La Nuova Atlantide di F. B.

 

Scritto da  DARIO COPPOLA.

“Vivo come un cammello in una grondaia/ in questa illustre e onorata società!/ e ancora, sto aspettando un’ottima occasione/ per acquistare un paio d’ali e abbandonar il pianeta./E cosa devono vedere ancora gli occhi e sopportare?/ I demoni feroci della guerra, che fingono di pregare!/ Eppure, io so bene che dietro a ogni violenza esiste il male…/ se fossi un po’ più furbo, non mi lascerei tentare./ Come piombo pesa il cielo questa notte./ Quante pene e inutili dolori”

(testo integrale di Come un cammello in una grondaia, che evoca la surreale immagine evangelica del cammello – o della gomena, secondo altre traduzioni – che passa per la cruna dell’ago, riportata in Mc 10, 25; Mt 19, 24, Lc 18, 25).

 

https://www.youtube.com/watch?v=T2MoNLA9voI

 

Con questa riflessione esistenziale traboccante di visioni, alla maniera di Rimbaud, ed evocatrice dello spleen di baudelairiana memoria, riprende verso la sua ultima tappa questa escursione nei mondi vagheggiati da Franco Battiato, che ama viaggiare di notte, con la sua fervida mente e col suo desiderio di pace interiore, invocando – alla maniera dei salmi ebraici – una presenza misteriosa che lo protegga:

Difendimi dalle forze contrarie,/ la notte, nel sonno, quando non sono cosciente/ quando il mio percorso si fa incerto./ E non mi abbandonare mai… / Non mi abbandonare mai!/ Riportami nelle zone più alte/ in uno dei tuoi regni di quiete:/ è tempo di lasciare questo ciclo di vite./ E non mi abbandonare mai […] Perché le gioie del più profondo affetto, o dei più lievi aneliti del cuore,/ sono l’ombra della luce./ Ricordami come sono infelice/ lontano dalle tue leggi;/ come non sprecare il tempo che mi rimane./ E non mi abbandonare mai […] Perché la pace che ho sentito in certi monasteri/ o la vibrante intesa di tutti i santi in festa/ sono solo l’ombra della luce” ( da L’ombra della luce).

 

 

Il viaggio dell’anima, tema filosofico e religioso che ricorre dal buddhismo all’orfismo, da Pitagora a Platone, è avventuroso come quello di un nomade:

“[…] Lungo il transito dell’apparente dualità/ la pioggia di settembre/ risveglia i vuoti della mia stanza/ ed i lamenti della solitudine/ si prolungano,/ come uno straniero non sento legame di sentimento./ E me ne andrò/ dalle città/ nell’attesa del risveglio./ I viandanti vanno in cerca di ospitalità/ nei villaggi assolati/ e nei bassifondi dell’immensità/ e si addormentano sopra i guanciali della terra./ Forestiero, che cerchi la dimensione insondabile,/la troverai, fuori città,/ alla fine della strada” (da Nomadi).

 

 

Se nella metempsicosi l’anima vaga per reincarnarsi eternamente, durante la vita di un corpo invece, questo viaggio avviene nel sogno, nei meandri dell’inconscio, tanto scrutati da Freud:

“Ci si risveglia ancora in questo corpo attuale/ dopo aver viaggiato dentro il sonno./L’inconscio ci comunica coi sogni/ frammenti di verità sepolte:/ quando fui donna o prete di campagna/ un mercenario o un padre di famiglia./ Per questo in sogno ci si vede un po’ diversi/ e luoghi sconosciuti sono familiari./ Restano i nomi e cambiano le facce/ e l’incontrario: tutto può accadere./ Com’era contagioso e nuovo il cielo…/ e c’era qualche cosa in più nell’aria./ Vieni a prendere un tè al ‘Caffè de la Paix’?/ Su, vieni con me./ Devo difendermi da insidie velenose/ e cerco di inseguire il sacro quando dormo/ volando indietro in epoche passate […]” (da Caffè De la Paix).

 

 

Spazio e tempo perdono il loro significato quando ci si avvicina all’infinito e all’eterno… Tuttavia, per Battiato, l’arché, ciò che sta all’origine, è più vicino alla purezza destinata poi a una corruzione ineluttabile:

“Torno a cantare il bene e gli splendori/ dei sempre più lontani tempi d’oro/ quando noi vivevamo in attenzione/ perché non c’era il posto per il sonno/ perché non v’era notte allora./ Beati nel dominio della preesistenza,/ fedeli al regno che era nei cieli/ prima della caduta sulla terra/ prima della rivolta nel dolore […]” (da Sui giardini della preesistenza).

 

E questa degenerazione, questa corruzione, è dipinta favolosamente, in una visione – con cui arriviamo alla meta – che ha dell’apocalittico, intendendo con questo termine quanto ciò significa secondo il suo vero etimo (da apokalyptein, cioè rivelazione). Non va trascurato il richiamo dell’ultima canzone, che qui presentiamo, alla Qabbalah, termine che in ebraico significa ricezione e che designa un testo, appunto ebraico, di insegnamenti esoterici con influssi neoplatonici. E’ tuttavia la cosmogonia esiodea ad aprirci ancora una stanza nell’immaginario palazzo incantato, dalla volta affrescata, che abbiamo visitato. Esso si trova nell’inconscio ove sono presenti, come dei dipinti, i miti che ci raccontano di Atlantide – come aveva fatto anche Platone nel Timeo e in Crizia -, quando gli dei si erano divisi i domini, e se Atene fu presa da Efesto e da Atena, Poseidone si era preso Atlantide, un’isola situata dinanzi alle Colonne d’Ercole, e s’era innamorato di Clito, una donna approdata in quel luogo splendido. Tra i figli che ebbero, Atlante, il più grande, sarebbe divenuto il re dell’intera rigogliosissima isola, piena di sotterranei segreti e ricchissima di metalli preziosi fra cui il fiammeggiante oricalco. Una catastrofe, secondo Platone, sommerse per sempre Atlantide, ma questi racconti, che ispirarono anche La Nuova Atlantide di Francesco Bacone, ci raggiungono ancora, grazie a Battiato, per parlarci dei giorni nostri:

E gli dei tirarono a sorte./ Si divisero il mondo:/ Zeus la terra,/ Ade gli inferi, Poseidon il continente sommerso. Apparve Atlantide./ Immenso, isole e montagne,/ canali simili ad orbite celesti./ Il suo re Atlante/ conosceva la dottrina della sfera/ gli astri, la geometria/ la Cabala e l’alchimia./ In alto il tempio./ Sei cavalli alati,/ le statue d’oro, d’avorio e oricalco./ Per generazioni la legge dimorò nei principi divini./ I re, mai ebbri delle immense ricchezze,/ e il carattere umano s’insinuò/ e non sopportarono la felicità,/ neppure la felicità,/ neppure la felicità./ In un giorno e una notte/ la distruzione avvenne./ Tornò nell’acqua. Sparì Atlantide” (testo integrale di Atlantide).

 

Allontana da me questo calice

 

Scritto da  MARIA NISII. 

 

«Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36)

«Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39)

«Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42)

«Ora, l’animo mio è turbato; e che dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma è per questo che sono venuto incontro a quest’ora». (Gv 12,27)

Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?» (Gv 18,11).

 

I sinottici riportano in modo quasi identico la richiesta di Gesù al Padre nel Getsemani, mentre Giovanni richiama parole simili all’ingresso in Gerusalemme e al momento dell’arresto. In tutti i vangeli questi versetti esprimono la consapevolezza che ha Gesù della sua morte imminente.

Iniziamo col soffermarci sull’immagine del “calice” quale cifra simbolica della sofferenza, attestato in altri passaggi biblici.In Mc 10,35-40 (e paralleli) i figli di Zebedeo chiedono a Gesù di sedere alla sua destra e alla sua sinistra nella sua gloria, richiesta a cui Gesù reagisce sconcertato:

«Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?».

