Meditate che questo è stato

Scritto da MARIA NISII.

 

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e i visi amici:

considerate se questo è un uomo,
che lavora nel fango,
che non conosce pace,
che lotta per mezzo pane,
che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna
senza capelli e senza nome,
senza più forza di ricordare,
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele
nel vostro cuore,
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca
i vostri nati torcano il viso da voi.

 

 

Nel gennaio 1946, poco dopo il suo faticoso rientro a casa raccontato ne La tregua (1963), Primo Levi scrive Shemà, una poesia divenuta nota in quanto – senza titolo – è posta in epigrafe a Se questo è un uomo (1947). Il suo titolo originario però contribuisce a comprenderne il senso, in quanto lo Shemà è la preghiera ebraica per eccellenza, recitata due volte al giorno, al mattino alzandosi e alla sera coricandosi, e che dovrebbe anche rappresentare le ultime parole prima di morire (1).Il suo testo è composto da versetti tratti dal libro del Deuteronomio e dal libro dei Numeri, ad eccezione del passaggio in apertura:

Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno.

 Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza. 

Queste parole, che ti ordino oggi, saranno sul tuo cuore: le ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando siederai in casa tua e quando camminerai per strada, quando ti coricherai e quando ti alzerai.

Te le legherai come segno sulla mano e ti saranno come pendagli tra gli occhi; le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte. (Deut,  VI, 4-9)

 

Se ascoltando obbedirete ai miei precetti, che vi ordino oggi, di amare il Signore vostro Dio e di servirlo con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima, Io darò la pioggia alla vostra terra a suo tempo, la pioggia autunnale e la pioggia primaverile, e così potrai raccogliere il tuo grano, il tuo vino e il tuo olio.

Ti darò l’erba nei campi per il tuo bestiame: mangerai e sarai saziato. Ma state in guardia che il vostro cuore non sia sedotto, e non vi allontaniate per servire altri dèi e prostrarvi ad essi. Perché l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi; chiuderà il cielo e non vi sarà pioggia, la terra non dara i suoi prodotti e voi sparirete presto dalla terra buona che il Signore vi dà.

Porrete dunque queste mie parole sul vostro cuore e sulla vostra anima, ve le legherete come segno sulla mano e vi saranno come pendagli tra gli occhi.

Le insegnerete ai vostri figli, parlandone quando siederai in casa tua e quando camminerai per strada, quando ti coricherai e quando ti alzerai.

Le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte, affinché i vostri giorni e i giorni dei vostri figli, sulla terra che il Signore ha giurato ai vostri padri di dare loro, siano numerosi come i giorni del cielo sopra la terra. (Deut, XI, 13-21)

 

Il Signore disse a Mosè: Parla ai figli di Israele e dì loro che si facciano delle frange agli angoli delle loro vesti per (tutte) le loro generazioni, e mettano nella frangia di ogni angolo un filo di lana azzurra. Questo sarà per voi della frangia: guardandola vi ricorderete di tutti i precetti del Signore e li praticherete.

Non correrete dietro ai vostri cuori e dietro ai vostri occhi, seguendo i quali vi prostituite; ma ricorderete e praticherete tutti i miei precetti, e sarete santi per il vostro Dio.

Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatti uscire dalla terra di Egitto per essere il vostro Dio.

IO SONO IL SIGNORE VOSTRO DIO. (Num, XV, 37-41)

 

Come lo shemà Ascolta, Israele… – l’autore esige ascolto, modulandolo in una serie di azioni: considera, medita…

Come la preghiera ebraica formula un precetto – Queste parole, che ti ordino oggi – anche questa preghiera laica impartisce un precetto: vi comando queste parole.

La trasmissione ai figli e la ripetizione nel corso della giornata delle parole dello shemà le ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando siederai in casa tua e quando camminerai per strada, quando ti coricherai e quando ti alzerai– riecheggiano quasi identiche nei versi di Levi: Scolpitele nel vostro cuore, / stando in casa andando per via, / coricandovi alzandovi; / ripetetele ai vostri figli.

La conclusione – O vi si sfaccia la casa, /la malattia vi impedisca /i vostri nati torcano il viso da voi– arriva improvvisa, spezzando il ritmo esortativo assunto fino a quel momento e imponendo una cesura che ha il tono della maledizione (rivolta a chi non obbedirà all’obbligo del ricordo). Ma si tratta ancora una volta di una nota tipicamente biblica, come è evidente in Dt28,15-46:

se non obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, se non cercherai di eseguire tutti i suoi comandi e tutte le sue leggi che oggi io ti prescrivo, verranno su di te e ti colpiranno tutte queste maledizioni: …

Secondo Alberto Cavaglion lo shemà di Levi è una preghiera secolarizzata, che ne dice l’impossibilità nei luoghi dell’inferno: “La mia convinzione è che Levi abbia fatto proprio l’insegnamento di Dante, specie per quanto riguarda l’impossibilità della preghiera nei gironi infernali. Nel luogo in cui l’invocazione a Dio è interdetta, Dio può essere invocato solo obliquamente, magari attraverso l’artificio retorico adottato da Francesca da Rimini nel canto V: «Se fosse amico il re de’ l’universo…». Ma Dante, per Levi, è anche maestro della parodia giocosa, beffarda. Gli stessi diavoli, in fondo, hanno le loro preghiere, astruse e incomprensibili come il famoso «papéSatànAleppe».”  ( https://www.avvenire.it/agora/pagine/la-voce-fioca-e-profana-del-sacro-in-primo-levi ) Un richiamo, quello a Dante, che ci piace riprendere all’inizio di quest’anno a lui dedicato per l’occasione dei settecento anni dalla morte  [2].

Il parallelismo con la Commedia dantesca, evidente nella lettura di Se questo è un uomo, e oggetto di molti studi [3], dimostra inoltre come Levi sia stato un grande scrittore e non solo un testimone. E tuttavia il calco dello shemà non è banale né scontato. Di famiglia ebrea, che gli ha trasmesso le tradizioni ma non la fede, egli si è sempre dichiarato non credente – C’è Auschwitz e dunque non può esserci un Dio, è una delle sue dichiarazioni più riprese [4]. Pur ricalcando lo schema e il tono, nello shemà di Levi notiamo quindi la mancanza dell’atto di fede iniziale – Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno. La preghiera ebraica è stata così privata del suo centro (esistenza e unicità di Dio), al quale viene sostituito l’obbligo del ricordo, il cui oggetto è presto detto: l’offesa all’uomo che il Lager ha perpetrato e la disumanizzazione di vittime e carnefici – i primi ridotti a bestie, i secondi privati di coscienza.

 

Larry Rivers, Primo Levi, Survivor (1987)

 

Neppure la fede in Dio viene esclusa dall’ombra oscura del male che aleggiava sul lager. Di fronte alla preghiera del vecchio Kuhn che ringrazia Dio per non essere stato scelto in una selezione per il crematoio, Levi infatti commenta: “Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto, Beppe il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più?”. Per concludere: “Se io fossi Dio, sputerei a terra alla preghiera di Kuhn”(Se questo è un uomo, Einaudi, p.127). A sua volta Levi è stato tentato a una simile preghiera, come egli stesso racconta nell’ultimo libro, I sommersi e i salvati (1986), quando ha provato il desiderio di rivolgere una richiesta di aiuto di fronte all’ennesima selezione. Una tentazione subito rifiutata, perché comprende che quella preghiera sarebbe stata “blasfema, oscena”.

