcuno dovesse provarmi che Cristo è all’infuori della verità, e che la verità giace davvero all’infuori di Cristo, allora sceglierei di stare con Cristo piuttosto che con la verità (lettera a Natalija Fonvizina)

 

Sieger Köder, La lavanda dei piedi

 

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  • In copertina: Tintoretto, Gesù davanti a Pilato (1566)

Lolek, Francesco: Nomadi e profeti

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

#riscrittureinconsapevoli (*)

Siamo uomini e donne di un’epoca straordinaria,
tanto esaltante quanto ricca di contraddizioni.
L’umanità possiede oggi strumenti d’inaudita potenza: può fare di questo mondo un giardino,
o ridurlo a un ammasso di macerie.

Giovanni Paolo IIATTO DI AFFIDAMENTO A MARIA SANTISSIMA, ( 8 Ottobre 2000)

 

La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che «geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22).

Enciclica LAUDATO SI’ di Papa Francesco, (24 maggio 2015 )

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Noi Non Ci Saremo, canzone dei Nomadi ( 1967)

Vedremo soltanto una sfera di fuoco
Più grande del sole, più vasta del mondo
Nemmeno un grido risuonerà
E catene di monti coperte di neve
Saranno confine a foreste di abeti
Mai mano d’uomo le toccherà

E solo il silenzio come un sudario si stenderà
Fra il cielo e la terra per mille secoli almeno
Ma noi non ci saremo, noi non ci saremo

E il vento d’estate che viene dal mare
Intonerà un canto fra mille rovine
Fra le macerie delle città

Fra case e palazzi, che lento il tempo sgretolerà
Fra macchine e strade risorgerà il mondo nuovo
Ma noi non ci saremo, noi non ci saremo

E dai boschi e dal mare ritorna la vita
E ancora la terra sarà popolata
Fra notti e giorni, il sole farà le mille stagioni
E ancora il mondo percorrerà
Gli spazi di sempre
Per mille secoli almeno

Ma noi non ci saremo
Noi non ci saremo
Noi non ci saremo
Noi non ci saremo

 

Fonte: Musixmatch

Compositori: Francesco Guccini

(*) #riscrittureinconsapevoli: canzoni scritte dai loro autori per motivi e contesti tutti diversi, eppure in grado di rappresentare, almeno a qualche orecchio, un pezzo di Scrittura, che si riscopre lì dentro, come inconsapevolmente richiamata.

Tu, io, Dio: una storia a tre

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

*#riscrittureinconsapevoli

 

“Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.” ( Lc 1, 26-27)

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Sono io, quell’ uomo della casa di Davide. Sono io, che mi chiamo Giuseppe. Maria, è la mia promessa sposa. Prima di ogni altra cosa, e al fondo di tutto, questa è la verità. Questa è la nostra vita. Questa è la mia storia. Prima di Gabriele, prima dell’annuncio, prima del nostro sì, ci siamo noi. Ci sono io.

Io sono uomo, e sono un uomo. D’accordo: Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Me lo hanno insegnato fin da bambino, e ogni giorno lo ripeto, e ogni giorno me lo vivo. Ma trovarselo, il Signore, dentro la propria storia, a tu per tu, a parlar con te, a sceglier te, a buttare all’aria la tua esistenza intera, è tutta un’altra storia.

Mi sono spaccato la testa e il cuore a forza di domande, fino a che sono tornato al punto di partenza. Il Signore è Dio, il Signore è uno, ma ci siamo noi due, e su questo due io fondo la mia libertà e la mia risposta. Senza che lo chiedessimo o potessimo nemmeno immaginarlo, ci siamo trovati dentro al progetto di Dio. Tu, Maria, hai trovato grazia presso Dio.

Ma tu non sei tu, e basta. Tu sei la mia promessa sposa. Lo sei e lo resti, per me. Prima di tutto e al fondo di tutto. Siam diventati parte essenziale di un mistero e di una meraviglia, ma prima di essere la prescelta dal Signore, tu sei la mia Maria. Tu lo sai: io ho dubitato, e tanto. Ho pensato di rimandarti in segreto; fino al sogno, fino all’ angelo, fino alle sue parole. Allora ho chinato la testa, allora ho riconosciuto la fede.

Ascolta, Israele, il Signore e il nostro Dio, il Signore è uno. Ma noi siamo due, ed è su noi due, che io fondo la mia libertà e la mia accettazione. Le meraviglie incomprensibili, che sono venute a sconvolgere il mio e il tuo mondo e questa minima parte di universo,  adesso sono solo una  cornice e un ornamento  in più al volto della mia sposa promessa. Ora so bene che se avessi ceduto al dubbio e alla ragione, ti avrei perso dentro al caos, e in quello stesso caos avrei perduto anche me stesso, consegnandomi per sempre a un angoscioso quesito destinato a restare senza soluzione. Perché tu, perché io, perché noi ?

