E noi, dal basso, guardiamo a Te, o Maria!

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

Il trapasso di Maria, già conosciuto anticamente, ha affascinato pittori di ogni epoca soprattutto per il tentativo di sintetizzare il tema all’Assunzione di Maria Vergine al Cielo,proclamato dogma cattolico nel 1950, secondo il quale Maria sarebbe stata assunta in cielo con l’anima e con il corpo. L’Assunzione di Maria, non è riportata nelle sacre scritture canoniche, bensì nei testi apocrifi del V-VI secolo, Transitus Beatae Virginis di San Giovanni apostolo o di Giuseppe d’Arimatea, in cui:

«Mentre Pietro parlava e confortava le folle, giunse l’aurora e spuntò il sole. Maria si alzò, uscì fuori, recitò la preghiera che le aveva dato l’angelo, e dopo la preghiera si stese sul letto e portò a compimento la sua economia […]. Il Signore l’abbracciò, prese la sua anima santa, la pose tra le mani di Michele» […]. «Ecco, giunse dai cieli il Signore Gesù Cristo con Michele e Gabriele […]. Il Signore disse a Michele di innalzare il corpo di Maria su di una nube e trasferirlo in paradiso […]. Giunti nel paradiso, deposero il corpo di Maria sotto l’albero della vita. Michele portò la di lei anima santa che deposero nel suo corpo» (TransitusRomanus, 32-34 – 47-48).

A fornire dettagli iconografici agli artisti ci sono, dopo il V secolo, i testi patristici di Efrem il Siro, Timoteo di Gerusalemme ed Epifanio, nel Medioevo ripresi dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine.

I temi che vengono affrontati dagli artisti nei vari periodi storici sono la rappresentazione dell’anima “visibile”  di Maria nel momento in cui si separa dal corpo per la “nascita divina”, l’ascesa corporea di Maria, l’unione sponsale di Maria con Gesù in quanto simbolo della Chiesa; questi si articolano in scene singole o in una sola composizione.

Nel dipinto (1504-1508) di Vittore Carpaccio conservato a Venezia nella Ca’ d’Oro, vediamo  Gesù in atto di accogliere l’anima di sua madre con le fattezze una piccola effige in preghiera (nell’arte antica l’anima veniva rappresentata sotto forma di un bambino che esce dal corpo al momento del decesso) e gli Apostoli che stanno intorno al letto dove riposa il corpo della Vergine.

 

 

Nella tavola (1300) di Niccolò di Pietro Gerini, a Firenze nella Galleria Nazionale, Gesù invece prende fra le sue braccia questa anima.

 

 

Nel pannello centrale del Trittico (1300) del Maestro di Cesi, proveniente dal Monastero di Santa Maria della Stella di Spoleto, conservato a Parigi presso il Museo Marmottan-Monet, in una mandorla (che sta a significare la natura divina di Cristo e della Madonna), Gesù risorto abbraccia teneramente sua madre, qui simbolo della Chiesa – e non più l’anima -,mentre ascendono al cielo sospinti dagli angeli.

 

 

Di particolare suggestione è l’Assunzione in cielo della Vergine affrescata attorno al 1425 da un artista noto come il Maestro di Vignola, su commissione di Uguccione Contrari, un nobile ferrarese di profonda cultura umanista. Essa si trova nella lunetta della parete sud della Cappella Contrari al primo piano della Rocca di Vignola. Questa cappella, destinata al raccoglimento di un personaggio di alto rango come Uguccione, è assimilabile di fatto a una cella conventuale, di cui ha le dimensioni, ma non l’austerità; le sue scelte iconografiche risentono dell’ambiente colto di cui faceva parte. La scena si apre su un paesaggio dalla ricca vegetazione con all’orizzonte uno sperone roccioso sul quale si scorge il rudere di un edificio absidato. Cristo, raffigurato in cielo all’interno di una mandorla circondata da angeli musicanti vestiti di bianco, secondo un’iconografia medievale, con affetto solleva in grembo la madre, raffigurata realisticamente in tarda età: un’iconografia che si distingue da quella tradizionale dell’anima, perché qui è il corpo della Vergine, in tutto il suo essere, che sarebbe stato assunto al cielo.

 

Dal Rinascimento in poi la raffigurazione dell’evento si concentra sempre più sul momento dell’Assunzione corporea della Vergine.Vista la mancanza di racconti apostolici, i testi apocrifi della Morte della Vergine vengono da questo momento più semplicemente equiparati al racconto evangelico della morte e della glorificazione di Gesù e le raffigurazioni diventano fortemente coreografiche soprattutto durante il Barocco. In particolare dalla Controriforma cattolica, attraverso le arti decorative i temi della fede vengono spettacolarizzati, entusiasmando gli spettatori d’ogni ordine sociale. La cupola è l’elemento architettonico che rappresenta il punto di partenza del processo decorativo negli edifici religiosi dove, con il trompe-l’oeil si spinge fino all’inverosimile, creando un’ebbrezza e una vertigine tutte particolari. L’idea di una trascendenza appassionante di miti e di cieli si sviluppa sino al surreale, dove il finito si trasforma in infinito. Proprio con la nuova interpretazione del tema dell’Assunzione della Vergine, in cui a Maria è attribuito un nuovo e maestoso ruolo, le immagini diventano più spettacolari sia dal punto di vista della rappresentazione pittorica, sia da quello della resa figurativa come negli affreschi della cupola del Duomo di Parma (1524-30) ad opera di Antonio Allegri conosciuto con il nome di Correggio, in cui vediamo un’infinità di santi, beati, angeli e cherubini in atto di muoversi verso la sommità della cupola stessa, che sembrano roteare nel cielo immaginario e anche la Vergine partecipa, con gli occhi e le braccia levati in alto, al soprannaturale volo che la porterà al centro del dorato vortice di luce.

 

 

 

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  • Il titolo dell’articolo è tratto dall’omelia del 15 agosto 1966 di Papa Paolo VI.

Giuda e Gesù: amici per errore.

Scritto da LORENZO CUFFINI.

#riscrittureinconsapevoli (*)

 

 

Da Giovanni 13: 21-27

Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: «In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà». 22 I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. 23 Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. 24 Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: «Di’, chi è colui a cui si riferisce?». 25 Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». 26 Rispose allora Gesù: «È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò». E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. 27 E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. Gesù quindi gli disse: «Quello che devi fare fallo al più presto».

 

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Giuda, mentre si avvia al Getsemani con le guardie per l’arresto di Gesù.

E così l’ho fatto.

Mi sono sbattuto per giorni e notti, mi son fatto domande e non ho trovato risposte, mi sono consumato nel dubbio angoscioso e nella consapevolezza di dover fare qualcosa a tutti i costi, qualcosa che interrompesse il tuo delirio e la tua passività. Fino ad oggi, fino alla cena, fino a quel boccone intinto, fino alle tue parole: quello che devi fare, fallo presto.

E’ stata la rivelazione, quella vera, quella con la r minuscola, quella rivolta solo a me, e a me solo. Con gli altri undici, banfoni e ottusi come sempre, tutti presi a occuparsi di se stessi, e pieni solo di paura di far brutta figura ai tuoi occhi,vecchia storia. Sono forse io?, sono forse io?, ma li hai visti, i tuoi campioni, quelli che hai chiamati amici, quelli che hai scelto uno per uno e mandati, ancora una volta bamboccioni ipocriti e gonfi di boria e del non aver capito nulla.

Quelle parole , le hai pronunciate a me, e a me solo: l’invito, ad agire, finalmente!, era per me e per me solo.