Il Levi non credente tuttavia ammette che, pur in quella realtà deprivata di senso, coloro che erano riusciti a mantenere la fede possedevano un orizzonte più vasto, che non si fermava ai confini segnati dal filo spinato:

«…sono entrato in Lager come non credente, e come non credente sono stato liberato e ho vissuto fino a oggi; anzi, l’esperienza del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella mia laicità… Non solo nei momenti cruciali delle selezioni o dei bombardamenti aerei, ma anche nella macina della vita quotidiana, i credenti vivevano meglio – come ho potuto osservare. Non aveva alcuna importanza quale fosse il loro credo… sacerdoti cattolici o riformati, rabbini delle varie ortodossie, Testimoni di Geova, erano accomunati dalla forza salvifica della loro fede. Il loro universo era più vasto del nostro, più esteso nello spazio e nel tempo, soprattutto più comprensibile: avevano una chiave e un punto d’appoggio, un domani millenario per cui poteva avere un senso sacrificarsi» (I sommersi e i salvati, p. 114).

Noi che siamo sicuri nelle nostre tiepide case, meditiamo che questo è stato.

 

Larry Rivers, Primo Levi, PeriodicTable (1987)

 

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  • In copertina : Larry Rivers, Primo Levi, Witness (1987)
  • Note:

(1)Similmente alla professione di fede islamica, la shahada, che va sussurrata al neonato e sarà da ripetere per tutta la vita e prima della morte, perché il fedele vada a Dio conoscendola.

[2]https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/l-accademia-della-crusca-e-le-celebrazioni-del-2021-anno-dantesco/8026

[3] http://www.letteralegale.info/contributi/dante-ad-auschwitz-la-poetica-di-dante-nellopera-di-primo-levi/

[4]https://www.lastampa.it/topnews/tempi-moderni/2019/12/01/news/no-io-non-credo-c-e-auschwitz-e-dunque-non-puo-esserci-un-dio-1.38036281

 

Paolo riscrittore

Scritto da GIAN LUCA CARREGA.

Come ben sanno i lettori non sprovveduti della Bibbia, i primi riscrittori della Scrittura sono gli stessi autori biblici. Già dai primi capitoli della Genesi ci imbattiamo in un duplice racconto della creazione dell’uomo, in cui una versione “corregge” l’altra. Questo modo di procedere è alquanto comune nella Bibbia, dove chi scrive dopo curiosamente non cancella quello che non gli aggrada, ma si limita a giustapporre la sua variante. Trovo squisito questo modo di procedere, così rispettoso di chi la pensa diversamente da non volergli togliere il diritto di parola pur avendo il potere di farlo, forte di parlare per ultimo…

 

Il meccanismo è all’opera anche nel Nuovo Testamento, dove abbiamo quattro vangeli e non uno soltanto. Ma è su un altro aspetto che vorrei soffermarmi, quello del rapporto tra i due Testamenti. Al tempo in cui scrivono gli autori del NT ne esiste uno, che essi chiamano la Scrittura o le Scritture ed è ovviamente la Bibbia ebraica, perché non sono consapevoli che stanno scrivendo la seconda parte di quella che diventerà la Bibbia cristiana. Il fatto che i vangeli siano intrisi di citazioni dell’AT non fa molto problema perché Gesù dialogava con persone ebree e i vangeli si muovono ancora in quell’ambito giudaico.

Più sorprendente, invece, è il frequente ricorso alle Scritture ebraiche da parte di Paolo. Non per la persona in sé, un fariseo cresciuto nello studio della Legge che la conosceva a menadito, ma per i destinatari, che erano per la maggior parte dei pagani convertiti alla fede cristiana. Non è facile spiegare perché Paolo citi spesso queste Scritture di cui i membri delle chiese paoline non dovevano essere esperti. E forse ancora più stuzzicante, per non dire persino scandaloso, è il modo in cui le cita. La grande venerazione per la Parola di Dio ci spinge a rispettarla e a tramandarla nella forma più corretta possibile, mentre l’apostolo appare un discolo anche su questo punto, modificandola senza problemi quando lo ritiene opportuno. Proviamo allora a esaminare brevemente un paio di queste riscritture paoline dell’AT.

Dovendo convincere i fedeli di Corinto a mettere mano al portafoglio e sostenere la colletta per i poveri delle chiese della Giudea, Paolo mette sul tavolo diversi argomenti, tra i quali anche la garanzia di approvazione divina per queste opere buone. Così si trova a citare un breve passo del libro dei Proverbi: “Dio benedice l’uomo gioioso che dona” (Prv 22,8). Ma Paolo preferisce sostituire il verbo “benedire” con “amare”, così che la frase suona: “Dio ama chi dona con gioia” (2Cor 9,7). I motivi per questa variante non sono del tutto chiari, ma possiamo ipotizzare che Paolo non volesse veicolare l’idea di una sorta di baratto tra Dio e il fedele, così che Dio ricambiasse il dono fatto ad altri come se fosse una logica di scambio economico. Il verbo “amare” esprime maggiore gratuità e certamente ha un’accezione più ampia della semplice benedizione.

Il contesto del discorso influisce anche sul secondo caso che consideriamo, questa volta nella prima lettera che Paolo scrive alla comunità di Corinto (1Cor 1,19). Nella versione greca di Isaia 29,14 l’apostolo leggeva: “farò perire la sapienza dei suoi sapienti e nasconderò l’intelligenza degli intelligenti”. Chi volesse confrontare questo testo con quello che troviamo nelle nostre Bibbie, noterà che i traduttori greci hanno trasformato i verbi dalla terza persona alla prima persona (perirà/farò perire; si nasconderà/nasconderò). Poiché anche Paolo presenta i verbi alla prima persona singolare, è chiaro che sta seguendo la versione greca. Ma con una significativa differenza: al posto di “nasconderò” troviamo “annullerò”. Perché? Il verbo atheteo (“annullare”) rendeva meglio l’idea di ciò che Paolo intendeva dimostrare ai Corinzi: che Dio ha scelto ciò che è ignobile e disprezzato per “ridurre al nulla le cose che sono” (1Cor 1,28). Dunque l’apostolo si è sentito libero di modificare il testo biblico di Isaia per adattarlo al concetto che gli stava a cuore.

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  • In copertina: Paolo, in “San Paolo “, film  di Roger Young.

 

Il quarto re magio

Scritto da MARIA NISII.

 

La leggenda di un quarto re mago, partito da un paese più lontano degli altri, che perde l’incontro a Betlemme e va errando fino al Venerdì Santo, è stata più volte raccontata, specialmente dal pastore americano Henry L. Van Dyke (1852-1933) e dal tedesco Edzard Schaper (nato nel 1908) che si è ispirato a una leggenda ortodossa russa. (Michel Tournier, Gaspare Melchiorre e Baldassarre, p. 233)

Intrecciata ai noti Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, anche Tournier racconta la storia di un quarto magio di cui ha delineato i caratteri leggendari nella citata postfazione al suo romanzo. Si tratta di Taor, principe indiano e golosissimo erede al trono di Mangalore, il quale è venuto a sapere dell’esistenza di un sublime dolce al pistacchio, il rahatlukum, “buono tanto da soddisfare per sempre, e così saporito che chi ne gustasse una sola volta non avrebbe più voluto mangiare altro fino alla fine dei suoi giorni” (p. 153). Dopo aver inviato senza successo i suoi uomini in missione per entrare in possesso della ricetta di questo cibo trascendente, parte egli stesso con un copioso seguito composto da servi, pasticceri ed elefanti.