Io senza di te non so pensarmi. Noi siamo due, e senza noi due, avrei trovato il vuoto. Cosa avrei potuto sperare ancora? Persa te, ti avrei cercata comunque, dovunque, come un cavaliere impazzito mi sarei trovato a lottare a mani nude contro il male e le sue facce. Sarei andato oltre, certamente. Ma per finire dove? Cacciarmi in un labirinto senza uscita, verso confini sempre sconosciuti e sempre insoddisfatti, rischiando la mia vita in un mare aperto che non mi appartiene e non mi attira.

Noi siamo due, noi siamo: e l’amore non ha prezzo. Per cui, sì: chino la testa e sono disposto a tutto per averne un pezzo, di questo amore, e sono disposto a pagare quel prezzo con tutto l’amore di cui sono e sarò capace. Guarda come sono ridotto, senti come, e di cosa parlo: dove è finito il Giuseppe che conosco e sono? E’ finito, e basta: finito, nel momento in cui si è trovato all’inizio di questo mistero che mi riguarda e ci sconvolge.

Me. Te. Dio. Una storia  a tre incredibile e grandiosa, spaventevole e inaudita.

Una storia che accetto per fede, ma solo con te e per te: se non ti avessi nel mio cuore, sarei prigioniero di un carcere senza porte e senza fine, mi dovrei nascondere dietro al dito della mia piccolissima ragione, dovrei consegnarmi mani e piedi al dolore del rimpianto di ciò che volevo e non è stato. Invece no: ho visto cose riservate ai sognatori, mi hanno dato e mi daranno dell’ingenuo, devo e dovrò assaggiare la derisione ed il disprezzo, compresi i miei, amarissimi, che ho già assaporato fino in fondo. Eppure, da quel gusto amaro, so e saprò trovare i miei atti, quelli innocenti e  quelli meno, il mio sì semplicissimo e rivoluzionario.

La questione centrale, quello che c’è al fondo di tutto, e prima di tutto il resto è questa: senza di te, sarebbe stato tutto vano, lasciando te avrei affondato un colpo inutile quanto una coltellata piantata dentro a un corpo già morto, senza di te sarei soltanto un ciarlatano, una barca che non naviga, ancorata a vita dentro a un porto pochetto e sicuretto.

Per cui sì: noi siamo due, noi siamo. E l’amore non ha prezzo. Per cui sì: sono disposto a tutto per averne un pezzo, di questo amore, sono disposto a pagare quel prezzo che non esiste con tutto l’amore di cui  sono e sarò capace.

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Tutto l’amore che ho, canzone di Jovanotti.

Le meraviglie in questa parte di universo,
sembrano nate per incorniciarti il volto
e se per caso dentro al caos ti avessi perso,
avrei avvertito un forte senso di irrisolto.

Un grande vuoto che mi avrebbe spinto oltre,
fino al confine estremo delle mie speranze,
ti avrei cercato come un cavaliere pazzo,
avrei lottato contro il male e le sue istanze.

I labirinti avrei percorso senza un filo,
nutrendomi di ciò che il suolo avrebbe offerto
e a ogni confine nuovo io avrei chiesto asilo,
avrei rischiato la mia vita in mare aperto.

Considerando che l’amore non ha prezzo
sono disposto a tutto per averne un po’,
considerando che l’amore non ha prezzo
lo pagherò offrendo tutto l’amore,
tutto l’amore che ho.

Un prigioniero dentro al carcere infinito,
mi sentirei se tu non fossi nel mio cuore,
starei nascosto come molti dietro ad un dito
a darla vinta ai venditori di dolore.

E ho visto cose riservate ai sognatori,
ed ho bevuto il succo amaro del disprezzo,
ed ho commesso tutti gli atti miei più impuri.

Considerando che l’amore non ha prezzo…
Considerando che l’amore non ha prezzo,
sono disposto a tutto per averne un po’,
considerando che l’amore non ha prezzo
lo pagherò offrendo tutto l’amore,
tutto l’amore che ho,
tutto l’amore che ho.

Senza di te sarebbe stato tutto vano,
come una spada che trafigge un corpo morto,
senza l’amore sarei solo un ciarlatano,
come una barca che non esce mai dal porto.

Considerando che l’amore non ha prezzo,
sono disposto a tutto per averne un po’,
considerando che l’amore non ha prezzo
lo pagherò offrendo tutto l’amore,
tutto l’amore che ho,
tutto l’amore che ho,
tutto l’amore che ho,
tutto l’amore che ho,
tutto l’amore che ho.

 

(*) #riscrittureinconsapevoli: canzoni scritte dai loro autori per motivi e contesti tutti diversi, eppure in grado di rappresentare, almeno a qualche orecchio, un pezzo di Scrittura, che si riscopre lì dentro, come inconsapevolmente richiamata.

Il Blasco di Cirene

Scritto da  LORENZO CUFFINI

#riscrittureinconsapevoli (*)

 

Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirène che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù. (Luca 23,26.)