Hai spezzato gli indugi, hai suggellato la scelta, hai mosso le acque. Si fa, si va. Faccio , vado. Devo fare, devo andare. Poco importa che subito dopo abbia sentito il rigurgito amaro di chi si sente conosciuto, scrutato, previsto e manovrato da te sempre, comunque, completamente . Adesso le tue parole sono state dette, adesso sono stato lanciato, adesso ho ricevuto la missione che avevi in serbo per me. Non vorrei essere stato in nessun altro posto che qui, capisco adesso perché sono  rimasto al tuo fianco, perché sono ancora qui, con tutte le tantissime volte in cui sono stato sul punto di andarmene. Mi scegli, mi hai scelto, mi mandi, mi hai mandato. Per una ben sporca missione, in verità, ma va bene così:  fossi stato furbo, o saggio, avrei capito da un pezzo che per me tu eri pericoloso, che io avrei dovuto imparare a difendermi da te e dalle tue parole criptiche e inebrianti, da tutto quel parlare di amore e di amare tutto e tutti. Storie, lo capisco ora: non è di amore che abbiamo bisogno, ma di chiarezza e di verità, e finalmente la mia me l’hai detta e me l’hai data: quello che devi fare, fallo in fretta. E’ così: per la prima volta ho la certezza pazza che tu e io siamo veramente dalla stessa parte, in un’unica storia che ci separerà e ci porterà uniti in due metà diverse. Tu, alla tua gloria, io all’ ignominia. Ma senza la mia ignominia, la tua gloria resterebbe sulla carta,  impossibile tra i balbettii  dei tuoi undici cortigiani inutili.

Verrò da te, ti consegnerò al Sinedrio. Lo farò con un bacio ed un saluto: il mio commiato, e il mio epitaffio. Si saluta così e si bacia così un amico: ed io, adesso lo capisco,  non lo sono stato;  ma non lo sei stato nemmeno tu, nonostante il tuo parlare alto, inebriante e confuso. Amici, noi due? Se abbiamo creduto di esserlo, è stato per errore: io devo allontanarti da me, per sempre, perché questa è l’unica via che ho, l’unica  per legarmi a te per sempre. Toglierti di mezzo, per potermi togliere di mezzo anche io, urlando in quel momento, nella mia testa e nel mio cuore il tuo nome, il nome della persona a cui ho dato tutto, fino alla mia stessa vita. La fine, per tutti e due: un altro viaggio mi aspetta, diverso dal tuo. Ma senza di me,  sia ben chiaro, il tuo non potrebbe compiersi. Per cui sì: ti consegnerò, con un saluto e un bacio, e spero che in quel contatto ci sia nascosto l’abbraccio che non c’è mai stato fra di noi, e la mia voglia di tenerti unito a me per sempre, di dirti che io non voglio perderti.

Adesso che mi hai dato il tuo comando, la freccia è scoccata e una freccia non puo’ tornare all’arco: in nessun modo vorrei averti ancora vicino, in nessun modo potrei viverti lontano. Questa dunque è adesso la strada tracciata, ed è la mia ( e sarà la tua). Non mi importa d’altro: quello che devo fare lo farò presto, lo sto facendo: e poi verrà l’alba del giorno dopo, a svelare ogni ombra di quello che è stato,i secoli appresso in cui si cercherà senza riuscirci di ricomporre  i frammenti di questa storia indicibile, sui quali Dio ha scritto di me e di te

Certo è dura: certo, tu che sai e mi conosci, hai fatto bene a dirmi di fare quello che devo presto. Perché se non lo avessi fatto subito, mi avrebbe preso alla gola e alle lacrime la nostalgia delle illusioni perse, la felicità vagheggiata che provavo a credere in te come in un futuro di riscatto e di rivoluzione. Ho sbagliato strada, con te; l’ho sbagliata alla grande e per sempre.

Dopo un errore così, non sarebbe stato possibile far finta di niente, ammucciare, vivacchiare, andare avanti. Io vedo te, sento te, sento persino il tuo odore in ogni posto in cui vado e in ogni momento in cui vivo. Senza di te non potrò stare, e non ci starò affatto. Tra poco mi aspetta un altro viaggio: mettila così, io ti sono stato fedele in questo compito infame e indispensabile che mi hai affidato. Quando tra poco ti consegnerò, stringimi per un istante, stingimi forte, perchè io faccio tutto questo per te, e  io non voglio perderti…

Salve, Maestro.

 

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Amici Per Errore, canzone di Tiziano Ferro

In nessun modo vorrei essere altrove

non per niente sono ancora qui

io che da te dovrei soltanto imparare

a difendermi

non è l’amore quello che ci serve

ma è molto più

è la verità

infondo siamo dalla stessa parte

di un’altra metà

Amici altrove amici per errore

allontanarti per urlare per sempre

in testa il tuo nome

è un altro viaggio mettila così

stringimi forte che non voglio perderti

 

In nessun modo vorrei averti vicino

in nessun modo viverti lontano

scomporre la parola amore

in due consonanti tre vocali ci perdiamo

già le sei sole del mattino

svela ogni ombra di quello che è

tutti i frammenti di luna spezzati

sui quali Dio scrisse di me e di te

 

Amici altrove amici per errore

allontanarti per urlare per sempre

in testa il tuo nome

è un altro viaggio mettila così

stringimi forte che non voglio perderti

 

E quel rumore di fondo non smette mai

i lampi di felicità

l’eco della nostalgia

 

Amici altrove amici per errore

sbagliare strada poi trovare in tutti i posti il tuo odore

è un altro viaggio mettila così

stringimi forte che non voglio perderti

 

Autori: Tiziano Ferro, Massimiliano Pelan e Francesco Gramegna

 

*) #riscrittureinconsapevoli: canzoni scritte dai loro autori per motivi e contesti tutti diversi, eppure in grado di rappresentare, almeno a qualche orecchio, un pezzo di Scrittura, che si riscopre lì dentro, come inconsapevolmente richiamata.

Sei qui: bambino mio che non riesco a dire

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

#riscrittureinconsapevoli (*)

Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia.  E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.  Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano.  Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore. 

(Luca 2, 16-19)

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Sei qui.

Sei qui e non mi stanco di guardarti. Ti ho aspettato nove mesi. Nove mesi a contare un giorno dopo l’altro…E adesso?  Adesso sei qui, bambino. Vorrei dirti: bambino mio, ma la parola mi si ferma sulle labbra.

Sei mio, ma non lo sei. Adesso che ti vedo e che ti tocco, tu  nato da me, capire è più difficile di prima. Come faccio a  trovare parole mie, nuove, per dire quello che nessuno ha mai vissuto? Nove mesi a imparare a sopravvivere, a tutto, a tutti, a accettare quello che è impossibile, sapendo che nessuno ci poteva credere. Ma io ci ho creduto.

Io, sì.

Adesso, bambino mio che non riesco a chiamare, come farò? Come farò con te? Di cos’è che avrai bisogno? E ne avrai? E in che modo? Non lo so, non lo so. A una cosa sola penso: a stare qui con te, sempre. Io sto qui. Cosa sia scritto per te, io non lo so. Parole di gloria sono state pronunciate, anche oggi, da tutti quei pastori che sono venuti, e son venuti per te. Ma io non lo so, che destino avrai. Quale che sia, starò con te. Come  questa notte, in cui nessuno più ti omaggia, in cui nessuno puo’ sentire il tuo respiro tranquillo e caldo.

Ma io sì, io lo sento, io son qui.

Ci sarò in ogni momento: anche se tu dovessi fuggire, nasconderti, difenderti; o se al contrario dovessi restare con me e con Giuseppe, a casa, nel silenzio e in ombra. Nessuno saprebbe di te, nessuno ti vedrebbe per quel che sei: nessuno, ma io sì. Bambino mio, che non riesco a dire: come farò ad esserti mamma? L’incanto del mistero si è impastato  con la  mia vita vera. Come posso fare disegni e piani su di te, su di me, su di noi?

A me deve bastare quello che ho, quello che c’è, questo: sei qui. Con la vita che hai davanti.

Sono qui anche io. Nessuno ti vede, io sì. Nessuno ci crede, io sì.