Il “calice” è qui posto in chiaro parallelismo con le parole che verranno pronunciate nel Getsemani. Ma tra questi due momenti vi è in mezzo, centrale anche per la comprensione, l’ultima cena, anticipazione del sacrificio che comporterà tale sofferenza:

Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». (Mc 14)

Troviamo un significato analogo nell’Antico Testamento in Ger 49,12:

così dice il Signore: Ecco, coloro che non erano obbligati a bere il calice lo devono bere e tu pretendi di rimanere impunito? Non resterai impunito, ma dovrai berlo

e in Abacuc 2,16:

Ti sei saziato d’ignominia, non di gloria.
Bevi anche tu, e denùdati mostrando il prepuzio.
Si riverserà su di te il calice della destra del Signore
e la vergogna sopra il tuo onore

 

L’espressione resta nel linguaggio comune. “Il calice amaro”, “bere il calice dell’amarezza” rimandano infatti all’episodio evangelico, indicando per analogia un’esperienza di dolore. Benché Gesù si sia ritirato molte volte in preghiera, questa preghiera in particolare ha colpito più profondamente l’immaginazione, fissandosi nella memoria di lettori e credenti in quanto attestazione dell’umanità del Cristo che, come ogni uomo, ha vissuto l’angoscia di quel male che sentiva incombere su di sé. Il carattere drammatico di questo episodio è stato percepito e rinarrato con diverse accentuazioni.In un testo letterario di carattere spirituale Charles Péguy ritiene che quella del Getsemani sia

una atroce preghiera di un’ansia carnale, di un’ansia terrena… atroce preghiera di un’angoscia infinita… Un testo letteralmente terrificante… se non fossimo abbrutiti da anni e da secoli e da generazioni di catechismo, se non fossimo obliterati, annullati, storditi, inebetiti, assuefatti, resi ottusi… Se noi prendessimo i testi sacri come bisogna prendere tutti i testi, tutti i grandi testi… nella loro integrità, nella loro ampiezza, in tutta la loro crudezza, in tutto ciò che hanno (colto), in tutto ciò che riprendono dalla loro stessa realtà, se noi non lasciassimo, se non ammettessimo che tra noi e loro ci sia l’interferenza dell’abitudine e della stupidità dell’abitudine, …noi saremmo atterriti da questo testo” (Getsemani).

Vasilij Grigor’evičPerov (1878)

 

 

Il testo che ha assunto appieno l’immagine del calice nella sua cifra simbolica è però L’ultima tentazione di Nikos Kazantzakis,che dà forma tridimensionale a questa come ad altre metafore evangeliche che l’autore fa uscire dall’astrattezza linguistica. Così già nell’ultima cena, dopo l’invito a mangiare e a bere

I discepoli mangiarono tutti un boccone di pane, bevvero un sorso di vino, e il loro spirito vacillò. Il vino sembrava denso, come sangue, e il boccone di pane scese dentro di loro come un carbone ardente” (p. 424-5).

La versione cinematografica che Martin Scorsese ha tratto dal romanzo esaspera ulteriormente i toni, mostrando come nella bocca di Pietro il vino si sia realmente addensato in un grumo di sangue

 

che egli si rigira tra le dita prima di lasciarlo scivolare sul pane.

 

 

Il segno del calice torna naturalmente nel Getsemani, dove Gesù prega ardentemente e disperatamente prima di pronunciare le note parole:

Padre, sto bene qui, terra contro terra, lasciami così. Il calice che mi dai da bere è amaro, troppo amaro, non ne posso più… Se è possibile, Padre, allontanamelo dalle labbra”. Ma qui la risposta arriva esplicita: “L’aveva appena detto che vide alla luce della luna, su di lui, un angelo dal volto pallidissimo, severo, che scendeva. Le sue ali erano fatte di luna e teneva tra le mani un calice d’argento” (p. 431-2).

 

Il film dà all’angelo le fattezze di Giovanni, mostrandolo al contempo addormentato assieme agli altri. È un Giovanni silenzioso quello che appare a Gesù come risposta dal cielo, che non solo gli porge il calice affinché lo beva lì subito in segno di accettazione, ma lo accarezza per dargliene la forza.

 

Come abbiamo già avuto modo di notare, non è facile dare la parola a Gesù nelle riscritture, che raramente offrono testi apprezzabili e credibili. Tanto più il Getsemani sembra un banco di prova che poche forme artistiche hanno dimostrato di superare in modo efficace. Nell’arte (forse) il risultato migliore è stato raggiunto da Francisco Goya in Orazione nell’orto (1819), dove l’artista rinuncia al colore e alle forme avvolgendo le figure in un manto nero che associa il Getsemani al Golgota. Gesù in ginocchio infatti, aprendo le braccia, traccia le linee di una croce. E anche qui, in risposta alla preghiera, un angelo porge il calice. Di fronte alla visione del dramma che si sta consumando, l’arte sembra ritirarsi, mostrando la sua incapacità di rappresentare. La rinuncia a una immagine conclusa ed esteticamente gratificante diventa manifesto poetico ai limiti dell’aniconismo.

Tra le parole letterarie più intense scegliamo invece quelle di Stefano Jacomuzzi in Cominciò in Galilea:

Sono un uomo perduto nell’estrema delle sue notti. Le radici profonde della terra e le stelle del cielo ascoltano il grido di disperazione e di rivolta di tutti gli uomini nel mio grido. I dolori, i dubbi, la fede che trema, la speranza che si infrange precipitano la mia anima nell’abisso dell’angoscia. La mia notte, fratelli, è la notte della vostra angoscia. Nella disperazione cerco per voi la luce, nella rivolta una forza che ci sostenga. E pronuncio il mio sì. Padre, che io non beva il calice del dolore… Ma sia fatta, per noi, la tua volontà, non la nostra” (p. 195).

Solidale agli uomini nel dolore, nel dubbio e nell’angoscia questo Gesù è qui “uomo perduto”, che per gli uomini cerca luce e forza. Un Cristo entrato “nel groviglio umano”, come – infine – questo ritratto nella Via Crucis poetica di Mario Luzi:

Padre, siamo nell’Orto degli Ulivi – così chiamano il luogo qui a Gerusalemme.

Mi prostro con la faccia a terra, dico parole dissennate:

Passi da me questo calice. Ma non come vorrei,

come tu vuoi sia fatto.

Ciò che si prepara è nelle Scritture,

a quello ho ordinato i miei pensieri

punto per punto, eppure esito ancora,

farnetico che sia revocabile. Tu entri nel groviglio umano e lo disbrogli

pure così lontano come sei nella tua eternità

da questi nodi delle esistenze temporali. In te pietà ed amore riempiono l’abisso

di questa differenza. Intendimi.

 

Il lungo vangelo della Passione chiede di essere letto soffermandosi su un dettaglio, anche uno piccolo come questo, condensato in una parola. Il calice di Gesù è la croce, una morte dolorosa e infamante, ma anche “l’ora”, ovvero l’evento che compirà la sua missione di uomo. Un’immagine potente e suggestiva, che le diverse traduzioni artistiche non hanno potuto snaturare, abbellire o convertire in altro. Non casualmente, qui più che altrove abbiamo quindi constatato notevole fedeltà e tutt’al più un’apoteosi immaginifica che ha reso visibile il significato dietro il simbolo. Qui più che altrove possiamo allora sostare, senza la fretta di procedere oltre, non “abbruttiti dall’abitudine” del già noto e – come suggerisce Péguy – lasciarci “atterrire” dal testo.

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  • In copertina : Giovanni Bellini, L’agonia nell’orto (1465)

I territori mistici di Battiato

 

 

Scritto da  DARIO COPPOLA.

Gli sciamani sono così chiamati con un termine che in sanscrito designa i santoni e che si riferisce a uomini ai quali si attribuiscono capacità divinatorie e taumaturgiche; i dervisci sono invece i danzatori che ruotano sul proprio corpo per raggiungere l’estasi. Entrambi sono particolari figure religiose care a Franco Battiato. L’esigenza di un’evasione mistica e di un rifugio in luoghi spirituali, e la fuga dalla realtà quotidiana sono per lui impellenti:

:

“Certe notti per dormire mi metto a/ leggere, e invece avrei bisogno di/ attimi di silenzio […] Sulle strade al mattino il troppo traffico/ mi sfianca; mi innervosiscono/ i semafori e gli stop, e la sera ritorno con/malesseri speciali./ Non servono tranquillanti o terapie ci/ vuole un’altra vita […] Sulle strade la/ terza linea del metrò che avanza, e/ la sera ritorno con la noia e la stanchezza./Non servono più eccitanti o ideologie,/ ci vuole un’altra vita” (da Un’altra vita).

 

 

Le dissolvenze oniriche, allusive al mito o alla letteratura, pur non abbandonando mai troppo la tragicità della realtà abbondano nei testi dell’artista siciliano:

 

“[…] Nelle chiese abbandonate si preparano rifugi/ e nuove astronavi per viaggi interstellari/ in una vecchia miniera distese di sale/ e un ricordo di me come un incantesimo” (da I treni di Tozeur).