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Mica facile raccontare, per me. Parlare, non mi piace. Mi sono sempre  fatto i fatti miei, cercando di tenermi fuori dalle grane. Ma quel giorno, niente: non ho potuto. Quel giorno, mentre tornavo giu’ dai campi, non mi è stato possibile scappare. Mica facile, trovarsi su una strada e, di botto, trovarsi uno obbligato, uno nella necessità di andare, dove non avresti mai pensato né voluto. Altro che stare alla larga, altro che  farmi i fatti miei.

Erano soldati, erano romani, erano armati. Ora, adesso, subito: andare, andare, andare. Niente tempo per pensare, per protestare, per rimandare. Niente. Soldati. Romani. Armati. Lui, nel mezzo. A terra.  Mezzo morto prima ancora di iniziare. Lui: il condannato. A morte. Alla croce. Non ce la faceva, a portarla. Manco a tenerla su.  Mica facile pensare di andar via, o di stare ai bordi della strada, tra i tanti, a sentirti addosso la malinconia che ti dà la vista di  uno che stanno per ammazzare. Mi han chiamato, mi hanno preso, mi hanno sbattuto accanto a lui. Il suo patibolo  sulle mie spalle, la sua faccia vicinissima. Urla contro tutti e due. Mica facile muovere le gambe, partire insieme a lui, andare con lui a incespiconi, a partire e poi a morire.

Lui, poi. Lui:  quello che aveva parlato di vita nuova e di risurrezione, a sentir la gente. Tutti pazzi, pochi giorni prima, tutti Osanna e Regno dei cieli, tutti a parlare di un mondo migliore. Beati quelli che piangono, quelli che soffrono, quelli che hanno fame. Intanto,  quel giorno, loro erano spariti, e io su quella strada a buttar giù polvere, a sentirmi il legno grezzo smangiarmi la spalla, a rischiare le frustate e gli insulti insieme al condannato.

Lo guardavo di sfuggita: credere in uno così? Chi, come, dove? Come avevano potuto? Beati, beati, beati. Io non me n’ero mai accorto, di questa beatitudine: avanti e indietro dai campi, a lavorare pensando ai fatti miei. Mica facile pensare di cambiare le abitudini di tutta una stagione, di una vita intera; figurarsi su quella strada, sotto quel  legno, tra quei soldati.  A sentirmi tutta quella fatica addosso, mi sentivo  stanco, vecchio, sfinito, la mia vita passata come un lampo. Lo guardavo , io una maschera di sudore, lui  una maschera di sangue. Cosa starà pensando? La sua, di vita , filava dritta verso la stazione, l’ultima fermata, la fine del viaggio. Un mondo migliore? Come no.

Mica me lo potevo immaginare quanto pesasse quella croce spaventosa. Preso, tirato a forza,  trattato  da condannato a morte, costretto alla sua gogna, senza poter rifiutare niente. Dove è la mia libertà? Libertà, sì. Sai, essere libero. Un passo dopo l’altro, un sasso dopo l’altro, la polvere in bocca e nel cuore. Guardavo lui, che guardava quel roccione  ancora lontano per le sue gambe a pezzi. Uno strano sguardo dolente e ardente sotto le palpebre gonfie di botte.

Dove è la libertà? Guardavo quello strano sguardo, quasi un desiderio, e  mi dicevo: sai, forse la troverà lui. Forse va ad  essere libero, il condannato . Forse, essere libero costa soltanto qualche rimpianto. Tutto è possibile. Perfino credere . Che possa esistere. Un mondo migliore.

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“UN MONDO MIGLIORE ” 

 canzone di Vasco Rossi.

Non è facile pensare di andar via
E portarsi dietro la malinconia
Non è facile partire e poi morire
Per rinascere in un’altra situazione
Un mondo migliore

Non è facile pensare di cambiare
Le abitudini di tutta una stagione
Di una vita che è passata come un lampo
E che fila dritta verso la stazione
Di un mondo migliore
E un mondo migliore

Sai, essere libero
Costa soltanto
Qualche rimpianto
Sì, tutto è possibile
Perfino credere
Che possa esistere
Un mondo migliore
Un mondo migliore
Un mondo migliore
Un mondo migliore

Non è facile trovarsi su una strada
Quando passa la necessità di andare
Quando è ora, è ora, è ora di partire
E non puoi, non puoi, non puoi più rimandare
Il mondo migliore
Un mondo migliore

Sai, essere libero
Costa soltanto
Qualche rimpianto
Sì, tutto è possibile
Perfino credere
Che possa esistere
Un mondo migliore
Un mondo migliore
Un mondo migliore
Un mondo migliore

Autori: Vasco Rossi, Celso Valli.

 

(*) #riscrittureinconsapevoli: canzoni scritte dai loro autori per motivi e contesti tutti diversi, eppure in grado di rappresentare, almeno a qualche orecchio, un pezzo di Scrittura, che si riscopre lì dentro, come inconsapevolmente richiamata.