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Io sì ( Seen) – di Laura Pausini

Quando tu finisci le parole

Sto qui
Sto qui
Forse a te ne servono due sole
Sto qui
Sto qui

Quando impari a sopravvivere
E accetti l’impossibile
Nessuno ci crede, io sì

Non lo so io
Che destino è il tuo
Ma se vuoi
Se mi vuoi sono qui
Nessuno ti sente, ma io sì

Quando tu non sai più dove andare
Sto qui
Sto qui
Scappi via o alzi le barriere
Sto qui
Sto qui

Quando essere invisibile
È peggio che non vivere
Nessuno ti vede
Io sì

Non lo so io
Che destino è il tuo
Ma se vuoi, se mi vuoi
Sono qui
Nessuno ti vede, ma io sì

Chi si ama lo sa
Serve incanto e realtà
A volte basta quello che c’è
La vita davanti a sé

Non lo so io
Che destino è il tuo
Ma se vuoi
Se mi vuoi
Sono qui
Nessuno ti vede, io sì
Nessuno ci crede, ma io sì

  • Compositori: Laura Pausini / Niccolò Agliardi

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(*) #riscrittureinconsapevoli: canzoni scritte dai loro autori per motivi e contesti tutti diversi, eppure in grado di rappresentare, almeno a qualche orecchio, un pezzo di Scrittura, che si riscopre lì dentro, come inconsapevolmente richiamata.

Situazioni difficili per Knopfler

Scritto da  DARIO COPPOLA.

 

In uno scenario western, al tramonto, possiamo immaginare di sentire la canzone Follow me , nella quale Knopfler dice:

 

“Okay, il prete grida/ Che stasera la Vergine salirà in cielo/ Per tutto il giorno/ Sono rimasto da solo/ E quando la campana della chiesa ha suonato/ Sono rimasto fuori sulla torre/ Nel sole che tramontava/ Ora vieni donna, seguimi a casa/ Bene, non ho bisogno di preti/ Ma amo tutti/ E partecipo alla festa/ quindi bevo il mio vino”.

 

In Skateaway c’è l’esclamazione

“Alleluia, ecco che arriva la regina dei pattini”.

È tipica della religione ebraica, poi trapiantata nel Cristianesimo, la parola “Alleluia“: se la scomponiamo, Allel significa Lodare (Hallelהַלְּל), la desinenza –u esprime la seconda persona plurale voi (וּ), Jah o Yah

(יָהּ) significa Dio ed è proprio l’abbreviazione di YHWH (יהךה), il tetragramma impronunciabile che esprime il concetto del principio dell’Essere (Io Sono) coincidente con Dio stesso

“È stata creata in paradiso/ Il paradiso è nel mondo/ E’ solo un amore al volo […] Sai che sono stato creato per stare con la mia ragazza/ Come un sassofono è fatto per andare con la notte […] “.

 

 

Questa suggestiva sinestesia, che insieme a molte altre compare in Expresso Love, è associata al concetto di creazione, proprio dell’ebraismo e successivamente assunto dal cristianesimo; la creazione si differenzia concettualmente dalla generazione per due punti sostanziali:

  1.  chi crea (il creatore) è ontologicamente superiore a chi è creato (la creatura) e non è possibile una reversibilità fra i due;
  2. il creatore (l’Essere, all’infinito) crea dal nulla ex nihilo una creatura (l’ente o l’essente, al participio; cioè colui che partecipa dell’Essere cioè dell’infinito che è solo Dio); il genitore (che è un ente), invece, genera a partire dalla materia (il seme). Sul concetto di ex nihilo vi sono posizioni filosofiche anche diverse da questa (ma non è questa la sede per elencarle).

Una differenza fra questi due concetti fu resa dogma nei concili di Nicea I (325 d. C.) e di Costantinopoli I (381 d. C.) e rimane espressa nel Simbolo che recita, riferendosi a Gesù Cristo: “generato e non creato, della stessa sostanza del Padre”: perciò Cristo è Dio a tutti gli effetti, per la teologia cristiana, e se fosse stato creato non potrebbe esserlo.

Il concetto di paradiso, evocato a più riprese da questi e altri testi dei Dire Straits esprime una dimensione estranea allo spazio (l’infinito) e al tempo (l’eterno). Si è tentato paradossalmente di spazializzare nelle rappresentazioni il paradiso, che è divenuto un “luogo” nel quale v’è l’eterno scorrere della vita dei defunti. Paradesha è il termine originario sanscrito che esprime questo paradosso della localizzazione di ciò che è fuori dallo spazio e indica infatti un luogo superiore, che venne in seguito compreso e mutuato anche nella nostra cultura occidentale: così, in espressione iranica, pairidaeza indicò un luogo “creato attorno” (pairi= attorno) e (-diz= creare) – una sorta di giardino recintato – che  che confluì nel greco paràdeisos, fino al latino paradisus, da cui derivò il sostantivo italiano paradiso.

Torniamo ora ai Dire Straits, ricordando che tutti i testi del gruppo britannico sono stati scritti da Mark Knopfler:

“Qualcuno nei corridoi è stato sentito starnutire/ Santo Iddio, potrebbe essere una malattia industriale? […] il guardiano è stato messo in croce perché dormiva lì al suo posto […] I lavoratori sono disgustati, depongono gli attrezzi e protestano […] tutti sono d’accordo/ Che questi sono i tipici sintomi di una stretta economica;[…] La filosofia non serve a nulla e ancora meno la teologia/ La storia ribolle, c’è un ristagno nell’economia/ i sociologi inventano nuove parole che significano; La Malattia Industriale; […]Due uomini sostengono di essere Gesù, uno dei due deve aver torto […] Intanto il Gesù originale dice; Avrei il rimedio immediato/ Aboliamo i lunedì mattina e i venerdì pomeriggio;/ l’altro fa lo sciopero della fame, sta morendo lentamente/ Come ha fatto Gesù a prendere la Malattia Industriale?” – (da Industrial Disease).

 

 

In queste parole trapela uno scetticismo religioso che tuttavia fa ricorso al cristianesimo, addirittura clonandone il fondatore, ossia la divinità. Questa antitesi fra il vero e il falso Gesù Cristo evoca in qualche forma un concetto chiave della teologia cristiana, ossia le due nature nella seconda persona della Trinità, che è Dio Figlio, cioè Gesù Cristo stesso: la sua natura divina, affermata dal Concilio di Nicea I, già citato sopra, e la di lui natura umana, affermata dal Concilio di Calcedonia del 451 d. C.

Scrive ancora Knopfler:

“Cammini lassù su un filo sospeso/ sei una danzatrice su un ghiaccio sottile/ Non ti importa del pericolo/ E ancor meno dei consigli/ I tuoi passi sono proibiti/ Ma, conoscendo il tuo peccato/ Butti via il tuo amore agli estranei/ E la prudenza al vento […] Ci vuole l’amore piuttosto che l’oro/ Spirito e non materia/ Per fare quello che devi/ Quando le cose che hai/ possono cadere e andare in frantumi/ O scorrere tra le tue dita come polvere”.  (da Love over Gold).

 

 

Nel Salmo 89 il salmista rivolgendosi a Dio dice: “Tu fai ritornare l’uomo in polvere“; parla della polvere, quella terra rossa originaria, dalla quale deriva Adamo (in ebraicoאָדָם), che significa “fatto di terra rossa” e che designa non solo il primo ma ogni uomo: terra si dice, infatti, Adamah (in ebraicoאֲדָמָה); il concetto di polvere è molto presente nella Bibbia ebraica e in quella cristiana; un altro esempio: “Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero” (Salmo 112). Si parla nei versi di Knopfler anche della prudenza che, con la temperanza, la giustizia e la fortezza, costituisce le quattro virtù cardinali, mutuate dallo Stoicismo, e così chiamate perché poste ai cardini della morale cristiana.

Dice ancora Mark:

“Ho sentito che i Sette Peccati Capitali/ E i Gemelli Terribili sono passati a farti visita/ Più grossi sono, cara/ Più ti attaccano duramente/ E tu sei sempre la stessa tu insisti/ Nello stesso vecchio campo dei piaceri/ Oh e non piove mai qui intorno/ Diluvia soltanto”  – (da It never rains)

 

Oltre ai vizi o peccati capitali, Superbia, Avarizia, Accidia, Invidia Ira, Lussuria, Gola, qui citati compare il tema del diluvio, conseguenza del peccato dell’uomo nella teologia ebraica e cristiana: tutti conosciamo la storia di Noè, per non parlare delle altre mitologie (Utnapishtim nell’Epopea di Gilgamesh; l’Indù Puranica di Manu; il mito di Deucalione e Pirra).