 

Dalla Tunisia, non lontana dalla Sicilia di Battiato, si parte col treno ad una velocità irreale che ci porta in mondi paralleli, in dimensioni sconosciute, sempre animati da un desiderio e da una curiosità fatti di ascolto e di speranza:

“Parlami dell’esistenza di mondi lontanissimi/ di civiltà sepolte, di continenti alla deriva./Parlami dell’amore che si fa in mezzo agli uomini/ di viaggiatori anomali in territori mistici… di più […]” (da No time no space).

 

Il superamento dello spazio e del tempo è la ricerca di una dimensione eterna , infinita, che è già evocata da alcune immagini esotiche della realtà finita, nel vissuto di Battiato:

 

“[…] Dicono di storie di Principesse/ chiuse in castelli per troppa bellezza/ fiori di loto, giardini stupendi/ … e Leningrado oggi” (così chiamata fino al 1991, fino allo scioglimento dell’Unione Sovietica; dal 1914 al ’24 era Pietrogrado; dal 1991 a oggi è San Pietroburgo) “strade dell’Est/ Di notte ancora ti può capitare/ di udire suoni di armonium sfiatati/ e vecchi curdi che da mille anni/ offrono il petto a novene…” (da Strade dell’Est).

 

Sembra di sfogliare compendi dei racconti tratti dalle Mille e una Notte. Sembra di viaggiare, come in un sogno, fra l’Anatolia, l’Armenia, l’Iraq (un tempo, Babilonia) e la Siria, in compagnia dei curdi. E sembra di poter mangiare anche noi quei fiori di loto, che nelle credenze antiche della Grecia causavano il raggiungimento dell’oblio. Il viaggio ci porta in Cina, ma anche in Giappone nonché in India, ove foglie e fiori di loto sono ritenuti sacri.

Nonostante continuino a danzare i sufi, monaci islamici (così chiamati perché vestono di suf, cioè di lana) fondati al termine dell’Alto Medioevo e ancora oggi esistenti nell’Iran (un tempo, Persia) o nell’India, la realtà ci sveglia con i suoi caldi venti di guerra:

“[…] Un giorno in cielo, fuochi di bengala… / la pace ritornò;/ ma il re del mondo/ ci tiene prigioniero il cuore./ Echi delle danze sufi… Nelle metro giapponesi, oggi, macchine d’ossigeno./ Più diventa tutto inutile,/ e più credi che sia vero,/ e il giorno della fine/ non ti servirà l’inglese[…]” (da Il re del mondo).

 

Chi è il re del mondo? Nei testi evangelici il principe del mondo indica il maligno (Gv 12, 31; 14, 30; 16, 11). Qui, tuttavia, abbiamo il sospetto che ci si riferisca a qualcuno fra gli uomini più potenti o prepotenti…
Dall’altro lato, oltre all’ascolto, Battiato esprime – infine- il bisogno spirituale, liberatorio, di parlare a qualcuno che invece lo trascenda, e che così riveli la sua essenza stessa

“E ti vengo a cercare/ anche solo per vederti o parlare/ perché ho bisogno della tua presenza/ per capire meglio la tua presenza/ per capire meglio la mia essenza./ Questo sentimento popolare/ nasce da meccaniche divine/ un rapimento mistico e sensuale/ m’imprigiona a te./ Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri/ non accontentarmi di piccole gioie quotidiane/ fare come un eremita/che rinuncia a sé./ E ti vengo a cercare/ con la scusa di doverti parlare/perché mi piace ciò che pensi e che dici/ perché in te vedo le mie radici. Questo secolo ormai alla fine […] mi spinge […] ad […] Emanciparmi dall’incubo delle passioni/ cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male/ essere un’immagine divina/ di questa realtà./ E ti vengo a cercare/perché sto bene con te/ perché ho bisogno della tua presenza” (da E ti vengo a cercare).

 

Dioniso (o Battiato) che danza

Scritto da  DARIO COPPOLA.

 

Concentriamoci, data la sua recente scomparsa, sui versi – intrisi di religione e sacra scrittura – di Franco Battiato, pieni di immagini vive, di visioni un po’ mitologiche, un po’ esoteriche, che s’innestano nel flusso di coscienza e nei ricordi spensierati di un’adolescenza felice:

“Le serenate all’istituto magistrale/ nell’ora di ginnastica o di religione […] per carnevale suonavo sopra i carri in maschera/ avevo già la luna e urano nel leone […] Lady Madonna I can try/ with a little help from my friends […]” (da Cuccurucucù).

 

 

 

 

La critica, tuttavia, emerge dai testi sarcastici del cantautore, che bacchetta i razionalisti seguaci di s. Ignazio da Loyola, paragonandoli a dei severi monaci buddhisti! E ne fa emergere tutti i tratti più grotteschi, in pochi versi:

“Gesuiti euclidei/ vestiti come dei bonzi per entrare a corte dagli imperatori della dinastia dei Ming […]” (da Cerco un centro di gravità permanente). (*)

 

 

 

 

Battiato ama la danza e cita il ballerino russo, uno dei più grandi di tutti i tempi, morto a metà degli anni cinquanta: Vaslav Nijinskij. In un’immagine eloquente, sempre in versi fulminanti, il cantautore mette in un suggestivo contrasto coreografico il mondo della Russia comunista con quella credente:

“Un vento a trenta gradi sotto zero/ incontrastato sulle piazze vuote e contro i campanili […] E intorno i fuochi delle guardie rosse accesi per scacciare i lupi/ e vecchie coi rosari./ Seduti sui gradini di una chiesa/ aspettavano che finisse messa e uscissero le donne/ poi guardavamo con le facce assenti la grazia innaturale di Nijinski […]” (da Prospettiva Nevski).

 

 

 

 

E sempre emerge la vena critica di Franco Battiato: si sente la critica delle armi, tanto cara alla filosofia marxiana, e si vede quanto stiano a cuore al cantautore siciliano la denuncia contro la borghesia, e il parteggiare per chi fa la rivoluzione, che dalla politica passa spesso alla religione:

“L’ayatollah Khomeini per molti è santità […] Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia/ che crea falsi miti di progresso […]” (da Up patriots to arms).

 

 

 

 

Ed ecco che si entra in una serie di mondi fusi, come in un sogno, senza accorgerci del passaggio dall’uno all’altro. Dalla Grecia classica, dai suoi miti più affascinanti, eccoci, ad un tratto, già in Giappone:

“[…] i desideri mitici di prostitute libiche/ il senso del possesso che fu pre-alessandrino/ la tua voce come il coro delle sirene di Ulisse m’incatena/ ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo […] tutti i muscoli del corpo/ pronti per l’accoppiamento/ nel Giappone delle geishe/ si abbandonano all’amore/ le tue strane inibizioni/ che scatenano il piacere/ lo shivaismo tantrico/ di stile dionisiaco/ la lotta pornografica dei greci e dei latini […]” (da Sentimiento nuevo).

 

 

 

 

Dalle geishe, che non sono solo donne atte a soddisfare i piaceri erotici ma anche servitrici di tè e danzatrici…, dal Giappone, dunque, ci troviamo senza accorgercene, in India: lo shivaismo tantrico è il culto induista di Shiva; il tantra è, in sanscrito, la trama o il testo; ci troviamo in un sincretismo religioso: dall’induismo il tantra è entrato anche nel buddhismo – soprattutto nel Tibet – e ne sono nate sette tantriste, che affermano l’identità di spirito e materia, in cui Shiva è il pene, principio maschile, e Shakti la vagina, quello femminile. Nel testo di Battiato l’Oriente pare accoppiarsi con l’Occidente greco (e latino), che alla fine ritorna nella citazione, in una forma quasi uroborica, sicuramente dionisiaca. Certo, Dioniso che danza è l’icona più atta a esprimere i sentimenti religiosi di Franco Battiato, che ancora dice:

“[…] come le balinesi nei giorni di festa. Voglio vederti danzare come i dervisches tourners/ che girano sulle spine dorsali/ o al suono di cavigliere del Katakali. E gira tutt’intorno la stanza/ mentre si danza. Danza […] E radio Tirana trasmette/ musiche balcaniche, mentre/ danzatori bulgari/ a piedi nudi sui bracieri ardenti […] Nei ritmi ossessivi la chiave/ dei riti tribali/ regni di sciamani/ e suonatori zingari ribelli[...]
(da Voglio vederti danzare).

 

 

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(*) A proposito dei  Gesuiti euclidei:  

Dice lo storico Alessandro Barbero che fra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, i gesuiti avevano trovato il loro “centro di gravità permanente” nell’Impero Celeste, presso la Cina dei Ming.