Il viaggio alla ricerca di questo dolce misterioso e del Divin Confettiere lo porta a conoscere popoli e personaggi eccezionali. Nel tono fiabesco, che con questo personaggio raggiunge il suo apice, Tournier non manca di delineare il cammino di Taor come composto da tappe di crescita, in un Bildungsroman che assume una meta precisa solo dopo l’incontro con i tre magi di ritorno da Betlemme. Per aver ascoltato gli effetti prodotti in ciascuno dalla visita del Divin Bambino, il giovane principe muove subito alla volta di Betlemme. Tuttavia quando arriva lì, la famiglia è già partita. Ma egli, invece di riprendere subito la strada per raggiungerli, accorgendosi dei corpi emaciati dei bambini poveri di quel borgo, decide di fermarsi alcuni giorni per offrire loro i dolciumi che ha portato con sé nel lungo viaggio con lo scopo di donarli al Divin Confettiere.

Organizza così una merenda notturna nel bosco per tutti i bambini con più di due anni. Purtroppo però, mentre delizia i piccoli con mille leccornie, si iniziano a udire grida di dolore provenienti dal villaggio, come un pigolìo di pulcini sgozzati (pp. 191-2), per scoprire presto che ne sono causa i soldati di Erode che stanno perpetrando la strage degli innocenti.Taor capisce che per lui è finita l’era dello zucchero, età del piacere carnale per eccellenza, e si apre l’era (o l’inferno) del sale, della sofferenza e del sacrificio:

Bambini venivano sgozzati mentre altri bambini seduti intorno a una tavola si dividevano vivande succulente. Un paradosso intollerabile, ma anche una chiave piena di promesse. Intuiva, sì, che quanto aveva vissuto quella notte a Betlemme preludeva ad altro e non era insomma che la goffa copia, l’abbozzo di un’altra scena in cui i due estremi – pasto fra amici e immolazione cruenta – si sarebbero trovati confusi. Ma la sua meditazione non riusciva a bucare lo spessore ambiguo attraverso il quale egli intravedeva la verità. Una parola soltanto gli galleggiava nella mente, una parola misteriosa che da poco per la prima volta aveva sentita, ma dove c’era più ombra equivoca che insegnamento limpido, la parola sacrificio (p. 195).

 

Tintoretto, La strage degli innocenti (1582)

 

L’uscita di Taor dall’età dello zucchero per entrare in quella del sale si realizza con il passaggio dalle saline di Sodoma, di cui il romanziere francese offre una suggestiva interpretazione. Sodoma rappresenta il mondo brutale e brutalizzante degli uomini, che vive del lavoro degli schiavi nelle sotterranee miniere di sale – presieduto simbolicamente dalla moglie di Lot, tramutata appunto in statua di sale (Gen 19,26).Transitando per SodomaTaor sceglie di riscattare un uomo oppresso dai debiti. Rimasto però senza denaro e abbandonato dal suo seguito, Taor avrà solo la sua vita da dare in cambio:

trentatré talenti, sarebbe questa la somma necessaria per salvare quest’uomo? Non mi era venuto in mente che potessi non averla! Non ce l’ho, dunque? Non è un ostacolo! Ho altro da offrirvi. Sono giovane, sto bene di salute. Troppo bene, forse, a giudicare dal mio ventre! Soprattutto non ho moglie né figli. Solennemente, Signori giudici, e te, mercante che sporgi querela, vi chiedo di accettare che io prenda il posto del prigioniero nelle vostre prigioni. Ci lavorerò finché non avrò guadagnato tanto da rimborsare questo debito di trentatré talenti (p. 207).

Scoprirà poco dopo che per ripagare la cifra dovrà trascorrere altrettanti anni di lavoro nelle miniere di sale, ma ormai la decisione è presa e non si pente.

 

Duomo di Monreale, La distruzione di Sodoma (mosaico del XII secolo)

 

Dopo molti anni di quella vita dura, arriva nelle miniere un prigioniero dal quale egli apprende qualcosa di quel Gesù che aveva inseguito da giovane. L’uomo gli narra di cene miracolose, di festini dati ai poveri, di acqua tramutata in vino, di pani e pesci moltiplicati, e di un corpo che è insieme pane e vino e che concede la vita eterna (221-24).Taor comprende che è questa l’immagine del Divin Confettiere che era andato cercando, ma quando ascolta i detti sul pane di vita (Io sono il pane vivente che scende dal cielo. Se voi non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, resta in me e io resto in lui – p. 222), sente che quelle parole risuonano in lui con una chiarezza inattesa:

Procedendo a tastoni in quella luce troppo cruda per la sua mente, egli vedeva tuttavia che certi episodi della sua vita passata assumevano un improvviso rilievo e una nuova coerenza anche se non tutto certamente si faceva comprensibile. Il pranzo che aveva offerto ai bambini di Betlemme e il massacro dei più piccoli che veniva perpetrato nello stesso tempo cominciavano, ad esempio, a mettersi in rapporto e a illuminarsi a vicenda. Gesù non si accontentava di nutrire gli uomini ma si faceva lui stesso immolare per nutrirli con la propria carne e con il proprio sangue. Non era stato un caso che il festino e il sacrificio umano fossero avvenuti simultaneamente a Betlemme: erano due facce dello stesso sacramento, irresistibilmente chiamate ad accostarsi. E persino la sua propria presenza nelle mininere trovava all’improvviso una sua giustificazione agli occhi di Taor. Perché ai piccoli poveri di Betlemme lui non aveva dato che i dolciumi trasportati dai suoi elefanti, mentre ai figli del carovaniere insolvente aveva fatto dono della sua carne e della sua vita (p. 223).

Liberato infine dalla prigionia qualche tempo dopo, si dirige verso Gerusalemme alla ricerca di Gesù. È il Venerdì Santo, e anche questa volta Taor arriva in ritardo. Nella stanza che gli hanno indicato, dove Gesù si è riunito a cena con i suoi, la sala è ora vuota. Ma sulla tavola ci sono ancora le coppe con un po’ di vino e alcuni frammenti di pane. Taor è affamato per non aver toccato cibo da giorni: accosta alle labbra una coppa e si porta alla bocca briciole di quel pane. Purtroppo per il deperimento, il suo corpo non regge e dopo quel piccolo pasto di vino e pane, egli muore. Muore, ma il suo corpo non cade, perché subito viene sorretto da due angeli che lo conducono in cielo. Ed è così che Taor, eterno ritardatario, è il primo a prendere l’eucarestia.

 

Wang Guangyi, The Last Supper (2011)

 

Il finale immagina che Taor sia il primo a prendere l’eucarestia, mentre ne fa anche la prima figura cristica, ovvero il primo imitatore di Cristo, visto che muore per aver sacrificato se stesso in riscatto di un altro. La sua storia è resa con letteraria sapienza in una ridondanza di simboli – dal dolce al salato, dal palazzo principesco alle miniere di sale, dal festino all’altare del sacrificio – perché il suo senso appaia vieppiù inesauribile. Se infatti la ricerca del Divin Confettiere poteva sembrare il capriccio di un bambino viziato, è in quella ricerca che Taor si accorge dei tanti bambini affamati che incontra sulla sua strada, scegliendo di sfamare i fratelli degli innocenti di Betlemme,che delizia con una sovrabbondanza in qualità e quantità, offrendo ben più del semplice nutrimento. È poi di altri bambini, figli del debitore destinati a morir di fame per la crudeltà degli uomini, che si muove a compassione ridonando loro la presenza del padre in cambio della propria vita.