Nella cultura ebraico-cristiana al peccato segue il diluvio come punizione per l’espiazione…

Il peccato e le sue conseguenze; la distruzione e il ritorno alla polvere originaria; la “malattia industriale”: abbiamo riflettuto con Mark Knopfler su queste situazioni difficili che l’esistenza sulla terra impone agli uomini di fede in prospettiva di un’altra vita oltremondana. I Dire Straits con questi testi non analizzano propriamente un’esperienza religiosa del filosofico “male radicale” o del teologico “peccato originale”, ma ci fanno meditare insieme a loro sulle situazioni difficili che si sviluppano nell’esistenza e, infatti, Dire Straits significa letteralmente proprio situazioni difficili.

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  • Ascolta e guarda qui il video di INDUSTRIAL DESEASES ( 1982) :

Per amore Mark trafigge il drago

Scritto da  DARIO COPPOLA.

 

“La campana della chiesa lancia il suo richiamo cercando/ di raccogliere un po’ di gente per il Vespro/ Nessuno si lascia attrarre dai suoi rintocchi”

(da Lions)

 

È indubbio il riferimento religioso, in queste parole tratte da una canzone dei Dire Straits, che anticipa il tema, poi sviluppato in Tunnel of Love, della ricerca dell’altro, in questo caso la ricerca di un giovane uomo da parte di una giovane donna nel contesto dell’amore.

L’ambientazione del testo citato è suggestiva e, soprattutto, è religiosa:

sullo sfondo c’è quella preghiera che l’uomo rivolge a Dio Padre, attraverso l’orazione incessante del Cristo mediatore, nello Spirito Santo che unisce tutto e tutti col suo amore;

c’è quella preghiera che la Chiesa pronuncia di ora in ora in ogni parte della terra, per la santificazione del tempo e dello spazio, e che oggi è chiamata Liturgia delle Ore.

Nel testo di Lions dei Dire Straits campeggia, fra le ore della giornata, quella suggestiva del crepuscolo, il momento blu del vespro quando non si sa, se guardiamo solo il cielo, in quale momento della giornata ci troviamo. I Vespri, nella liturgia quotidiana della Chiesa, sono una preghiera per ringraziare il Signore del tempo, della giornata trascorsa; un’orazione fatta di inni, salmi, cantici e intercessioni, che si conclude con il Magnificat (Cantico della Beata Vergine Maria) e, talora, con un’antifona mariana, cioè rivolta alla Madonna.

Anche nei testi dei Dire Straits ricorre spesso l’evocazione della Madonna:

“Santa Maria, i tuoi figli vengono massacrati/ E qualcuna di voi madri dovrebbe rinchiudere le proprie figlie/ Chi protegge gli innocenti?”.

(da Once upon a time in the West)

 

E in Lady Writer:

“Proprio nel modo in cui i capelli le incorniciavano il viso/ E ricordo come ho perso la grazia di Dio/ In un altro tempo, in un altro luogo”.

 

In questa canzone, utilizzata dalla TV come sigla di un programma dedicato alle scrittrici, Knopfler parla di un sua ex ragazza e dice:

“La scrittrice alla televisione/ Parla della Vergine Maria/ Mi faceva venire in mente te/ Speranze lasciate in sospeso aspettando un sì”…”Parla della Vergine Maria/ Sai che parlo di te e di me/ E della scrittrice della televisione”.

In Communiqué il contenuto testuale è misterioso: non si sa se si parla del genere umano o di Mark Knopfler stesso:

“Vogliono avere una dichiarazione per amor del Cielo”.

In Angel of Mercy, testo che contiene tematiche semplici sia pure prese fra l’amore, la teologia e la mitologia, leggiamo:

“Angelo misericordioso, lascia che il tuo cuore guidi la ragione/ Non voglio i tuoi soldi, voglio te invece/ Non ho bisogno di un rifiuto, no/ Angelo misericordioso, stasera fammi toccare il paradiso”.

E’ chiaro che Mark si rivolga ancora una volta a una donna della quale è innamorato; certamente l’immagine è misticheggiante: l’Angelo richiama anche l’elemento femminile se lo leghiamo all’annunciazione dell’arcangelo Gabriele a Maria;

si parla anche di misericordia: questo concetto dell’amore misericordioso è mistico e consiste nel rivolgere i cuori verso i miseri, quei poveri, tanto cari a san Luca, autore del terzo evangelo, in cui è contenuto proprio il Magnificat (Lc 1,48-55), che già citavamo a proposito dei Vespri. Nelle parole di Maria compaiono temi già espressi nel Primo Testamento (l’Antico), ad esempio nei Salmi e nel Cantico di Anna, che si trova nel Primo libro di Samuele (1Sam 2,1-10), ove ci si riferisce proprio ai poveri, agli umili.

In un’altra canzone già citata, Angel of Mercy, troviamo alcuni temi che evocano, ancora una volta, il Salmo 22 (23), notissimo per il suo incipit, nei cui versi finali si parla di una ricompensa che consiste nella felicità e nella grazia:

“Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla;/ su pascoli erbosi mi fa riposare,/ ad acque tranquille mi conduce./ Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome […]. Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici;/ cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca./ Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita,/ e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni”.

Sempre in questa canzone dei Dire Straits è evocata anche l’immagine del drago, icona della mitologia cananea: i draghi compaiono pure nei salmi: “Tu con potenza hai diviso il mare/ hai spezzato la testa dei draghi sulle acque” dal Salmo 73 (74); “Camminerai su aspidi e vipere/ schiaccerai leoni e draghi” dal Salmo 90 (91).

 

Il drago non è solo presente nella mitologia ebraica ma anche in quella cristiana. E’ noto il mito di san Giorgio, tratto dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, nel quale si narra di un drago, che stava in uno stagno di Selem in Libia, il quale minacciava gli abitanti che per calmarlo quotidianamente lo cibavano con le loro pecore; in mancanza di bestiame, gli furono dati in pasto dei giovani finché, un giorno, fu estratta fra essi Silene, figlia del re, il quale offrì tutti i suoi averi per risparmiarla alla morte, suscitando nel popolo la ribellione; allora il re si rassegnò e Silene fu condotta al supplizio. San Giorgio era un eroico cavaliere che, passando presso lo stagno, venne a conoscenza della storia e si offrì per difendere Silene: egli trafisse con la sua lancia il drago, al collo del quale pregò la principessa di legargli la sua cintura ed entrambi lo portarono, come fosse un cane, a Selem. Giorgio placò quindi gli spaventati abitanti dicendo che in cambio della loro conversione, che ottenne subito, avrebbe ucciso il drago che fu così sacrificato e trascinato fuori da otto buoi.

Torniamo ad Angel of Mercy dei Dire Straits:

“Bene, c’è una luna da Peter Pan, che è la delizia del pastore/ Ho affrontato il drago a mezzogiorno, sì e ho vinto il combattimento/ Ora voglio la mia ricompensa stasera in paradiso, come mi hai promesso/ Angelo misericordioso, non c’è bisogno di allarmarsi/ Il cavaliere nella sua armatura vuole una notte tra le tue braccia/ Sai che è sincero […] Angelo misericordioso, angelo di delizia, dammi la mia ricompensa stasera in paradiso/ E se smetterò di usare la mia spada, non mi lascerai fare ciò che è giusto/ Dolce angelo?”

Non può non affiorare alle nostre menti la leggenda di san Giorgio e il drago, scorrendo anche i testi di Knopfler certamente dedicati, ancora una volta, alla sua principessa.

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Qual è il giorno? Qual è l’ora? Troppo tardi!

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: «Ecco lo sposo! Andategli incontro!». Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: «Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono». Le sagge risposero: «No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene». Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: «Signore, signore, aprici!». Ma egli rispose: «In verità io vi dico: non vi conosco». Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.” (Mt. 25, 1-13)

 

L’evangelista Matteo, unico degli evangelisti che riporta questa parabola, sviluppa un insegnamento sulla fine dei tempi e la utilizza per esortare a essere pronti nell’ attesa del ritorno di Cristo. Il fatto è ripreso dalla vita quotidiana in un villaggio palestinese: il giorno precedente le nozze, al tramonto, il fidanzato si recava con gli amici a casa della fidanzata, che lo attendeva insieme ad alcune amiche al proprio posto dopo un preciso segnale. Questa parabola fu spesso sintetizzata con l’immagine delle dieci vergini distinte in stolte (o folli) e sagge (o savie, prudenti) come nelle sculture a tutto tondo poste ai lati dei portali di ingresso di edifici religiosi romanico-gotici del XII-XIII secolo, soprattutto francesi e tedeschi, nell’ambito delle rappresentazioni del giudizio universale poste nel timpano centrale. Le figure delle vergini erano in origine colorate, i capelli, ad esempio, giallo vivo, alcuni anche castani, gli elementi decorativi come fasce per capelli e cinture erano dorati, le vesti, se non anche dorate, offrivano una in vari toni locali e con i loro ornamenti una vista magnifica.