Il loro pioniere era “Li Madou”, che vestiva con un caffettano di seta nera e portava sul capo il cilindro tipico dei mandarini, nero anch’esso. Si esprimeva in un cinese impeccabile e scriveva lunghe lettere a dimostrazione della sua perfetta padronanza degli ideogrammi, che gli consentiva d’intavolare dotte discussioni filosofiche coi maestri confuciani.

 

Un concerto a riscrivere l’umanità di Dio

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

Letto così, il titolo sembra perlomeno temerario. Eppure, proprio di questo si è trattato, quando giusto 6 anni fa  si è ideato, realizzato  e portato sul palco  “SINgDONE. Uomo, tra noi”, il concerto reading con cui, l’Ufficio per la Pastorale della Cultura della Diocesi di Torino e il Marco Nieloud Ensemble hanno voluto accompagnare l’Ostensione della Sindone. Un concerto, di canzoni pop/rock, e un reading: tre recitativi a dare qualche spunto di riflessione sul concetto di “Uomo, tra noi” .

 

 

ll concerto ha offerto, attraverso le suggestioni di un repertorio di canzoni e testi, alcuni spunti sull’intreccio tra la nostra vita e Dio, quale che sia la declinazione con cui viene venerato o creduto.

Pur prendendo le mosse da indimenticabili brani di autori italiani, come De Andrè, Guccini, Finardi, Bertoli, il programma del concerto, non ha poi tralasciato artisti stranieri quali Bob Dylan, i Rem e i Beatles, ad ulteriore testimonianza dell’universalità di questo genere di tematica e dell’attenzione su di essa riversata. In che modo queste canzoni si leghino all’ostensione della Sacra Sindone, è presto detto, ossia attraverso il rimando di questo lenzuolo ad un Uomo che ha subito ogni forma di sofferenza, anche la più atroce. Come disse Papa Francesco, nel 2013 parlando ai cappellani degli Istituti penitenziari, “Anche il Figlio di Dio è stato un carcerato, un giudicato, un condannato”.

Per questa ragione il progetto Singdone ha previsto una serie di tappe in luoghi di particolare sofferenza; così, dopo l’Istituto di pena minorile Ferrante Aporti ed il Cottolengo di Torino, è stata la volta della Casa circondariale “Lorusso-Cutugno” con i suoi oltre milleduecento detenuti, una nutrita rappresentanza dei quali ha avuto modo di assistere ed applaudire lo straordinario quartetto che ha calcato il palcoscenico torinese. A seguire altre due tappe: al Fatebenefratelli di San Maurizio Canavese, e di nuovo al Santo Volto di Torino, in concomitanza con la visita di Papa Francesco, per la replica finale riservata alle giacchette viola, i Volontari della Sindone.”  ( da https://www.carceretorino.it/news/tra-i-detenuti-in-musica-luomo-della-singdone )

 

 

Il nostro fare canzoni e parole,  impastate come sono nelle storie e nelle vite di tutti i presenti , lasciandole parlare entrambe di noi, della sofferenza e di Dio, ha rappresentato un buon momento di cultura partecipata. Desideravamo portare il messaggio della Sindone ( Dio , uomo tra noi, viene a salvarci tutti condividendo la nostra sofferenza ) a quelli che non avrebbero potuto incontrarlo diversamente. In realtà , facendolo, ci siamo accorti di  averlo  ricevuto da loro, quello stesso messaggio, “incarnato” , per dir così, nella loro   esperienza di vita concreta e quotidiana. Si è realizzata, tra le nostre mani,  una osmosi tra vita vissuta e musica, tra sensibilità artistiche diverse e esperienze umane piu’ diverse ancora. E’ stata una grande e ancora vivissima emozione.

Nell’invitare alla partecipazione alla serata conclusiva del  SINgDONE Tour  2015, Marco Nieloud cosi’ scriveva:

Sono fermamente convinto che una canzone resta una canzone e per cambiare il mondo ci vuole ben altro. Dopo una vita passata ad amare forsennatamente, esplorare, scandagliare e vivisezionare Beatles, Lennon, Dylan, la grande canzone francese, alcuni cantautori, ecc., non è adesso che scopriamo l’acqua calda. Scopriamo e avvertiamo, forse per la prima volta grazie a questo concerto, certi brividi nuovi, certe emozioni, certe corde che vibrano meglio e forse più intensamente, o in modo diverso e, che so, forse viviamo anche meglio certe parole di “My sweet Lord”, o no? …

Ecco perché sono particolarmente legato a questo evento che prepariamo da mesi e a cui vi invito a partecipare, dove partecipare non vorrà dire solo esserci, ma cantare con noi per arrivare all’anima di certe canzoni. La Sindone ci parla di dolore e sofferenza, roba tosta per l’appunto, e roba che esula da qualsiasi convinzione o fede religiosa. La sofferenza ci riguarda tutti, purtroppo, prima o poi, e io lo so bene, quindi … Noi abbiamo affrontato e montato questo concerto “ex-novo” con un approccio totalmente laico, ma a volte mi sono sentito molto preso e toccato, anche “ religiosamente” da tutto il dolore e i disagi che ci stanno attorno da sempre, nelle carceri, negli ospedali, tra la gente con forti disabilità che ha avuto un momento seppure minuscolo di gioia cantando con noi, dentro a un’esistenza spesso impietosa e scevra di bei momenti. Quelle situazioni che ti fanno dire: “ma quanta fortuna ho avuto io?”, oppure, “ma quando mi decido a essere un cristiano un po’ miglior cristiano di quel che sono?”. Ecco, per me cantare la Sindone vuol dire proprio questo: portare anche attraverso una “semplice” canzone un momento di umanità, di riflessione perché chiunque sia stato messo dentro a quel lenzuolo, Gesù o chiunque altro, ne ha viste di cotte e di crude e tutta quella violenza, ahimè e ahinoi!, non è finita e non è scomparsa dal mondo: anzi proprio in questi tempi balordissimi assistiamo, spesso impotenti, a una  sua preoccupante recrudescenza .

In sintesi, non sentirete canzoni di chiesa (senza peraltro nulla togliere alle stesse), non sentirete un concerto palloso, greve, triste, truce o portatore di sfiga, non uscirete dal teatro dicendo: “Sì, vabbè, però che mattonazzo, che angoscia!” Niente di tutto questo, al contrario, potrete cantare e ricordare melodie e parole note e molto note di autori con la “A” maiuscola che hanno saputo andare oltre e trattare temi non sempre facili, sforzandosi di lasciare a modo loro il più bello dei messaggi:  un messaggio di speranza.”

 

La terra si scosse

 

Scritto da MARIA NISII.

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 27,51):

50 E Gesù, emesso un alto grido, spirò.51 Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, 52 i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. 53 E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti.

 

Al momento della morte di Gesù, solo Matteo parla di terremoto e di una serie di altri eventi “apocalittici”: lo squarciarsi del velo del tempio, lo spaccarsi delle rocce, l’apertura dei sepolcri, la resurrezione dei santi, l’ingresso nella città. Alcuni di questi eventi riproducono l’episodio delle ossa inaridite di Ez 37 (terremoto, apertura sepolcri, resurrezione, ingresso nella terra santa). In particolare il terremoto torna anche in Apocalisse all’apertura del sesto sigillo:

E vidi, quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, e vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come un sacco di crine, la luna diventò tutta simile a sangue (6,12)

e quando il settimo angelo versa la sua coppa:

Ne seguirono folgori, voci e tuoni e un grande terremoto, di cui non vi era mai stato l’uguale da quando gli uomini vivono sulla terra (Ap 16,18).

Si tratta di immagini teofaniche, volte a indicare l’irruzione di Dio nella storia degli uomini. Se infatti Dio è ritenuto autore e padrone della natura e di tutti i suoi fenomeni, l’evento sismico è percepito come una manifestazione della sua presenza attiva e sconvolgente. Questo linguaggio apocalittico è da un lato tradizionale e già ben noto nell’Antico Testamento (e in specie in taluni profeti Ezechiele, Amos, Zaccaria), ma pure criticato al suo interno come emerge nel ciclo di Elia:

Gli disse: «Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. 12Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. 13Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna.(1Re 19,11-13)

Trattandosi di un elemento suggestivo e foriero di divagazioni, ci si aspetterebbe di vederlo rifiorire oltremisura nelle riscritture. E invece il terremoto è un tratto tutt’altro che frequente all’interno della cornice narrativa in cui è inserito quel momento drammatico che è la morte di Gesù. Seguiamo solo una scelta di quattro proposte provenienti da altrettante forme espressive.