Prima di trovare il cibo trascendente capace di soddisfare ogni fame, Taor ha sfamato bambini affamati la prima volta con dolciumi e la seconda con il dono di sé (e dunque con il proprio corpo!). Il suo viaggio andrà perciò a buon fine con una quest che, a differenza degli altri magi, non si conclude con un ritorno a casa dopo l’adorazione del Divin Bambino, perché nel frattempo (inconsapevole) ne è diventato primo imitatore. Da qui la sua differenza e da qui la leggenda sorta attorno alla sua figura. Verità o finzione? Può esserci verità in un racconto inventato? E quale verità è rintracciabile in questo particolare racconto di finzione? Un tema immenso che cercheremo di scandagliare in tappe. Prossimamente.

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  • In copertina: Benozzo Gozzoli, La cavalcata dei magi (1459)

Passione per le immagini

 

Scritto da MARIA NISII .

 

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme…” (Mt 2,1ss)

 

Questi passi del Vangelo secondo San Matteo racchiudono l’unica menzione che nei testi sacri si faccia dei re magi. I Vangeli secondo Marco, Luca e Giovanni non ne parlano. Matteo non dice in quanti fossero. Il numero tre si deduce genericamente dai tre regali menzionati: l’oro, l’incenso e la mirra. Tutto il resto deriva dagli apocrifi e dalla leggenda, compresi i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre.

L’autore aveva dunque la massima libertà per inventare, conformemente alla sua base di educazione cristiana e alla magnifica iconografia ispirata dall’adorazione dei magi, il destino e la personalità dei suoi eroi… (Michel Tournier, Gaspare Melchiorre e Baldassarre, p. 232-3)

 

Michel Tournier, uno dei grandi scrittori francesi contemporanei, ha rielaboratol’episodio dei magi in un romanzo-fiaba, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre  (pubblicato in originale nel 1980 e tradotto in italiano nel 1995). Nella postfazione richiamata sembra voler teorizzare il lavoro del riscrittore, che opera con libertà maggiore tanto più il testo di partenza è parco di informazioni. Per questa ragione, oltre che per il gusto dell’esotico, il brano evangelico che racconta l’adorazione dei Magi ha conosciuto un grande ampliamento leggendario.

Nella versione di Tournier, Gaspare, re di Meroa, è nero e innamorato di una schiava bionda che lo respinge e lo inganna. Baldassarre, re di Nippur, è un iconofilo e un collezionista d’arte, a dispetto della sua religione iconoclasta. Infine Melchiorre, giovanissimo re mancato di Palmira, in quanto defraudato dallo zio,è ridotto a una vita da mendicante. Questi tre re seguono dunque la cometa, allontanandosi dalle loro terre, per l’amore, le immagini e il potere.

Tra i tre, il re a cui dedichiamo la nostra attenzione è Baldassarre, che in età matura lascia la sua terra per il dolore causatogli dalla distruzione del museo (il Baldassareum), in cui aveva raccolto le grandi opere d’arte reperite durante i suoi tanti viaggi; egli sa che quello scempio è avvenuto su mandato dei sacerdoti del suo regno, ma per evitare l’aperto conflitto è partito per un nuovo viaggio, dal quale si attende di comprendere come comporre il suo amore per le immagini con l’aperta ostilità della sua religione. Durante il viaggio incontra re Gaspare, a sua volta in cammino fuori dalle sue terre per la sofferenza causatagli da un desiderio frustrato. I due si trovano, casualmente, a Ebron, dove si narra che Dio avesse tratto la terra per plasmare il primo essere umano, fatto a sua immagine e somiglianza. L’occasione è allora propizia perché Baldassarre racconti all’altro il dilemma che lo dilania:

Finché l’uomo rimase quale Dio l’aveva creato, la sua anima divina trasverberò la sua maschera di carne, ed egli era puro e semplice come un lingotto d’oro. Allora immagine e somiglianza proclamavano di pari passo un solo e medesimo attestato d’origine. Si sarebbero potute evitare due parole distinte. Ma dal momento che l’uomo disobbedì e peccò, dal momento in cui mentendo cercò di sfuggire alla severità di Dio, la sua somiglianza con il Creatore scomparve e a testimoniare nonostante tutto un’origine lontana, rinnegata, tradita ma non cancellata, restò soltanto il viso, la piccola immagine ingannatrice. È quindi concepibile l’anatema che colpisce la raffigurazione dell’uomo tramite la pittura o la scultura: l’arte si fa complice di un’impostura celebrando e diffondendo un’immagine senza somiglianza. Infiammati di zelo fanatico, i sacerdoti perseguitano le arti figurative e confiscano le opere, sia pure le più sublimi del genio umano. Interrogati, rispondono che così faranno fino a quando l’immagine rifletterà una dissomiglianza tanto profonda e segreta. Forse un giorno l’uomo decaduto verrà riscattato e rigenerato da un eroe, da un salvatore. Allora la sua restaurata somiglianza giustificherà l’immagine, e gli artisti – pittori, scultori e disegnatori – potranno esercitare la loro arte che avrà recuperato la dimensione sacra (p. 40).

In una breve esegesi dei capitoli 2 e 3 di Genesi, Baldassarre spiega il senso della duplice conformazione che Dio ha donato all’uomo. Immagine e somiglianza erano in origine un tutt’uno, tanto che le due parole risultavano ridondanti. Tuttavia dopo la caduta, l’immagine (o viso o maschera) ha perso la somiglianza, causando il veto iconoclasta. La ricomposizione di tale perdita richiede un salvatore, qualcuno che la riscatti. Ed è con questo proposito che ora il re sta seguendo la stella.

Mosaico del Duomo di Monreale (Palermo), XII sec.

 

 

Il desiderio di Baldassarre, che è andato chiarendosi nel viaggio (figura della quest, ovvero ricerca, un motivo letterario che implica un cammino quasi sempre soprattutto spirituale), è di trovare la coincidenza nella stessa immagine di finito e infinito, di verità umana e grandezza divina, del tocco della grazia nella semplicità del quotidiano.Inutile dire che troverà quello che va cercando nella stalla di Betlemme, di fronte al Bambino, al quale si prostra, per adorare quella “carne trasfigurata dallo spirito”:

Perchè non c’è arte che non sia carnale. Non c’è bellezza se non per l’occhio, l’orecchio o la mano.(p. 179)

La gioia ritrovata lo persuade che, al ritorno, saprà convincere i sacerdoti del suo regno che “l’immagine è salva, il viso e il corpo dell’uomo possono essere celebrati senza idolatria” (p. 179). E preso dall’euforia, sente che diventerà un re mecenate, favorendo la produzione della prima arte cristiana. S’immagina così persino uno dei temi che saranno sviluppati a partire dalla vicenda di loro tre, re inquieti e infine pacificati:

L’Adorazione dei Magi, tre personaggi carichi d’oro e di porpora, venuti da un Oriente favoloso a prosternarsi in una misera stalla davanti a un bambino. Ci fu un silenzio durante il quale Gaspare e Melchiorre si associarono alla visione di Baldassarre. I secoli futuri apparivano ai loro occhi come un’immensa galleria di specchi dove tutti e tre si riflettevano, ogni volta nell’interpretazione di un’epoca dal genio diverso, ma sempre riconoscibili, un giovane, un vecchio e un negro dell’Africa.