 

In Francia, a Strasburgo, statue delle vergini decorano i piedritti laterali del portale principale della Cattedrale di Notre-Dame, come allusione al giudizio finale e al diverso destino degli eletti e dei dannati. Le vergini sagge sono ritratte sorridenti con le loro lampade a olio, accolte e benedette dallo sposo divino. Le vergini stolte invece, rovesciano e buttano via le lampade ormai prive d’olio e divenute inutili, cedendo alle lusinghe del Tentatore, un giovane sorridente ed elegante, che le attrae con la simbolica mela di Eva.

 

 

In Germania, a Erfurt, nel portale Est della cattedrale gotica, in corrispondenza del transetto, lo scultore ha rappresentato nelle giovani i loro diversi sentimenti: le sagge sicure di sé sorreggono con orgoglio le loro lampade nella mano, mentre all’opposto, le stolte hanno le lucerne cadute.

 

 

A Magdeburgo, nel transetto Nord della cattedrale, lo scultore accentua i sentimenti elementari di felicità, da un lato, in cinque gradazioni dei sorrisi, da dolcemente sobri ad ampi; di tristezza, dall’altro, con l’espressione che va dalla contemplazione silenziosa ai gesti di lamento e di pianti esagerati. In questo modo lo spettatore medievale, a cui era rivolta la scena, viene posto subito di fronte al giudizio finale con la forza tremenda dell’accostamento tra beatitudine eterna e dannazione eterna.

 

 

 

 

 

Nelle pitture questo tema talvolta è utilizzato in occasione di nozze; le vergini sono a simboleggiare l’attesa dello sposo. In quelle dipinte a Parma tra il 1530 e il 1539 da Francesco Mazzola detto il Parmigianino sull’intradosso dell’arco trionfale nella chiesa della Madonna della Steccata di proprietà dell’omonima confraternita, le ragazze, in numero ridotto, forse per mancanza di spazio, sono tutte esili, aggraziate, eleganti e bellissime con sul capo vasi colmi di gigli: in ombra le stolte con le lanterne spente, cupe e riflessive e in luce le sagge, con le lanterne accese, sorriso sulle labbra, volto luminoso, ma tutte prive di impulso religioso. In questo caso il soggetto ha anche un altro preciso riferimento: la donazione della confraternita per la dote del matrimonio alle giovani povere e oneste che sfilavano in processione per le vie cittadine.

 

 

Lo stesso soggetto viene trattato nel dipinto del 1890 da Giulio Aristide Sartorio, artista romano (1860-1932), non come un tema teologico, ma come una storia letteraria e poetica, distante dalla pittura sacra medioevale, pur traendone ispirazione, in cui è evidente un’atmosfera tipicamente preraffaellita dove è recuperato il simbolismo dell’arte cattolica primitiva. Quest’opera è conservata a Roma presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna, non era, quindi, destinata a un luogo sacro, ma fu commissionata per le nozze del nobile romano Giuseppe Primoli, amico dell’artista. Sartorio inserì questa parabola in un trittico, elemento caratterizzante i dipinti dei secoli precedenti:  un’opera d’arte sacra, che consiste in un insieme di tre dipinti in qualche modo collegati, di cui uno centrale più grande e due laterali ad esso incernierati (vere e proprie ante, talvolta chiudibili). Il trittico  bene si conviene a tutti e tre i momenti del racconto che lui interpreta: la parte centrale con la ripartizione fra sfera celeste, con il coro di angeli, e sfera terrestre, con la porta del cielo semichiusa, ripresa dalle Porte del Paradiso del Battistero di San Giovanni a Firenze, attraverso cui è possibile intravvedere le scale che conducono a una dimensione altra;  le due parti laterali, dove sono raffigurate nello scomparto di sinistra le vergini savie e nello scomparto di destra quelle stolte, legate alla festa di nozze che si stava svolgendo. L’artista ha dato molto risalto alla preziosità dei particolari come il pavimento cosmatesco, le aureole in stucco dorato degli angeli, le vesti femminili che richiamano i costumi quattrocenteschi, con la resa dei tessuti con l’effetto della seta nei veli che coprono il volto delle ragazze (modelle dell’aristocrazia romana), conferendo loro un corpo esile ed etereo.

 

 

Rimane comunque fondamentale, nella lettura delle opere d’arte religiose, il rapporto tra l’esperienza dello studio del bello e l’esperienza conoscitiva. Da entrambe riceviamo informazioni, entrambe si completano e si integrano a vicenda per rivisualizzare il messaggio evangelico.

Indipendentemente dal soggetto, come afferma il giovane storico dell’arte Jacopo VENEZIANI, «in un’opera d’arte, c’è sempre da vedere più di quanto non sembri. A chi mi chiede quale sia il modo migliore per guardare un quadro rispondo ogni volta dicendo: “Guardarlo per davvero”. Che si sia esperti o meno di storia dell’arte, appassionati o meno di pittura, più si resta a osservare un dipinto e più i dettagli si scoprono, riuscendo così a leggere progressivamente l’opera osservata».

Un tale che passava, un certo Simone di Cirene (2)

Scritto da  MARIA NISII.

 

La passione secondo Marco si apre con Simone di Cirene e si chiude con Giuseppe di Arimatea, altra figura altrimenti ignota nel vangelo. Si tratta di due personaggi chiamati per nome, a differenza della donna anonima di Betania, che prestano cure e attenzioni cariche di misericordia verso Gesù. Ed è su questa misericordia, più o meno forzata, che altre riscritture hanno modulato il loro racconto sul nostro personaggio. Ne vediamo due, una in letteratura e l’altra al cinema.

Composto da racconti veloci come pennellate, Gesù figlio dell’uomo di Kahlil Gibran dedica uno spazio anche a questa figura (in tutto sono 77 i personaggi che prendono la parola in questo mosaico di voci) che arriva verso la fine del testo. Una collocazione spiegata dalla conclusione narrativa: “Accadde molti anni fa; e ancora oggi, seguendo i solchi del campo, e in quel sopore che precede il sonno, rivolgo spesso il pensiero a quell’uomo che amo. E sento la sua mano alata, qui, sulla spalla sinistra”. Anche Gibran rilegge questo personaggio come un seguace, qualcuno che da quell’incontro è stato toccato. Il testo è breve, così che per una volta possiamo leggerlo per intero.

 

 

 

 

 

 

Come visto, la riscrittura di Gibran apporta alcune variazioni e amplia il racconto trasformando il Cireneo in protagonista e punto di vista privilegiato. E poiché è dal suo sguardo che osserviamo la scena, non può non colpire il coinvolgimento dell’uomo – di cui nulla dicono i vangeli – che facilmente può diventare coinvolgimento anche nel lettore. Prima della richiesta del soldato, il Cireneo aveva già notato la fatica di Gesù e già aveva iniziato ad accompagnarlo nel cammino. La richiesta è dunque accolta come qualcosa di desiderato. Gesù, sollevato dal peso della croce, appoggia la mano sulla spalla dell’uomo, ma quel gesto con cui sembra volersi appoggiare all’altro risulta invece un contatto fisico che ne allevia la fatica, donando una sensazione di vicinanza e piacere inatteso. Il peso torna a farsi sentire all’arrivo a destinazione, dove Gesù non reagisce al dolore che gli viene inflitto – la spiegazione qui è curiosa e molto diversa dagli apocrifi di stampo docetista che pure eliminano il riferimento alla sofferenza: le sue membra sembrano riprendere vita sotto i colpi di martello, come fossero in attesa di quel momento; notiamo inoltre l’immagine giovannea della croce come segno di regalità. Il tutto è raccontato come il ricordo di un uomo che ancora molti anni dopo continua ad avvertire il leggero tocco sulla spalla della mano di Gesù. Il discepolato che potrebbe esserne seguito è deducibile dall’amore professato per l’uomo della croce e per il fatto che quella croce è ormai divenuta la sua.