 

 

In questa crocifissione di Giuseppe Maria Crespi (1729), alla morte di Gesù il movimento terrestre riferito da Matteo è qui rappresentato dai soldati che cadono a terra terrorizzati. Il buio alle spalle del corpo di Cristo contrasta con la luce riflessa sul petto, una luce che dirada man mano nella parte inferiore del dipinto. Notiamo ancora come alla compostezza dell’uomo senza vita (in alto) corrisponda il caos degli uomini (in basso), dei soldati in particolare, i rappresentanti dell’ordine costituito. Questo terremoto appare così espressione di contro-creazione e di ricaduta del kosmos (ordine creativo) nel caos (il disordine prima della creazione). Tra gli uomini c’è una figura che rispetto agli altri si solleva, levando sguardo e braccio verso l’alto (il crocifisso), non è chiaro se per implorazione o imprecazione: la seconda se si considera la sua immersione nei colori scuri del cielo, la prima se fosse il centurione. Di fronte a costui vi è un uomo di spalle, su cui ricade parte della luce divina che promana da Cristo, ma che rivolge sguardo e braccio verso un altrove orizzontale (altri uomini, disorientamento?). Kaos e kosmos, luce e tenebre. Due mondi diversi ma non separati.Ne Il vangelo secondo Matteo di Pasolini (1964), Gesù ripreso in primo piano alza lo sguardo al cielo ed emette un forte grido al quale la terra reagisce tremando. La scena è ripresa mostrando il movimento sulle vecchie case arroccate, il crollare dei muri cittadini e il fumo che si leva dalle macerie.Segue una carrellata che sale verso il cielo a mostrare il sole velato da una spessa coltre di nubi, per poi registrare la corsa di un gruppo di donne spaventate. Quando la videocamera conclude il suo giro dalla città al Golgota, torna a inquadrare il cielo, dove questa volta il sole è tornato a brillare, un attimo prima di rivelare (ancora in primo piano, ma piegato di lato) il volto senza vita di Gesù.

https://www.youtube.com/watch?v=Awaso0MNprY

(2.05.41-2.06.47)

Tutta la sequenza è  accompagnata dal sottofondo musicale di Mozart, MaurerischeTrauermusik K 477 (https://www.youtube.com/watch?v=–sDBQuz6DY).

 

 

Dalla mozartiana musica funebre modulata su un tempo di marcia passiamo agli adagi delle Ultime sette parole di Cristo sulla croce di Haydn (1796), dove il terremoto è stato messo in musica. Si tratta dell’ultima sequenza, preceduta da 8 adagi (introduzione e sette parole) e da una pausa di sospensione. La breve sequenza è introdotta da corni (come a riprodurre una chiamata dal cielo), mentre il terremoto vero e proprio è interpretato musicalmente da timpani e trombe, utili a dare il senso del crollo totale di cielo, terra e umanità tutta. Si tratta di un brano di soli due minuti e dunque di una chiusura decisamente veloce alle lunghe sequenze di adagi di dolore. È la ribellione violenta dell’universo alla morte di Cristo.

https://www.youtube.com/watch?v=oBsZKF3mcv8

(da 1.04.48 alla fine)

 

 

Nelle varie riscritture letterarie, il motivo del terremoto appare raramente e anche in quei casi è appena accennato. Lo sguardo di Gesù di Riccardo Bacchelli invece lo ripropone con una suggestiva variante. La narrazione costruisce la vicenda evangelica a partire da Itamar, l’ex indemoniato di Gerasa che segue Gesù sempre da lontano, per avvicinarsi ancora a colui che l’ha guarito solo sotto la croce, dove ne emula involontariamente il tragico destino,ucciso a sua volta dal nemico che lì ha ritrovato – Miasma, terrifica personificazione del male, come il nome suggerisce.

Itamar aveva desiderato da subito seguire Gesù ma ne aveva dovuto subire il rifiuto, attorno al quale si era a lungo arrovellato. Ma quando infine può di nuovo riavvicinarlo è troppo tardi e può solo assistere alla sua agonia. L’amore per il suo guaritore non può trovare allora migliore approdo che seguirne la sorte:

E fu il grido della morte, quand’emise lo spirito, e si fecer le tenebre, e la terra tremò, e i sepolcri restituirono corpi e spettri di morti, e si ruppe il velo del tempio. Ma quegli ch’era stato un tempo l’indemoniato della riva gerasena, Itamar, nel sentire che gli fuggiva dagli occhi la luce e che la terra gli mancava sotto i piedi per le tenebre cadute sul mondo e per il terremoto che lo scuoteva, non dava più mente a Miasma e alla feroce promessa dell’antico compagno. In quelle tenebre e in quella scossa, in quel grido supremo, accolse coscienza di morire insieme a Gesù.

Qui tenebre e terremoto non sono più causa di terrore, ma “coscienza di morire con Gesù”, pace ritrovata. Paradosso dell’amore.

 

 

Una persona con due nature in quell’Agnello

 

 

 

Scritto da  DARIO COPPOLA.

 

Francesco De Gregori ha dichiarato che la sua canzone “L’agnello di Dio”, anche se è scritta da un non-credente, è piena di fede. Scorriamone il testo, concentrandoci sugli elementi desunti dalla teologia liturgica contenuta nelle formule più note del rito cattolico romano: «Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo». Secondo la simbologia ebraico-cristiana, con tale metafora si indica il Messia-Cristo, termini che rispettivamente in ebraico e in greco indicano l’Unto (si ungeva, in quel contesto, chi aveva una vocazione regale, sacerdotale o profetica), e Gesù, per i cristiani, è l’Unto per eccellenza, il Cristo appunto (participio passato del verbo greco chrio). A Dio (YHWH) gli ebrei offrivano sacrifici, immolando su piccoli altari in pietra agnelli.

 

 

L’uccisione in croce del Cristo è il sacrificio per eccellenza, secondo i cristiani: è Gesù la vittima, l’Agnello immolato, colui che porta il giogo del peccato su di sé, come espiazione per la redenzione della natura umana. I cristiani sono chiamati a seguire la via intrapresa dal Cristo… Ma, presto, cominciano a stancarsi e a trasformarsi in agnelli teneri solo in apparenza. Ecco dove si inquadra la riflessione di De Gregori, che letteralmente citiamo:

«Ecco l’agnello di Dio che viene a pascolare/ scende dall’automobile per contrattare […] All’uscita della scuola/ ha gli occhi come due monete/ il sorriso come una tagliola/ Ti dice che cosa costa/ Ti dice che cosa ti piace/ prima ancora della tua risposta ti/ dà un segno di pace».

Rileggendo il brano attentamente, soprattutto i versi seguenti, si può cogliere anche un riferimento alla natura divina dell’Agnello di Dio: c’è una volontà, espressa gradualmente, di seguire quell’Agnello (si badi alla maiuscola!) «Oh aiutami a fare come si può/ Prenditi tutto quello che ho/ Insegnami le cose che ancora non/ so, non so/ Dimmi quante maschere avrai […]». Il termine ‘maschera’, in greco, si diceva proprio pròsopon, e significa ‘sul volto’, l’ubicazione della maschera. Nella teologia cristiana, pròsopon designa il concetto di ‘persona’: Dio si rivela in tre persone, la seconda delle quali ha due nature, quella divina e quella umana, ed è proprio il Cristo, l’Agnello di Dio. La passione del Cristo, che consiste nelle sofferenze lancinanti alle quali è sottoposto dall’uomo, si rinnova nei cristiani e negli altri uomini:

«Ecco l’agnello di Dio/ vestito da soldato/ con le gambe fracassate/ col naso insanguinato/ si nasconde dentro la terra/ tra le mani ha la testa di un uomo[…] Ecco l’agnello di Dio/ venuto a chiedere perdono […] percosso e benedetto/ ai piedi di una montagna […] legato sopra un altare […] che nessuno lo può salvare/ perduto nel deserto – si pensi alle tre tentazioni – […] senza niente da mangiare […] senza un posto dove stare».

Nei versi appena scorsi, notiamo un’identificazione del cantautore nell’agnello, e il testo si fa preghiera, emergendo dalla meditazione profonda sin qui giunta all’achmé. È una preghiera, certamente laica ma preghiera, quella di Francesco De Gregori, che come un agnello fra gli altri agnelli, umani troppo umani (Esopo direbbe che sono migliori degli uomini), si rivolge al modello, all’ideale, all’Agnello divino che, alla fine è ancora invocato: «Regalami i trucchi che fai/ insegnami ad andare dovunque sarai/ sarò/ E dimmi quante maschere avrò/ se mi riconoscerai/ dovunque sarò/ sarai».