Dürer (1504)

 

 

Insieme ai tre anche il lettore immagina il dilatarsi nel futuro artistico del tema dell’adorazione dei Magi, richiamando alla memoria le tante opere che questo episodio ha suscitato. Ma ancor più, con Baldassarre, vogliamo ripensare alla fecondità dell’immagine – ricerca del volto autentico e della vera immagine di Dio, di cui si nutre ogni religione. Una ricerca, che pur nella sua costitutiva necessità, ha dovuto attraversare la tensione iconoclasta che considera la trascendenza inattingibile alle sole forze umane, che con l’arte ambisce a rappresentare l’irrapresentabile, immaginare l’inimmaginabile, rendere visibile l’invisibile.

Apparentemente avvolto dall’aura esotica di un mondo lontano, nel romanzo-fiaba di Tournier rinveniamo tutta la profondità di temi teologici e cristologici, laddove Baldassarre, vedendo il Bambino, esprime quanto è stato enunciato magist(e)ralmente in Gaudium et spes 22:

…solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… [Egli] è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato…

Constatiamo allora come questo racconto sia un brillante esempio di teologia narrativa e insieme di teoria dell’arte sacra, in quanto ci ricorda come pure il cristianesimo abbia dovuto superare il veto sulle immagini fissato dal Decalogo. Una fortuna per i nostri occhi e un piacere per i nostri sensi tutti, giacché – come ricorda François Boespflug ne Il pensiero delle immagini – “l’occhio fa percepire sensazioni tattili e persino uditive” (p. 143). E se “l’occhio ascolta”, ci mettiamo infine in ascolto delle tante storie che da queste rappresentazioni hanno preso vita nel corso dei secoli.

 

Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna (526)

 

Giotto (1303)

 

 

 

Duccio di Buoninsegna (1308-11)

 

 

 

Lorenzo Monaco (1422)

https://www.doppiozero.com/materiali/re-magi-due-uomini-e-una-donna

Gentile da Fabriano (1423)

 

 

Raffaello (1500-4)

 

 

 

Rubens (1608)

 

Per proseguire:

https://www.corriere.it/foto-gallery/la-lettura/18_gennaio_04/adorazione-arte-magi-opere-adec4dee-f176-11e7-b33d-56f05ccceb4d.shtml

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  • In copertina: Andrea Mantegna, Adorazione dei magi (1500), particolare

Segni e prodigi

Scritto da MARIA NISII

 

“Il bambino non ha che un giorno, eppure noi abbiamo visto la luce del nostro Dio nei suoi occhi e il sorriso del nostro Dio sulla sua bocca. Proteggetelo, vi preghiamo, affinché lui possa proteggere voi tutti”. E dopo queste parole, montarono sui cammelli e scomparvero alla nostra vista. (Kahlil Gibran, Gesù figlio dell’uomo, “Anna, madre di Maria”)

La letteratura ha raccontato in molti modi la vita di Gesù, spesso delineandone il solo lato umano. Eppure quasi sempre nella narrazione della nascita ha preservato un che di prodigioso, mostrando segni che fanno presagire la diversità di quel bambino sugli altri. Se infatti il Dio cristiano si è incarnato, scegliendo di condividere la sorte degli uomini, i due vangeli dell’infanzia (Matteo e Luca) si preoccupano di tracciare in vario modo quella distinzione: seppur nato da donna, la sua generazione non ha seguito la via naturale (per quanto la teologia parli di paternità divina da intendere in senso ontologico e non biologico (1)), la famiglia poi riceve la visita di pastori e savi d’Oriente che, guidati da angeli e stelle, si prostrano ad adorare il neonato.

 

Caravaggio, Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi (1600)

 

Leggiamo allora nella versione di Gibran come Anna, madre di Maria, ricordando quei primi giorni, non manchi di notare “il timore e la riverenza” con cui si muovono quegli uomini venuti da Oriente dopo aver visto il bambino e aver riconosciuto in lui la luce del “loro Dio” (cfr citazione iniziale). Qui i magi sono Persiani e pronunciano parole che la donna non può comprendere, come non comprende la meraviglia della figlia (Maria mostrava più meraviglia e stupore che gioia) e il segreto che sembra serbare (Forse lei sa qualcosa che io non so. Vorrei che potesse dirlo anche a me). Lo sguardo della nonna è un punto di vista davvero inedito, persino nelle riscritture, eppure molto efficace a mostrare qualcosa di quella vita infantile segnata sin dall’esordio dai caratteri dell’eccezionale. Quel bambino era infatti come gli altri, ma insieme era anche diverso: prendeva del cibo da casa per darlo ai viandanti e donava persino i suoi dolci agli altri bambini; quando poi lei lo portava a letto, diceva che il suo spirito avrebbe vegliato su tutti loro.

Si tratta di ampliamenti narrativi a loro modo affini negli intenti ai primi apocrifi, che quella differenza evangelica hanno variamente esasperato, rivelando nel confronto la sobrietà dei testi originari. Pur con diverse sottolineature e coloriture, rinveniamo analoga accentuazione nel romanzo del greco Nikos Kazantzakis:

Nel suo spirito si mescolavano i segni e i prodigi che circondavano il giovane fin dal giorno della nascita e anche da prima… Il bastone di Giuseppe che, unico fra tutti i bastoni dei futuri sposi, era fiorito; il rabbino, che gli aveva dato la bella fra le belle, Maria, consacrata a Dio. Più tardi il fulmine caduto il giorno del matrimonio, che aveva paralizzato lo sposo prima che potesse toccare la sua donna. E più tardi ancora, si disse che la sposa aveva annusato un giglio bianco e che il suo ventre aveva concepito un figlio… E il sogno che lei aveva avuto, pare, la notte in cui partorì: aveva visto il cielo che si apriva e gli angeli che scendevano e si mettevano in fila proprio come gli uccellini sul bordo del tetto della sua umile casa (Nikos Kazantzakis, L’ultima tentazione, p. 18)

Nelle prime pagine dell’ampio romanzo, ridotto in versione cinematografica da Martin Scorsese, quegli eventi meravigliosi della nascita, che lasciavano presagire un destino straordinario, collidono con l’uomo incomprensibile che l’adulto Gesù è diventato per la sua gente, che non ne conosce il travaglio interiore (che qui si immagina abbia preceduto l’accettazione della missione). Non si trova in una posizione migliore neppure la madre, che assiste impotente ai tormenti del figlio, angustiata dalla malasorte abbattutasi su Giuseppe e quindi su tutta la famiglia. Nello sconforto ritorna col pensiero a quei primi giorni, in cui era comparsa una strana stella e degli uomini stranieri:

vide che la stella si era fermata proprio sulla sua testa e che all’inizio della strada erano apparsi tre cavalieri cinti da corone d’oro. Quando vide la stella fermarsi, diedero di sperone ai cavalli e balzarono in avanti. Maria, ora, distingueva benissimo i loro visi; quello al centro era un adolescente imberbe, dal colorito roseo e capelli biondi; alla sua destra c’era un uomo giallo, con la barba nera a punta e gli occhi a mandorla; alla sua sinistra un negro dai capelli bianchi e ricciuti, anelli di bronzo alle orecchie e denti splendenti. Prima che Maria avesse il tempo di osservarli a suo agio e di coprire gli occhi del figlio perché non fossero abbagliati dalla luce accecante, i tre cavalieri erano già lì, inginocchiati davanti a lei. Il piccolo aveva lasciato il seno e se ne stava ritto sulle ginocchia della madre (p. 26).