 

 

 

 

 

 

Ancora sotto il segno della misericordia, la figura più originale di Cireneo arriva dal cinema. Nel kolossal  La più grande storia mai raccontata di George Stevens, alla prima caduta di Gesù sotto il peso della croce (anche qui della croce intera e non del solo patibulum), in mezzo alla gente che assiste alla scena compare un uomo di colore (interpretato da Sidney Poitier) che, sconcertato, si guarda attorno e di fronte all’immobilità dei tanti,decide autonomamente di avvicinarsi e sollevare l’uomo caduto da quel fardello. In cambio di quel gesto di umana solidarietà riceve uno degli sguardi più intensi del Gesù interpretato da Max von Sydow.

 

 

 

 

 

 

Da quel momento i due proseguono la strada portando assieme la croce (con l’unico sottofondo del leitmotiv della struggente colonna sonora originale di Alfred Newman) fino quasi alla cima del Golgota.

 

 

 

 

 

Curiosa e pregna di significato la scelta di affidare questo personaggio a un uomo di colore, un outsider anche all’interno del mondo rappresentato. Se si tiene conto che si tratta di un film di produzione americana del 1965, di due anni precedente a Indovina chi viene a cena?, dove Poitier interpreta il ruolo del fidanzato di una giovane della buona società, si comprende meglio come si tratti di anni scottanti per i diritti dei neri. Non è dunque improbabile che la scelta di affidare questo cameo a un attore di colore, rendendo il suo intervento autonomo – a dispetto dell’obbligatorietà di cui lo rivestono i vangeli -, voglia caratterizzarlo in senso ancor più marcato. Non meno importante è lo sguardo di riconoscenza e misericordia di Gesù, su cui la macchina da presa si sofferma alcuni secondi, quasi a indicare il riconoscimento che l’uomo riceve dal Cristo. Sono passati più di cinquant’anni e i fatti italiani recenti sembrano averci riportato indietro a quei tempi, mostrando un volto razzista inedito in alcuni nostri concittadini. Abbiamo ancora bisogno di sostare su quello sguardo d’amore che il Gesù di von Sydow rivolge all’altro uomo, uno straniero che, come il Samaritano della parabola, è l’unico a dimostrare un gesto di pietà.

La stessa che tanti di noi non sanno più provare.

Un tale che passava, un certo Simone da Cirene

Scritto da  MARIA NISII.

 

21Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo. (Mc 15)

32Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a portare la sua croce. (Mt 27)

26Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù. (Lc 23)

17ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota (Gv 19)

 

Come in altri casi ci è capitato di osservare, le riscritture offrono la possibilità di fermarsi su singoli versetti, dettagli, parole. E spesso è in quelle minime pieghe che può emergere qualcosa d’inatteso. Durante il cammino verso il Golgota, che la tradizione ha fissato e a sua volta ampliato nella forma della Via Crucis, compare un personaggio inedito – mai incontrato prima e mai più citato poi – che il vangelo di Marco e quindi gli altri sinottici identificano con il nome (Simone) e la località di provenienza (Cirene, in Libia). Ci si potrebbe chiedere allora perché personaggi importanti come il discepolo amato non siano mai nominati e un uomo di passaggio che fa la sua comparsa in un solo versetto sia identificato in modo tanto preciso. Secondo alcuni autori un indizio arriva dal vangelo di Marco, unico a ricordare i nomi dei figli, riferimento che ha fatto supporre si trattasse di volti noti alla comunità marciana a cui il testo è rivolto. E poiché uno dei figli si chiama Rufo, possibile latinizzazione di Ruben, c’è chi l’ha persino collegato all’omonimo personaggio ricordato nei saluti della lettera ai Romani (16,13).

Che cosa possiamo dire di questo personaggio misterioso? Per la sua provenienza da Cirene, potrebbe essere uno straniero, oppure un ebreo della diaspora che si trovava a Gerusalemme per la Pasqua. E tuttavia il fatto di arrivare dalla campagna non si spiega facilmente: a metà giornata non si torna già dal lavoro e questo ha fatto supporre si trattasse di un proprietario terriero, ma certo non un personaggio a tal punto distinto da impedire ai soldati di obbligarlo a portare la croce. L’omissione del riferimento alla campagna in Matteo ha fatto pensare al divieto della legge di lavorare nei giorni festivi, sebbene tale richiamo non implichi – come detto – alcuna attività lavorativa, né possiamo tout court attribuire al Cireneo un’identità ebraica.

Se l’episodio ha un indubbio valore storico, non possiamo eluderne il senso teologico. Portare la sua croce (Mc 15,21) richiama Se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mc 8,34), immediatamente successivo al primo annuncio della passione. Ma qui Simone non compie un atto volontario, bensì viene obbligato, forse persino con la forza. E a dispetto di tale involontarietà Simone va oltre la richiesta di Gesù, in quanto non porta la propria croce, ma – fuor di metafora – quella di un altro. Analoga sottolineatura sulla costrizione è presente in Matteo, che usa il verbo angaréuo: Simone viene “angariato”, caricato del patibulum – un atto resosi necessario dalla prostrazione in cui Gesù si trovava per aver subito la flagellazione. Luca arricchisce questo episodio con la variante portare dietro a Gesù, un rimando esplicito (quello dell’andare dietro) al discepolato – come sembrerebbe lecito dedurre a partire dal richiamo dei figli. Se volessimo colmare gli spazi bianchi lasciati dal resoconto biblico potremmo allora dire che prima Simone e poi la sua famiglia siano divenuti seguaci del Cristo.

 

 

 

La mancanza di tale riferimento in Giovanni non deve stupire, tenuto conto come in ogni passaggio della passione il quarto vangelo faccia emergere la regalità di Gesù che, anche nei momenti più critici, è pienamente padrone del suo destino – dal suo andare incontro a chi voleva arrestarlo fino alla consegna dello spirito. La sua uscita dalle mura della città, caricato della trave della propria croce, ne mostra quindi la piena dignità regale.

È da questa assenza nel vangelo di Giovanni che curiosamente un testo teatrale, Il quinto evangelista, (posto a conclusione de Il quinto evangelio di Mario Pomilio) deduce un elemento sulla storicità dei vangeli. Nel testo si racconta come durante una serata in una sala parrocchiale, prenda vita una discussione sulle diverse versioni del racconto evangelico. E poiché il dibattito si fa vivace e appassionato, il parroco propone che quattro diverse voci leggano il punto di vista di ciascun evangelista. Tuttavia spontaneamente anche gli altri convenuti iniziano a prendere la parola, arrivando a drammatizzare molti passaggi della vicenda evangelica, così che a un certo punto dell’acceso dibattito, fa il suo ingresso sulla scena il sacrestano per lamentare il suo essere obbligato agli straordinari dal quell’incontro che si protrae oltremodo:

Ero già pronto per andarmene, e scopro che qui si faranno le ore piccole […] Per una sera, per una sera… Come se fosse la prima volta. Il fatto è che loro ci prendono gusto alle loro discussioni. Ma di portare la croce, alla fine, spetta sempre al sottoscritto: il solito cireneo.

Ecco quindi che, citato, questo nuovo personaggio entra a sua volta in questione, assunto – come visto, anche qui quasi naturalmente -, dal personaggio che l’ha chiamato in causa:

[…] Il più estraneo alla vicenda e in pratica il più incolpevole, addirittura il tipico personaggio tirato in mezzo a forza e costretto ad addossarsi una croce non sua…

Ed è appunto discutendo della sua assenza nel quarto vangelo che, dalla voce del personaggio che assume il punto di vista di Caifa, sentiamo qualcosa di meno classico rispetto alla tradizionale comparsa del Cireneo nella quinta stazione:

È vero, sì, che si tratta d’un dettaglio trascurabile, d’un episodio incidentale, ma proprio per questo diventa una prova della veridicità dei tre sinottici. […] Riflettiamoci un istante: se le cose non fossero andate precisamente come le narrano i primi tre evangelisti, perché avrebbero introdotto un particolare di così scarso peso, che non serve a nulla, che non aggiunge nulla, ma che però, si badi, ha sapore di vita vera? Pensate all’inciso di Marco: “Il padre di Alessandro e Rufo”. Pensate a come s’esprime Luca: “E lo caricarono della croce, perché la portasse dietro a Gesù”. Par di vederlo.