 

 

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  • Questo articolo di Dario Coppola è tratto dalla rubrica “Religione e Società“,  curata per il Corriere di Torino e della Provincia (testata storica, ormai non più attiva), ed è già stato pubblicato il 9/11/1996
  • A questo link, il video della canzone di De Gregori con sovraimpressione del testo: https://www.youtube.com/watch?v=VCknAkyg0gk

L'”Agnus Dei” di De Gregori

 

Scritto da  DARIO COPPOLA.

 

L’iconografia ci presenta il Cristo nel simbolo zoomorfo dell’agnello. L’origine ebraica di questa rappresentazione è chiara: il popolo d’Israele ha sempre vissuto di pastorizia, al punto di correre il pericolo di idolatrare i propri armenti, i propri greggi, i propri animali. Celebri sono i richiami dei Salmi a tal proposito; noi citiamo ad abundantiam in altre occasioni il Salmo 23 (22), nel quale lo stesso salmista si identifica in una pecora che va al pascolo e che dipende totalmente dal proprio pastore, che è Dio, fuori della metafora.

Nel Cristianesimo, si giunge all’apogeo dei paradossi: Cristo fa coincidere in sé gli opposti e così redime la creazione. In lui morte e vita si legano (passando per l’una si giunge all’altra), e questo passaggio, che era la PeSaK ebraica, diventa qui – nel Cristo – un esodo verso l’aldilà, quel mondo Iperuranio che per Platone non era raggiungibile che per l’anima. Cristo è servo e Signore, a un tempo e, insegnando a farsi servi gli uni degli altri, egli realizza la propria signoria sul peccato (amartìa), sulla debolezza, sulla morte; ma soprattutto Gesù Cristo è l’Uomo-Dio, colui che essendo di natura divina e assumendo quella umana redime l’uomo, signore del creato.

 

Il Salmo 8 recita: “Dio hai fatto l’uomo poco meno degli angeli […]/ tutto hai posto sotto i suoi piedi;/ tutti i greggi e gli armenti,/ tutte le bestie della campagna: gli uccelli del cielo e i pesci del mare […]”. E’, tuttavia, un altro il paradosso più emblematico per la nostra riflessione, indubbiamente raffigurato con più frequenza nell’arte scultorea, pittorica, musiva, nei versi della poesia… E si pensi anche alla musica: le messe musicate dai più noti artisti hanno colorato di emozioni le invocazioni di pietà dell’uomo rivolte a Dio, proprio incentrandosi su quell’eccellente paradosso, legato ancora una volta al mondo della pastorizia: Cristo stesso è l’Agnello e, al tempo stesso, è il buon pastore! Un pastore che ama il suo gregge al punto di farsi – lui stesso – Agnello… e portare (questa è la traduzione corretta di tollo, e non ‘togliere’ come viene erroneamente ripetuto), come un giogo, su di sé il peccato (e non ‘i peccati’) dell’uomo.

 

Nel 1996 è pubblicato “Prendere e lasciare“, un album musicale di Francesco De Gregori. Il testo di un brano ivi contenuto – L’agnello di Dio – è interessante per noi. Intanto, vale la pena soffermarsi sulla grafia e vedere che ‘agnello’ è, nell’album del cantautore, scritto con caratteri minuscoli. L’averlo scritto con la “A” maiuscola sarebbe stato un certo riferimento al Cristo. Inoltre, leggendo il testo, nel suo procedere, siamo sempre più sicuri che l’oggetto del riferimento è proprio l’uomo, quel particolare uomo che si fa agnello, ma che è – in realtà – un lupo feroce (Mt 7, 15).

Continueremo, a breve, ad analizzare qui il testo di questa canzone.

 

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  • In copertina: Jan van Eyck (1390 – 1441)  – Agnus Dei , Ghent Altar – particolare
  • Questo articolo di Dario Coppola è tratto dalla rubrica Religione e Società, da lui curata per il Corriere di Torino e della Provincia (testata storica, non più esistente), ed è già stato pubblicato il 26/10/1996.
  • Puoi ascoltare il brano citato di Francesco De Gregori qui: https://www.youtube.com/watch?v=SKh04dw4ujU

CHI SEI? Un fantasma…?

 

Scritto da  NORMA ALESSIO.

Le apparizioni di Gesù Risorto sono raccontate dagli evangelisti con modalità diverse, quelle su cui mi soffermo sono quelle di Luca e di Giovanni in cui Gesù mangia pesce arrostito con i discepoli per dimostrare la sua vera corporeità. Gesù non è un “fantasma”, uno “spirito”, ma ha “carne e ossa”, ed è propriocon l’assunzione di cibo (che) Gesù vuole dimostrare di non essere un fantasma partendo dal presupposto che gli esseri spirituali non mangiano … opinione diffusa ma non una convinzione dogmatica“. ( G.Carrega)

 

(Lc 24, 36-43) Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro”.

 

(Gv 21, 1-14) “Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi la sopravveste, poiché era spogliato, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: infatti non erano lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso or ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si spezzò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», poiché sapevano bene che era il Signore. Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro, e così pure il pesce. Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti”.

 

Questi due episodi si differenziano per il luogo in cui avvengono – in Luca entro la casa, mentre in Giovanni in riva al lago di Tiberiade – mentre li accomunano alcuni particolari: il cibo che Gesù mangia insieme a loro, pesce arrostito, per dire che realmente è avvenuta la sua Resurrezione. Il pesce arrostito è simbolo della dolorosa passione di Gesù, come scrisse Sant’Agostino “Piscis assus, Christus passus” (pesce arrostito, Cristo sacrificato).

L’apparizione di Gesù – in Luca –  a casa dei discepoli, non ha avuto molti riscontri nel campo dell’arte e gli esempi che riporto sono solo due risalenti a periodi distanti tra loro, che evidenziano stili e approcci diversi.

In una delle sei scene rimaste, chiamate Storie del Cristo dopo la Resurrezione, collocate nel coronamento cuspidale della Maestà di Duccio di Boninsegna, realizzata tra il 1308 e il 1311, conservata a Siena al Museo dell’Opera del Duomo, vi è Gesù che appare ai discepoli e mostra le mani con i segni della passione. La rappresentazione ha il disegno tipico della raffinatezza bizantina, i discepoli nella loro compostezza si ritraggono senza essere drammatici, non esprimono esplicitamente i loro sentimenti e sulla tavola si riconosce del pesce arrosto.

 

 

Duccio di Boninsegna

 

 

Il “Cristo risorto appare agli apostoli di Mattia Preti, pittore calabrese, dipinto tra il 1670-1675, conservato a Siviglia al Museo Nazionale, dopo varie attribuzioni e indicazioni errate del soggetto, per l’incertezza dell’interpretazione è stato definitivamente riconosciuto in una delle apparizioni di Cristo agli apostoli dopo la Resurrezione. La scena, costruita con stupefacente e spettacolare visione in un linguaggio caravaggesco, è drammatica: gli apostoli presenti attorno al tavolo su cui vi sono il pesce e il pane, sono ritratti in gesti con enfasi e con l’espressione nei loro volti, tipica della sorpresa e dello spavento, nell’atteggiamento di ritrarsi dall’immagine comparsa davanti a loro da cui proviene la luce divina che li illumina.

 

 

Mattia Preti

 

 

La seconda apparizione presa in considerazione, comunemente denominata “Pesca miracolosa”  – presente in Giovanni – si compone di tre scene: la pesca miracolosa, il pasto del Risorto con i discepoli e il dialogo tra Gesù e Pietro. Gli artisti non sempre hanno interpretato correttamente questo episodio: il più delle volte è stato “fuso” con quello in Luca che racconta di una “pesca miracolosa”all’inizio della vita pubblica di Gesù, con altro svolgimento. Nell’arte moderna ad esempio, un dipinto di Salvatore Fiume del 1977, facente parte della sua collezione donata ai Musei Vaticani, attraverso alcuni particolari lascia, secondo me, l’interpretazione di questo evento e a quali episodi è riferito a chi lo guarda: la vista allargata dell’interno della barca piena di pesci tra due discepoli immersi fino al busto, niente rete né pesce arrosto, altri quattro discepoli che sono dietro, ritti, di cui due con un remo ciascuno; tutti volgono lo sguardo verso lo spettatore, tranne uno che con la mano sulla spalla del compagno a fianco, guarda verso la figura scura a sinistra: Gesù Risorto, il fantasma? In un’intervista l’artista disse: “Non sento Dio sulla tela o nei colori, me lo ritrovo a fianco: una presenza discreta, che a volte suggerisce una soluzione pittorica e spesso tace, come chi sta a guardare e sorridere quando sbagli” .