Artemisia Gentileschi, Adorazione dei magi, dettaglio (1636-7)

Dall’esuberanza ortodossa, al minimalismo protestante dello svedese GöranTunström, cambia il tono ma non la sostanza:

Quando sei nato… È venuto un angelo. È venuto da me una mattina presto, un giorno in cui avevo soltanto voglia di morire. Sì, tu lo sai. È venuto da me e mi ha detto che dovevo… rallegrarmi. È stato come se entrasse dentro il mio pianto. Rallegrati, mi ha detto. Poi sei nato tu. Ma era come se io non significassi nulla. Fu tutto così strano. Arrivarono degli uomini da lontano per farti visita. Quando avrei avuto soprattutto bisogno di starmene tranquilla con te. Non avevo neanche il tempo di darti da mangiare in santa pace. Avevo la sensazione di essere di impiccio. Che non appartenessi a me. Che tu appartenessi… al mondo. Dicevano che eri speciale (Lettera dal deserto, p. 217).

In questo romanzo Maria è ritratta come una sempliciotta, seria e mesta. Indubbiamente lontana dall’immagine prodotta dalla devozione cattolica, così ridotta diventa una figura minore ai limiti dell’insignificanza. Timorosa e impacciata con il figlio, solo cogli anni si apre a lui, rivelandogli il racconto della sua nascita diversa che ancora la turba, assieme all’incomprensione presente per un figlio allontanatosi dalla famiglia e per lei ormai irrecuperabile. In questo testo, che racconta soprattutto gli anni giovanili e ignoti della vita di Gesù, il protagonista è presentato con tratti affini alla sensibilità contemporanea: amante della natura e di tutti gli esseri viventi, vicino agli uomini e in specie gli emarginati, in comunione con il divino che appare come un’energia interiore che anima la vita sulla terra. Eppure anche questa versione “addomesticata” sente il bisogno di ricorrere a quella cornice di facile riconoscibilità, che meglio di altre rappresentazioni è capace di segnarne il discrimine.

 

Georges de la Tour, Adorazione dei pastori (1644)

 

Il Natale sembra non poter fare a meno di segni e prodigi, neppure in epoca di secolarizzazione. Perso quel senso del religioso forte, resta il bisogno di una tradizione a tratti quasi sfocata, sempre meno nota, ancor meno vissuta. I prodigi, non più creduti nel loro senso teofanico, diventano i simboli della “magia del Natale” – alla stregua della neve, delle luminarie, dell’attesa del babbo panciuto. E se restituissimo alle immagini la loro profondità teologica, essenza pura da contemplare, ai limiti del dicibile? Forse è proprio quello a cui ci chiama, in fondo, questo Natale diverso in tempo di covid, da vivere nella semplicità delle nostre case e in una ritrovata sobrietà liturgica.

Chi lo desidera può lasciarsi guidare in questo percorso da Kurt Marti, pastore svizzero e poeta:

 

” allora

 quando dio

nel grido del parto

distrusse le immagini di dio

 e

 tra le cosce di maria

grinzoso e paonazzo

il bimbo giacque “

 

Georges de la Tour, Il neonato, dettaglio (1645)

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  • (1) Cfr Josef Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 1969, p. 222
  • In copertina: Alessandro Turchi, detto l’Orbetto, Adorazione dei Magi(1620)

MARIA, IL GREMBO-ARCA (2)

Scritto da  MARIA NISII.

Strettamente associato al richiamo dell’Arca, vi è quello di Maria-tabernacolo nato nell’esegesi e quindi attestato nell’esperienza mistica di Domenica Narducci (Visione del tabernacolo, 1509), per quanto di tradizione ancora precedente. Tale simbologia diventa immagine popolare con la Madonna del parto di Piero della Francesca (1460).

Nell’affresco di Piero, l’apertura dell’abito di Maria (riecheggiata dall’apertura delle tende da parte degli angeli) sembra voler richiamare l’attenzione sul grembo rigonfio, accarezzato dalla mano destra della madre nel gesto di protezione che insieme rivela, presentando il frutto del proprio ventre ai fedeli per l’adorazione. Nella scena ritratta Maria è Arca, di fronte a cui le tende che dovevano celare sono ora sollevate dagli stessi cherubini che avrebbero dovuto sigillarne la separazione.

Nel consueto circuito di risonanze, troviamo l’icona di Piero al centro di Nostalghija, pellicola del 1982 di Andrej Tarkovskij, attorno a cui gravita la struttura allegorica del film. Sebbene decontestualizzata dalla sua reale collocazione, la Madonna del parto è qui presentata in una cripta romanica dove è oggetto di un culto femminile (di giovani spose e puerpere) affinché propizi la gestazione e la nascita

(per vedere il video clicca qui: https://www.youtube.com/watch?v=eTLFC-Eyj9Q9 )

Naturalmente neppure la narrativa dimentica tale riferimento, sebbene in chiave velatamente polemica:

Il mio corpo è stato vaso. Così è scritto. Ricettacolo fermo di tutte le grazie. Arca della nuova alleanza. Vuota, cava e pronta a ricevere. Tutti sicuri nel descrivermi con parole di chi non vuol credere davvero che l’ho tessuto per nove mesi di sangue e di carne ed eravamo intrecciati, il mio corpo giovane che raccoglieva il suo, arrivato già carico di eternità (Mariapia Veladiano, Lei)

La Maria ritratta da Veladiano sembra rifiutare tale accostamento, che vuol fare del suo grembo un’icona obliandone la carne. Quel ventre rigonfio, che l’arte ha finemente ritratto ed esibito, appare infatti più una parentesi da arricchire di significati allegorici che da stimare in quanto tale. Non casualmente ritroviamo allora un ventre prominente, che parla da solo, nell’incipit de Il vangelo secondo Matteo di P.P. Pasolini (https://www.youtube.com/watch?v=d5gzsY7xswc).

 

È così infatti che Maria si presenta a Giuseppe nell’incontro senza parole che si svolge tra i due in apertura. I primi piani che la macchina da presa inquadra, passando dall’uno all’altra, narrano senza ricorrere al linguaggio verbale. Quel grembo e le espressioni dei volti sono più che eloquenti. Sarà ancora senza parole l’incontro successivo, ma questa volta Giuseppe sorride, pronunciando il suo fiat.

Maria è la figura più amata e insieme la più contestata. Al contenzioso che la riguarda non è possibile mettere un freno, né tentare una sintesi. Come Veladiano giustamente lamenta è stata “raccontata in poesia, in pittura, in musica, nel vetro, nel ghiaccio immacolato, a punto croce, sulle volte delle cattedrali e sui selciati delle piazze” (p. 5), senza rinunciare a sua volta a riraccontarla. A ogni tentativo ciascuno ardisce ad azzardare un nuovo percorso, ribilanciare distanze e differenze – “Dalle mie parti quando si fanno delle porzioni disuguali si usa dire: ‘Tutto a Gesù e niente a Maria’”, afferma Erri De Luca in Nocciolo d’oliva, 23. Ogni pagina aggiunta, come anche le riscritture ambiscono a essere, desidera a suo modo  colmare uno spazio vuoto, avvicinarsi al varco, intravedere al di là. Un modo affascinante di attingere al mistero. Una cosa piccola ma buona.