Quest’ultimo intervento è indubbiamente molto pertinente al nostro discorso, sia perché mette in campo la questione storica (la verità contenuta nella storia) sia perché parla dell’effetto narrativo (il ritratto sa di vita vera, tanto che par di vederlo), ovvero quel di più presente nel testo letterario.

 

 

(Continua)

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  • In copertina : Tiziano, Cristo portacroce (1576)
  • Nell’articolo: Sieger Koder, Uno straniero aiuta. Simone di Cirene porta la croce (1925)

VEDERE…ASCOLTARE…INTENDERE

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

“Insegnava loro molte cose con parabole e diceva loro nel suo insegnamento:«Ascoltate»”(Mc.4,2-3)

“Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro (alla folla) la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.” (Mc. 4,33-34)

Le parabole evangeliche, sezione importante dei Vangeli sinottici, sono dei racconti per immagini che indicano realtà nascoste, in cui ogni elemento deve essere interpretato, perché il loro significato possa essere compreso e da cui trarre un insegnamento per un àmbito che supera l’esperienza: il mondo invisibile e quello futuro.

Molte parabole, previste nella liturgia o nella catechesi, hanno testi che sono ripetuti periodicamente, così che sono diventate talmente famose che, appena ne sentiamo l’inizio, già sappiamo a memoria tutti i dettagli del racconto, finale compreso. Poiché nell’ambiente di Gesù l’allegoria era il modo corrente di esprimersi per immagini, era ovvio che le parabole venissero interpretate per taluni come un’allegoria, per altri come un brano di vita reale o ancora come metafore. Inoltre, per tutta una serie di parabole esistono molteplici possibilità di spiegazione, a seconda del punto di vista con il quale ci si accosta. Infatti, tutta la storia della Chiesa è attraversata da studi per una loro corretta interpretazione.

Nell’arte figurativa solo alcune parabole hanno riscosso molto successo e sono state rappresentate frequentemente. La scelta di quali parabole rappresentare doveva essere finalizzata a una loro precisa lettura e al loro valore teologico.

Gli artisti si sono trovati di fronte alla necessità di dover sintetizzare in una sola scena questi racconti evangelici, imperniati su immagini tratte dalla vita concreta o dall’esperienza, evocanti quello che capita, sia nella natura, sia nella vita della gente: gesti degli artigiani contadini, relazione di datori di lavoro con i loro operai, modi di agire che comportano sanzioni o ricompense, ecc. Fatti di esperienza comune, da cui trarre gli insegnamenti.

Questo mio studio dei dipinti sulle parabole, inizia con due artisti vissuti in due secoli diversi  – XVII e XIX – e appartenuti a vari periodi artistici che hanno in comune l’aver realizzato numerose opere con questo soggetto.

Domenico Fetti, nato a Roma nel 1589, fu chiamato a Mantova nel 1613 dall’ex cardinale, poi duca, Ferdinando Gonzaga, in qualità di pittore di corte e agente per acquisti di opere d’arte.Tra il 1617e il 1621 circa, traduce con la sua “personale sensitiva profonda religiosità in anni di forti regolamentazioni scolastiche controriformistiche” (Renzo Zorzi *) il racconto biblico in scena di genere; si tratta di in un ciclo di dipinti su tavola di tredici parabole evangeliche, di piccolo formato, destinate originariamente per il rivestimento ligneo della grotta di Isabella d’Este a Mantova e poi trasferite al piano terreno di corte Vecchia a Palazzo Ducale e ora disperse (anche le copie) tra numerose collezioni in Europa e nel mondo. L’intera serie comprendeva le parabole del Seminatore di zizzania (Mt. 13,24-30) – due copie,una alle Gallerie dell’Accademia a Venezia e una alla Galleria del Castello Reale a Praga -; della Pagliuzza e della trave (Lc. 6,41-42) – al Metropolitan Museum di New York -; del Tesoro nascosto (Mt. 13, 44) – collezione privata a New York – e della Perla preziosa (Mt. 13,45-46) – al Kunsthistorysches Museum di Vienna-, dei Ciechi (Lc.6,39) (Mt. 15,14), del Servitore spietato (Mt. 18,21-35); del Convito o del banchetto e dell’abito di nozze (Mt. 22,1-14) e (Lc. 14,15-24), della Pecora smarrita (Lc.15,1-7) (Mt.18,12-14), della Dracma perduta (Lc. 15,8-10), del Figliol prodigo o del padre misericordioso (Lc. 15,11-32), del Fattore Infedele o dell’amministratore disonesto (Lc. 16,1-13), tutti alla Gemaldegalerie di Dresda; del Buon samaritano (Lc. 10,30-37) – alle Gallerie dell’Accademia a Venezia – di Lazzaro e del ricco Epulone (Lc. 16, 19-31), opera smarrita, ma testimoniata da alcune copie e da un’incisione.

L’intero ciclo ha quali caratteristiche comuni: una stanza, un androne, un poggiolo, il cortile di una casa padronale, il porticato di una piazza, logge, ruderi che si allargano fino a comprendere un campo, un ovile, un podere, un fossato nel bosco, un sentiero in aperta campagna in cui sono inseriti i protagonisti come attori su un palcoscenico, a rivestire i ruoli più svariati, con inquadrature da teatro volute proprio da Fetti.

Tra tutte queste mi soffermo ad analizzarne solo due, mentre  per quella de La pagliuzza e la trave, è sufficiente la sola  osservazione del dipinto qui sotto riportato  per capire come l’artista l’abbia interpretata.

 

 

La prima, I ciechi, è riportata da Luca; Gesù disse ai discepoli: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?». L’atmosfera è estremamente drammatica, accentuata dalle forme dei due tronchi d’albero nodosi al centro in primo piano, e la scena inquietante delle figure dei ciechi che si trascinano verso il fossato senza urlare anche se precipitano, in contrasto con il contadino sullo sfondo che spinge  due buoi (particolare assente in una copia sempre dello stesso autore).

 

 

 

La seconda, Il seminatore di zizzania, è narrata dall’evangelista Matteo :“Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo.Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò”. Nel dipinto la scena è ambientata in un campo che, secondo le parole di Gesù è il mondo, ed effettivamente mostra un andamento convesso. I contadini sono abbandonati nel sonno, ignari del nemico diavolo, travestito da uno di loro: con il piede biforcuto e le piccole corna tra i capelli,  sta seminando zizzania contro vento e con la mano sinistra abbassata dietro di sé, attraversando i solchi e non seguendoli, con un cestino chiuso anziché aperto, quindi svolgendo azioni maligne e per di più contrarie alla logica. L’olmo sulla sinistra è avvolto dall’edera, simbolo dell’immortalità e della resurrezione.

 

 

Un altro artista che ha raffigurato numerose parabole è Jacques JosephTissot altrimenti noto con il nome di James (1836-1902), pittore e incisore francese vissuto nel XIX secolo: nel 1885, a seguito di un’esperienza mistica, decise di cambiare radicalmente la propria arte e i soggetti delle sue opere. Con la definitiva conversione al cattolicesimo passò il resto della sua vita a illustrare la Bibbia e a viaggiare per dieci anni (tra il 1885e 1896)  in Medio Oriente e in Palestina per illustrare il Nuovo Testamento nel modo più veritiero possibile e ritrovare l’autentica testimonianza delle scritture. Approfondì la sua conoscenza del paesaggio, dell’architettura, dei vestiti e delle abitudini della gente dei paesi in cui visse Gesù, producendo 350 gouache (guazzo simile al colore a tempera) esposti per la prima volta a Parigi nel 1894, ed ora al Brooklyn Museum di New York.

Ne Il seminatore di zizzania (1896),Tissot ha riassunto la parabola con il versetto principale del vangelo di Matteo: “Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò”. L’azione avviene di notte, il cielo è buio con un bagliore di presentimento, il seminatore è un uomo che si guarda attorno con espressione minacciosa, cosciente che sta agendo male; il paesaggio attorno è pressoché arido, con uno strato di pietre.