 

 

Salvatore Fiume

 

 

Ritornando invece ad un’altra rappresentazione più antica, del 1645, la “Pesca miracolosa”di Francesco Gessi, pittore bolognese, dipinta per la Chiesa di San Girolamo alla Certosa di Bologna, vediamo in primo piano il pasto che avviene su una roccia (riferimento simbologico a Pietro?), mentre la “pesca miracolosa”è collocata nel paesaggio sullo sfondo, nel quale si vede Pietro che si getta in acqua andando incontro a Gesù sulla riva. I soggetti ricordano una lontana origine caravaggesca, rappresentata anche nei contrastanti effetti chiaroscurali, dati da un’illuminazione che colpisce i volti e i corpi degli attori da destra verso sinistra e che conferisce maggiore teatralità all’evento. Gli apostoli si atteggiano con naturalezza, come in una scena di vita quotidiana: c’è chi offre il pane, chi controlla il pesce che cuoce, chi dialoga con Gesù; probabilmente il riconoscimento del Risorto è già avvenuto.

 

 

Francesco Gessi

 

 

Nel 2014, per il refettorio del seminario francese a Roma, è stato realizzato un mosaico da padre Marko Ivan Rupnik, teologo, artista, dove nello stesso episodio c’è un intrecciarsi del pesce frutto della pesca, e di quello preparato, il gesto di Pietro che trae la rete a terra, intatta, colma dei pesci. A riva c’è Gesù risorto che ha già i pesci e del pane sulla brace, per l’invito a mensa, segno questo che ha portato gli apostoli a riconoscere colui che prima non sapevano chi fosse. Padre Rupnik così spiega il suo lavoro:“Pietro offre un pesce blu a Cristo e Cristo offre un pesce rosso. Blu è il colore dell’umanità perché l’unica creatura che guarda il cielo è l’uomo, perciò i cristiani hanno detto il blu è umano perché guarda l’azzurro del cielo, mentre rosso è il colore di Dio perché il rosso, dice il Levitico, è il luogo dove c’è la vita e la vita appartiene al Signore dunque il rosso è la vita di Dio, è Dio”.

 

 

Marko Ivan Rupnik

 

 

Joseph Ratzinger, in Opera Omnia Gesù di Nazaret, la figura e il messaggio, riassume così gli eventi dopo la resurrezione di Gesù dalla morte: “Apparire – parlare – stare a tavola: sono queste le tre manifestazioni di sé del Risorto, strettamente connesse tra loro, con cui Egli si rivela come il Vivente”.

 

 

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  • In copertina: particolare da Apparizione del Risorto al lago di Tiberiade di Marko Ivan Rupnik , Refettorio del seminario francese a Roma, 2014

Volti di Cristo nella settima arte

 

Scritto da  MARIA NISII.

In Gesù e la macchina da presa (2005), Dario Viganò recensisce 168 titoli che trattano il tema evangelico a partire dagli esordi del cinema (1895) fino al 2004. Dopo di allora ricordiamo almeno Io sono con te di Guido Chiesa (2010), il sardo Su re di Giovanni Columbu (2012) e Maria Maddalena di Garth Davis (2018). Una produzione quantitativamente rilevante, che non può non sollevare qualche domanda.

Avendo attinto a piene mani dalla letteratura per i suoi soggetti, il cinema ha mantenuto un rapporto costante con i vangeli grazie anche alla loro diffusione e riconoscibilità. Il personaggio Gesù di Nazareth è infatti tra i più rappresentati della storia del cinema, tanto che si può parlare di “genere cristologico”. Indubbiamente nessuna pellicola offre mai un Cristo pienamente soddisfacente, né è mai stata esente da critiche (da parte della chiesa e dal mondo laico). Con la sagacia che li caratterizza i fratelli Coen in Ave Cesare! mostrano le difficoltà a conciliare le diverse visioni di Cristo in un ipotetico tavolo interreligioso, in cui si riesce a rendere cinematograficamente attraente persino un dibattito teologico!

 

Senza entrare ancora troppo nei contenuti, persino la scelta dell’attore chiamato a interpretare Cristo offre motivo di riflessione. Chi scegliere: un divo o uno sconosciuto? Nei Vangeli Gesù non è mai descritto e come sappiamo anche l’arte ha trovato un suo “canone” a partire dall’immagine acheropita (non fatta da mani d’uomo), in cui Gesù è ritratto con la barba e i lunghi capelli, divisi al centro da una scriminatura, che gli cadono simmetricamente sulle spalle.

Il cinema però è una macchina condizionata da esigenze di mercato per i grandi capitali che muove; per questo l’uso del divo è apparsa spesso la carta vincente. E tuttavia, anche questa scelta richiede ricerche particolari, legate alla cura dell’aspetto (costumi, trucco e illuminazione devono essere studiati fin nei minimi dettagli) e della sua rappresentazione (è fondamentale, ad esempio, il momento in cui appare il divo), senza dimenticare che, quando nota, la sua immagine deve trovare collocazione nella storia nel modo più naturale e verosimile possibile.

 

 

È Il re dei re di Nicholas Ray (1961) a creare una sorta di iconografia classica: Gesù (Jeoffrey Hunter) è bello, biondo, ha gli occhi azzurri, non è povero (i vestiti sono colorati e molto belli), è sempre sereno, spesso contento, mai realmente sofferente, oltre ad apparire pienamente convinto della sua divinità; per lo più incorniciato in uno splendido panorama, è ripreso nel modo migliore con i mezzi a disposizione.

 

 

Ne La più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), oltre alla scenografia grandiosa, vi è un cast di grandi attori (il Mosè di Cecil de Mille, Charlton Heston, è Giovanni Battista, il tenente Kojak interpreta Pilato, la signora in giallo Jessica Fletcher Claudia Procula, John Wayne il centurione, Sidney Poitier il cireneo) con Gesù interpretato da Max von Sydow, attore bergmaniano per eccellenza (Settimo sigillo, Il posto delle fragole, Luci d’inverno…), esaltato negli abbondanti primi piani e giustamente definito “un Cristo dagli occhi tristi”.

Per il suo Gesù ne Il vangelo secondo Matteo (1964) Pasolini opta invece  per un non attore, il 19enne studente catalano e antifranchista Enrique Irazoqui, che a suo avviso meglio incarnava la forza rivoluzionaria che lo aveva affascinato nella lettura del vangelo, trovato nella stanza di Assisi dove alloggiava come ospite di un convegno. L’adozione di attori non professionisti è una scelta registica precisa che si rifà al neorealismo, qui adottata per tutti i personaggi (contadini del sud incarnano la rudezza e sofferenza dei palestinesi, amici intellettuali interpretano gli apostoli, rappresentanti della borghesia i farisei) sui cui volti la cinepresa indugia a lungo, a sottolinearne bruttezza, atipicità, asimmetria. Lo stesso Gesù ha il mono sopracciglio e non possiede i tratti angelici che l’iconografia aveva fino a quel momento tramandato.

Allo stesso modo Rossellini per Il Messia (1975) non si è servito di grandi attori, Gesù compreso interpretato da Pier Maria Rossi, ma anche la sua è una precisa scelta poetica. Mosso da intento documentaristico, propone un film didascalico, eliminando qualunque strategia cinematografica che ne avrebbe favorito il coinvolgimento. Al contrario, con assenza di drammaticità si limita a registrare fatti e dialoghi, riportati quasi alla lettera (pur con alcuni interessanti interventi). Il Gesù di Rossellini vive una vita normale, in mezzo agli altri uomini, predicando mentre lavora, cammina, mangia o riposa. Al contrario del Gesù pasoliniano “arrabbiato”, la parola di questo Gesù non è aggressiva e manca totalmente di carica impositiva.