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  • 2 – Fine.

 

MARIA, IL GREMBO-ARCA

 

Scritto da MARIA NISII.

 

Il mio corpo è stato vaso. Così è scritto. Ricettacolo fermo di tutte le grazie. Arca della nuova alleanza. Vuota, cava e pronta a ricevere. (Mariapia Veladiano, Lei)

 

Giotto, Visitazione (1306)

 

Per il viaggio che Maria compie dalla Galilea verso Gerusalemme per andare a trovare la cugina Elisabetta, anche lei incinta, qualcuno ha chiamato in causa il cammino dell’Arca dell’Alleanza (2Sam 6), in quanto Maria porta con sé, nel figlio concepito, la presenza di Dio.

Come noto, l’Arca dell’Alleanza era una cassa di legno e oro che conteneva le tavole della Legge ricevute sul Sinai. Costruita e poi trasportata dai leviti durante l’attraversamento del deserto, viene fatta trasferire da re Davide a Gerusalemme quando ne fa la capitale del suo regno. Sarà infine il figlio Salomone a darle dimora stabile nel Tempio all’interno del Sancta Sanctorum.

 

Arca dell’alleanza, (ricostruzione ipotetica)

 

Durante il viaggio verso Gerusalemme, per averla toccata nel gesto spontaneo di trattenerla dalla caduta, un uomo ne muore – un modo, questo, per esprimere il concetto di intangibilità e irraggiungibilità del sacro.  Se infatti apparentemente si tratta di un oggetto, che nello spostamento può anche cadere, di fatto si ha a che fare con il mistero della presenza di Dio in mezzo al popolo.

Dall’antica alla nuova alleanza si verifica però una svolta. Con la giovane Maria, quel concetto di Arca intangibile è superato e il sacro si offre nella carne di un bambino, che a questo punto della vicenda evangelica è celato nel corpo della madre. Tuttavia, a dispetto della novità, ritroviamo alcune risonanze con il primo racconto:

Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo (Lc 1,44) – rivela Elisabetta alla cugina.

Non casualmente, infatti, l’evangelista Luca per esprimere l’azione del sussultare fa uso dello stesso verbo greco (skirtan) che una traduzione dell’Antico Testamento aveva adoperato per la danza compiuta da re Davide davanti all’arca santa per accoglierne l’ingresso a Gerusalemme (2Sam 6,16). Come Davide, Giovanni “danza” nel grembo materno davanti all’Arca dell’Alleanza, che è Maria. Ma al di là del verbo impiegato, comune è l’atmosfera di gioia che pervade entrambi i racconti – come tanti autori hanno evidenziato alla ricerca di corrispondenze.

 

 

Ancora le era facile l’andare, al principio,

ma nella salita a volte lo avvertiva

il suo corpo miracoloso –

e si fermava, allora, respirando, sugli alti

monti di Giuda. Non la terra, ma per lei

la sua pienezza intorno era distesa;

andando lo sentì: questa grandezza

mai sarà varcata – questa, che ora percepiva.

E la spingeva a posare la mano

Sul grembo dell’altra, già più largo.

E barcollando le donne l’una verso l’altra,

e capelli e vesti si toccarono.

 Ciascuna, colma del suo tempio,

nella compagna sua si riparava.

Ah, il Salvatore in lei – ancora un fiore;

ma il Battista in grembo della cugina

ruppe la sua gioia dando guizzi.

 (Rainer Maria Rilke, Visitazione di Maria)

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  • 1 (CONTINUA)

“Benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui”

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

Nella festa religiosa dell’Immacolata Concezione, e quest’anno nella quarta domenica d’avvento, la liturgia prevede il brano del vangelo dell’Annunciazione dell’Angelo Gabriele a Maria quale evento storico e teologico raccontato nelle scritture. Al di là dell’iconografia propria del dogma e alle immagini dell’annunciazione riprodotta nell’arte infinite volte, si vuole qui mettere in risalto gli aspetti della maternità e sacralità della gravidanza di Maria e allo stesso tempo l’umanità della divinità nell’Incarnazione, attraverso le interpretazioni di alcuni artisti.

Maria compare gestante nella scena della Visitazione, anche un po’ esagerata dagli artisti rispetto alla sua gravidanza appena cominciata, come racconta l’evangelista Luca. Invece la “Madonna del parto” è una scena del tutto diversa, non è basata su particolari passi evangelici, canonici o apocrifi, non è un episodio narrativo, ma esprime un momento di riflessione intima: Maria pensa alla futura nascita del Figlio e al proprio ruolo di madre. I pittori bizantini avevano escogitato raffinati simbolismi per illustrare la gravidanza (la mandorla, il medaglione con l’immagine di Gesù posto sotto il seno della Vergine, …); nel Medioevo vestivano Maria d’oro o le mettevano un libro tra le dita, per alludere al Verbo fatto carne. I nordici, più concreti, le inserivano una “apertura” nell’abito, per mostrare il feto nell’utero.

 

Dal XIII secolo in avanti e fino al XVI, troviamo immagini di Madonne incinte, alcune delle quali hanno subito manomissioni e coperture, perché ritenute sconvenienti per la devozione nei confronti della Vergine Maria. Un esempio è quello dell’affresco di Taddeo Gaddi a Firenze (realizzato approssimativamente tra il 1327 e 1338) nella Chiesa San Francesco di Paola, dove lo stato di gravidanza della Vergine è rappresentato realisticamente: la figura di tre quarti per evidenziare la minima prominenza del ventre conferisce a Maria un atteggiamento di modestia tramite il gesto della mano sinistra che copre il basso ventre e lo sguardo verso lo spettatore, mostrando un certo riserbo, mentre con la destra regge il libro.

Un’opera emozionante è l’affresco del 1455 della Madonna del Parto di Piero della Francesca, ora custodita nei Musei Civici del Comune di Monterchi (Arezzo), ma originariamente sul muro dell’altar maggiore di una chiesetta del XV secolo chiamata Santa Maria di Momentana. Maria è rappresentata enormemente incinta, il corpetto dell’abito slacciato sul ventre gonfio lungo la cucitura laterale e lei che indica proprio quel punto in cui si intravvede il bianco della camicia sottostante, riferimento alla sua purezza e alla sua verginità; non possiede attributi regali, non ha il libro in mano ed è colta nella posizione normale per le donne incinte, quella di darsi sostegno all’altezza dei fianchi.

Ecco poi le immagini di “Maria col Bambino”, che esprimono non solo il sentimento umano, ma la Sapienza divina che si incarna tra le braccia di una madre, la Luce che si rispecchia negli occhi di una vergine e le gestualità umane di tenerezza, come nella Madonna col Bambino di Antonello da Messina, databile tra il 1474-77conservata a Washington nella National Gallery of Art, in cui Gesù introduce la mano nella scollatura dell’abito della madre e con il braccio sinistro abbraccia il suo collo;

o ancora in quella di Andrea Mantegna del XV secolo, esposta a Milano nel Museo Poldi Pezzoli, dove Maria stringe teneramente Gesù tra le braccia tenendogli il volto con le dita della mano sinistra e il Bambino, profondamente addormentato, con le braccia abbandonate e la bocca aperta che rimanda alla sua futura morte.