 

 

Nella Parabola dei ciechi l’ambiente è sempre arido, ed essi, si tengono l’un l’altro, disposti in una lunga fila, secondo un uso ancora in essere, come afferma l’artista,  nelle strade di Gerusalemme, ma sotto la guida di uno di loro che aveva familiarità con gli ostacoli da evitare e conosceva ogni angolo della città. Qui invece ne sono privi e vanno verso il pericolo costituito dal fossato. La  precisione è tale da far apparire le immagini come fotografie: i costumi e gli accessori sono resi con ricchezza e dovizia di particolari e le figure con un realismo così intenso che alla fine risultano fredde ed incapaci di suscitare un autentico sentimento religioso.

 

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  • * Renzo Zorzi: scrittore, operatore culturale, nel 1990 assume la Presidenza del Centro d’Arte Palazzo Te di Mantova

Dal “Re del Mondo” alla cura di un ”essere speciale”

Scritto da  DARIO COPPOLA.

 

René Guénon autore dell’opera  Il Re del Mondo (1927) si ispirò a Ferdinand Ossendowski, autore di Bestie, uomini e dèi (1924). Questi due testi stanno alla base dell’interesse di Battiato per i misteri dell’Asia centrale. Ossendowski fu il primo a parlare di un Re di un mondo situato sotto terra e che si innerva nel nostro mondo.

Guénon vi si ispirò per rinvenirvi ancestrali miti e riti tibetani ed ebraici. L’Agarttha, ad esempio, è la terra ‘inviolabile’; i riferimenti all’importanza fondamentale,  nell’ebraismo, del concetto di terra e alla figura di Melchisedek, re di Salem (Gerusalemme), sono evidenti. MeLeK  in ebraico significa re, e  TZaDoQ  significa giustizia. Il nome  Melchisedek ha la sua origine da MaLKi-TZeDeQ = il mio re è giusto: si tratta del nome del re ideale, composto da MeLeK e TzaDoQ. Proprio di questo re si parla nell’Antico Testamento: in Gen 14, 18-20, Abramo incontra Melchisedek; egli viene poi citato nel Salmo 110 (nella numerazione ebraica; in quella greca è il Salmo 109): «Il Signore ha giurato e non si pentirà: ‘Tu sei Sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedek’». Nel Nuovo Testamento, questo re viene anche citato nella Lettera agli Ebrei: in Eb 5, 6-10 si dice: «Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek»; e in Eb 6,19-7,28: «Questo Melchìsedek infatti, re di Salem, sacerdote del Dio Altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dalla sconfitta dei re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa; anzitutto il suo nome tradotto significa re di giustizia; è inoltre anche re di Salem, cioè re di pace. Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno». Questo re del mondo porta il dono della pace, della giustizia, della salus (salute/salvezza), della cura del popolo.

Nei testi di Battiato si avverte – dunque –  il bisogno di un re del mondo, di un protettore, di un redentore, di un essere speciale… che abbia cura dell’uomo, ma anche si vede l’identificazione del poeta stesso con il ruolo del guaritore, del salvatore. In uno dei suoi testi più conosciuti (La cura, 1997), scritto in collaborazione col filosofo Manlio Sgalambro, il cantautore siciliano esprime l’opera salutare, se non salvifica, di questo essere speciale che potrebbe essere l’altro, il tu, ma anche l’io stesso. In questa sorta di alter ego, ecco delinearsi il bisogno di amare e di essere amati.

“Ti proteggerò/dalle paure delle ipocondrie/ Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via/ Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo/Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai/ Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore/ Dalle ossessioni delle tue manie/ Supererò le correnti gravitazionali/ Lo spazio e la luce per non farti invecchiare/ E guarirai da tutte le malattie/ Perché sei un essere speciale/ Ed io, avrò cura di te/ Vagavo per i campi del Tennessee/ Come vi ero arrivato, chissà/ Non hai fiori bianchi per me?/ Più veloci di aquile i miei sogni/ Attraversano il mare/ Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza/Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza/ I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi/ La bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi/ Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto/ Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono/ Supererò le correnti gravitazionali/ Lo spazio e la luce per non farti invecchiare/ Ti salverò da ogni malinconia/ Perché sei un essere speciale/ Ed io avrò cura di te/ Io sì, che avrò cura di te”

(testo integrale de La cura).

https://www.youtube.com/watch?v=zXWqcZyzTvk

 

Un primo riferimento alla Cura, mostruosa personificazione delle preoccupazioni, si trova nel canto sesto dell’Eneide di Virgilio: «Proprio sull’entrata dell’Orco/ hanno il loro giaciglio/ il Lutto e la Cura vendicatrice […]»[1]. Nella versione del capolavoro virgiliano di Cesare Vivaldi, presentato da Giuseppe Ungaretti, il nome di Cura è tradotto con «i Rimorsi»[2]. Nel I sec. a. C., con lo spagnolo Gaio Giulio Igino[3] che scrive, in latino, le Fabulæ abbiamo una svolta semantica, in virtù della quale il nome Cura non è più riferito a qualcosa di negativo, come gli affanni, le preoccupazioni e i rimorsi, ma assume il significato destinato poi ad affermarsi fino a oggi. Le Hygini Fabulæ sono 277 racconti mitologici sulle origini del cosmo e proprio qui, nel Mito 220, troviamo il mito di Cura:

La “Cura”, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La “Cura” lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la “Cura” pretese imporre il suo nome a ciò che essa aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la “Cura” e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: «Tu Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra).[4]

Massaro[5], parlando di questo testo, fa notare il collegamento con Gn 2, 7: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente»[6].

Un ultimo concetto caro a Battiato, nel mistico e solitario pellegrinaggio della sua esistenza, è stato quello dell’Ananda (beatitudine) di matrice induista. Su questo tema, il musicista lavorò con Giusto Pio.

 

 

Nel giorno del suo funerale (cattolico) è stato proclamato in chiesa il brano evangelico delle Beatitudini di Matteo (Mt 5, 1-12), poiché Battiato, a detta del canonico di Linguaglossa che ne ha celebrato le esequie, amava tanto questa iconica pagina, manifesto del Regno dei cieli. Inoltre, il canonico ha soggiunto che il musicista, ogni mattina, amava pregare con l’invocazione di Charles de Foucauld: Padre mio, io mi abbandono a te. Già nel primo suo film, Perdutoamor (2003), Franco Battiato aveva omaggiato il testo di Matteo e citato, per intero, il tema del più celebre corale (Erkenne mich, mein Hüter) tratto appunto dalla Passione secondo s. Matteo scritta da Bach.

 

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Note:

[1]    Massaro R., L’etica della cura. Un terreno comune per un’etica pubblica condivisa, Editiones Academiæ Alfonsianæ – Lateran University Press, Città del Vaticano 2016, 96.

[2]    Publio Virgilio Marone, Eneide, Editore Edisco, Torino 1970, 201.

[3]    Cfr. Hyginus, Fabularum Liber, Garland, NewYork- London, 1976: ristampa dell’antica edizione della collezione delle opere di Igino C. Iulius Hyginii Augusti Liberti Fabularum Liber (1535), compilata da Jacobus Mycillus (Jacob Moeltzer) edito da Ioan. Hervagium a Basilea. Di Igino non si sa quasi nulla e con molta probabilità non è «Caius Iulius, liberto di Augusto» a cui Moeltzer attribuisce la collezione: cfr. Rose H. J., A Handbook of Latin Literature. From the Earliest Times to the Death of St. Augustine, Dutton, New York 1960, 445-446.

[4]    Heidegger M., Sein und Zeit, M. Niemeyer, Halle 1927; trad. it. Essere e tempo, Longanesi&C., Milano 111995, 247: è la traduzione italiana di Pietro Chiodi del racconto mitologico 220 delle Fabulæ di Igino, che Heidegger riporta prima in lingua originale.

[5]    Massaro R., L’etica della cura…, 94.

[6]    Conferenza Episcopale Italiana, La Bibbia. Via Verità e Vita, Edizioni San Paolo s. r. l., Roma 2009.