Resta sul canone cinematografico ormai identificato Ted Neeley per Jesus Christ Superstar (1972), l’hippy-movie nato prima da un album musicale (Rock Opera) e poi dal musical di successo planetario. A differenza degli altri personaggi, questo Gesù da opera rock è l’unico a non indossare un abbigliamento hippy, ma possiede i consueti tratti europei (a differenza, ad esempio, del personaggio della Maddalena di origini orientali e di Giuda di colore), ha capelli lunghi e biondi, barba e occhi azzurri. All’inizio del film, alla sua prima apparizione, assistiamo alla vestizione con una semplice (e classica) tunica bianca (con cuciture). È un Gesù superstar in quanto letto nell’ottica dello star system, esaltato al suo ingresso a Gerusalemme da una folla esultante che poi gli si rivolta contro dopo l’arresto. Una folla volubile, che ben si attaglia al concetto di celebrità qui criticato, che vede la massa osannante trasformatasi fin troppo facilmente in folla ingiuriante.

 

 

Riflettori su...di Silvia Arosio: TED NEELEY, “JESUS CHRIST SUPERSTAR – CELEBRATION DAY”, allestimento speciale dell'opera tramonto del sole. Arena di Verona.

 

 

Sulla preferenza di Zeffirelli per il suo Gesù di Nazareth (1977) caduta su Robert Powell, leggiamo le parole del regista rilasciate in un’intervista:

non poteva essere uno sconosciuto, perché … doveva essere uno capace di impersonare il protagonista del racconto. Poi doveva essere inglese, perché il programma inizialmente veniva girato in inglese, e non si poteva pensare di doppiarlo. Per di più doveva essere un attore qualificato, perché doveva pronunciare le parole più belle che siano mai state concepite. In conclusione, doveva essere un attore inglese di una certa maturità, ma con una età precisa tra i trenta e i trentacinque anni. E allora non poteva essere uno qualunque. Perché un giovane bravo può ancora essere sconosciuto… Ma se uno arriva a trentatrè anni e ancora non si è fatto conoscere, vuol dire che non vale proprio niente. Avevo pensato a Dustin Hoffmann. Certo avrebbe rotto ogni schema, ma sarebbe stato troppo pericoloso per un programma destinato a 700 milioni di persone… e duemila anni di iconografia non sono certo passati invano. E poi ognuno ha il suo Gesù nella testa, quasi sempre derivato da quella iconografia. Robert Powell l’ho trovato setacciando il teatro inglese, dal quale ho sempre preso tutti i miei attori. L’avevo scelto per la parte di Giuda, ma i suoi occhi mi sgomentavano, mi turbavano. Allora gli feci fare un provino per Gesù, anche se tutti cominciavano a sospettare che non avessi le idee chiare. Ma come, lo stesso attore per due personaggi così opposti… Ma io gli feci preparare il trucco da Nazareno classico, e durante il provino il personaggio esplose: un controllo, una voce meravigliosa, una capacità di concentrazione… Durante la lavorazione ha fatto delle cose che non si possono chiedere a un attore, mai. Ha superato tutte le prove con un coraggio e uno stoicismo incredibili. Ma il fatto è che gli succedeva qualcosa dentro. In certe occasioni non basta essere bravi… a lui gli scoppiava una luce, un’ispirazione che ci lasciava sgomenti.

Passato alla memoria collettiva come il Gesù con cui molti di noi (o almeno quelli che erano piccoli o giovani negli anni ’70) sono cresciuti, è bene ricordare come sia stato accolto negativamente dalla gran parte della critica italiana per cui basterà richiamare il severo giudizio del Morandini: “… il Vangelo secondo Zeffirelli è un compromesso tra la messinscena lirica, la passerella delle ‘cammeo performances’ e il film storico hollywoodiano. Non solo fa rimpiangere il sublime poverismo di Pasolini, ma sfigura con il discusso Messia rosselliano…”. Nonostante questo vanta la sceneggiatura di Suso Cecchi d’Amico e Masolino d’Amico, oltre alla collaborazione del biblista Pietro Rossano. E se questo Gesù è invariabilmente divino sin da piccolissimo, aureolato da una dorata cascata di boccoli e uno sguardo ipnotico per gli intensissimi occhi azzurri, alcune sequenze meritano la visione.

 

 

 

 

Per la discussa pellicola L’Ultima tentazione di Cristo (1988), Martin Scorsese ha selezionato il cast tra attori hollywoodiani noti e riconoscibili, dando al suo Cristo inquieto i tratti di Willem Dafoe. Un vangelo sempre sopra le righe, ipersimbolico e ridondante, ma non senza spunti di valore, oltre a una colonna sonora d’autore (il rock di Peter Gabriel arricchito dalle note etniche di Youssoun’Dour) e trovate gustosissime (come il Pilato di David Bowie).

 

 

L'ultima tentazione di Cristo | Sky

 

 

È di nuovo su un volto noto e riconoscibile che punta la pellicola italiana di Alessandro D’Alatri I giardini dell’Eden (1998) con Kim Rossi Stuart, che con D’Alatri aveva già lavorato in Senza pelle. Questo Gesù dal volto nostrano non esce troppo dall’iconografia tradizionale, ma al contrario la storia narrata ne copre gli anni della vita privata e ignota, con una ricostruzione del contesto storico-culturale dal taglio moderno (sensibilità pacifista ed ecologista). Una versione di “romanzo di formazione” che assimila Gesù al Budda, come lui sensibile alle sofferenze umane prima di iniziare la predicazione sulla pace e l’amore.

 

 

Cast completo Senza pelle (1994) | FilmTV.it

 

 

Analoga opzione vede Jim Caviezel (La sottile linea rossa di Malick) assumere il volto del Gesù di Gibson nella contestatissima The passion of Christ (2004), anche se in gran parte della pellicola i suoi tratti sono raramente riconoscibili, a parte i brevi flashback. Il volto tumefatto, ridotto a maschera horror, vuole forse scuotere lo spettatore, ma ottiene piuttosto l’effetto di spostare l’attenzione sulle derive di ogni lettura fondamentalista, tradizionalista, dolorista che non deturpa solo il volto dell’attore di turno, ma la bellezza del vangelo.

 

 

Jim Caviezel & Co.: tutti gli attori che hanno interpretato Gesù - Foto - Kikapress.com

 

 

 

All’opposto Joachin Phoenix offrirà un Gesù intenso e molto meno tormentato di tanti precedenti in Maria Maddalena (2018) di Garth Davis. L’attore è in ogni caso volto conosciuto, dalle performance apprezzate (Il gladiatore, Joker), e che qui duetta splendidamente con Rooney Mara, una Maddalena estranea (per una volta, per fortuna!) all’iconografia tradizionale che la vuole prostituta penitente. Di conseguenza anche Gesù non potrà che essere meno naïf, non necessariamente bello, ma non meno carismatico. Non convenzionale e dunque naturalmente (ahimé) criticato dal mondo tradizionalista che non vi ha trovato gli abituali punti fermi (ma per questo resta sempre Zeffirelli, che si può recuperare facilmente su Raiplay).

 

 

 

Caso a parte rappresenta il Cristo di Fiorenzo Mattu (Su re, 2012), gonfio e livido per le percosse, che parla in sardo e, alla maniera di Pasolini, è accompagnato da altrettanti volti comuni e disarmonici di attori non attori su cui campeggia il protagonista “brutto” e reso deforme dal dolore – sul modello del servo sofferente

 

In conclusione possiamo dire che gli attori che hanno interpretato il ruolo di Gesù hanno soprattutto gli occhi azzurri e i capelli sulle spalle. Inoltre sono belli – a parte quest’ultima interessante eccezione che vuole associare il Gesù della passione al servo sofferente. La bellezza, oltre a ben attagliarsi al figlio dell’uomo (Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, perciò Dio ti ha benedetto per sempre. – Sal 45,3), offre una curiosa (e terribile) possibilità: l’effetto di vedere sfigurato un volto bello (una tesi enunciata proprio da Gibson in tempi non sospetti, ovvero occasione di un precedente film: L’uomo senza volto) – come non può che capitare nelle immagini della passione e crocifissione, per quanto anche qui non vi sia accordo, con pellicole che quella sofferenza evitano di mostrarla.

Se ogni volta, per trovare il volto adatto al personaggio Cristo, si è trattato di adottare un modello o rifiutarlo, per lo spettatore nessuno sarà mai pienamente soddisfacente. E tuttavia ogni pellicola contiene elementi di valore (persino quella di Gibson) sui quali vale la pena fermarsi a riflettere. Quando è possibile visionare le scene in modalità “sinottica” emerge il dato specifico, la modalità narrativa adottata, l’intuizione arguta o la problematicità interpretativa. Come il redattore biblico, anche il lettore di riscritture non dovrebbe buttare via niente. Ma data la varietà irriducibile, scegliere si può e si deve. A ciascuno il suo volto. E voi, chi scegliete?