 

Infine, abbiamo la rappresentazione in cui Maria tiene sulle ginocchia per l’ultima volta il Figlio morto, prima di consegnarlo a Giuseppe di Arimatea e a Nicodemo per la sepoltura, ripetutamente interpretata dagli artisti di ogni epoca, con un’intensità emozionale rara. Anche questo è un soggetto che non fa riferimento ad alcun passo evangelico e nemmeno ai Vangeli apocrifi, ma all’esperienza umana; slegato dalla precisa conformità a un testo, la “Pietà” è tipologia iconografica sviluppata nel XIV secolo.

Opera che ben esprime il pathos del rapporto psico-fisico tra madre e Figlio è la Pietà del 1499 di Michelangelo in San Pietro a Roma, in cui è visibile la sofferenza di Gesù anche se nel suo corpo non ci sono i segni della passione; la madre è sola con il Figlio morto, il suo volto, ancora giovane, è triste ma sereno. La sua è una bellezza “divina” non umana, quindi non soggetta al tempo che scorre: è questa una delle spiegazioni della differenza tra l’aspetto della madre di età inferiore rispetto a quella del Figlio, ma è anche possibile che Michelangelo abbiapensato alla preghiera che Dante fa dire a San Bernardo nella Divina Commedia rivolgendosia Maria nel canto XXXIII del Paradiso:

Vergine madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

termine fisso d’etterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti sì, che ‘l suo fattore

non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore,

per lo cui caldo ne l’etterna pace

così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridïana face

di caritate, e giuso, intra ‘mortali,

se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre,

sua disïanza vuol volar sanz’ali.

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fïate

liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,

in te magnificenza, in te s’aduna

quantunque in creatura è di bontate.

 

Qui si concentrano le formule della teologia e della devozione mariana ben espresse nelle immagini riportate dell’arte passata, ma anche tra artisti non cristiani, come il buddista Anish Kapoor, con la sua scultura/provocazione dal titolo “Madonna”del 1990 esposta a Madrid, Museo Nazionale Centro d’Arte Reina Sofia, una forma concava e cava colorata di blu cobalto in fibra di vetro di quasi tre metri di diametro, che rappresenta solo il ventre di Maria.

Quando si riscrive DIOS per raccontare Maradona

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Premessa necessaria.

Qui non ci si occupa di Diego Armando Maradona. Né come calciatore, né come personaggio, né come uomo. Né, tantomeno, si vogliono esprimere giudizi sotto nessuno dei tre profili. Ci si sofferma piuttosto  su una questione di comunicazione, cioè di racconto di una notizia. E dunque ci si occupa di come è stata data, in giro per tutto il mondo, l’annuncio della morte del Pibe de oro.

E quello che balza agli occhi, dopo due giorni di abbuffata di titoli, articoli, servizi,  dibattiti e speciali che hanno occupato giornali, tv, radio e  rete,  è il fatto che la più utilizzata delle categorie che è stata tirata in ballo nelle rievocazioni sia stata quella della divinità. Cosa non così scontata e piana. Abbiamo infatti avuto negli ultimi anni molti casi di morte di personaggi celebri e popolari, ma senza che il loro nome venisse accostato a quella specifica categoria, e in modo poi così diretto e familiare. La stessa cosa, tanto per dire,  non è accaduta,  alla scomparsa di Lady D, che pure suscitò un’eco similare per impatto emotivo e per risonanza mondiale. O alla morte, se ci si consente il paragone,  di Giovanni Paolo II, per il quale ci si fermò al celebre “santo subito” e al “ Giovanni Paolo Magno “, o “il grande”.

Nel caso di Maradona, invece, il coinvolgimento di Dio è stato immediato e crescente. E non solo quello della parola dio, di un deus generico, ma proprio del Dio cristiano, con tanto di riferimenti piu’ o meno sofisticati  al “nostro” mondo religioso. Vanno dette due cose. La prima. Per i titolisti, metà del lavoro era già stato fatto da quella mitica battuta sulla “mano de Dios” : nell’epica argentina era quella abbattutasi a castigare gli inglesi in un famoso Mondiale; nella realtà, la mano dello stesso Diego che molto poco spiritualmente firmò – con la sua, di mano – una rete passata alla storia del calcio. Da notare che la “chiamata in campo”di Dio  a proposito di un gol di Maradona era già stata utilizzata dallo stesso calciatore: guardando l’altra sera, su Rai 3, il documentario “DIEGO MARADONA” di Asif Kapadia, ho constatato che viene mandata in onda una intervista in un post partita ai tempi della prima stagione giocata del Napoli ( si trattava di un Napoli- Fiorentina) in cui lui stesso, richiesto di commentare un suo gol, dichiarò ( cito a memoria): quel gol lo ha fatto Dio, non lo ha fatto Maradona. Non per niente , il sottotitolo di quel film – molto bello –  così recita: “Ribelle. Eroe. Sfrontato.Dio.”

 

 

Il film è del 2019. Ma la progressiva santificazione di Diego Armando data da molto prima, e proprio dagli anni trionfali del suo periodo napoletano ( trionfali sino al volgere precipitosamente in basso della sua parabola di personaggio e uomo, a dire il vero). Sta in questo aspetto il secondo elemento di cui tener conto nel valutare il binomio Maradona – Dio così insistentemente usato in queste ore. Per la verità i tifosi napoletani si erano mossi a livello piu modesto, per così dire, e locale,  spingendosi fino a san Gennaro : e questa linea non è stata abbandonata, se immediatamente, poche ore dopo la scomparsa, sulle bancarelle delle statuine del presepio napoletane ha fatto capolino in tempo reale un riccioluto Maradona azzurro vestito con tanto di scenografiche ali. Spuntate a garanzia del sicuro Paradiso conquistato a furor  di popolo. E sembra riecheggiarle, quelle ali, il quotidiano la Repubblica, che così ha titolato: “Il calcio va in Paradiso”.

 

 

In questi due giorni, invece, si è saliti assai più di tono. Basta  una breve rassegna della stampa internazionale : “ Dio è morto” “Grazie Dio che sei Argentino”  “AD10S” “Eterno” “ Celeste”. “ Maradiòs”. Persino Macron, il presidente della Repubblica Francese, e non in uno scopone tra amici, ma in una dichiarazione ufficiale, ha detto: “C’era un re Pelé, ora c’è un dio Diego»”

Va da sé. Qui non si tratta di idolatria o di accostamenti blasfemi. L’epica sportiva prima, e la sua sublimazione intellettuale che ne è la critica specializzata, poi, si nutrono di immagini iconiche e di espressioni pronte per essere tramandate ai posteri.Trovato il filone, diciamo così, “sacro”,  lo hanno battuto con entusiasmo. Piuttosto, l’interessante è che la categoria del divino ( e del nostro divino, in particolare) , proprio nell’epoca della scristianizzazione e della società laicizzata e laicista, risulti  la più gettonata per evocare gloria e grandezza immortale. Anzi, lo sia forse adesso più di prima. Cosa di cui si puo’ dare una doppia lettura. La prima: in barba a tutto e a tutti, la religiosità tanto svillaneggiata, specie nelle sue manifestazioni più tradizionali e nazionalpopolari, cacciata dai salotti buoni della intellighenzia , rientra alla grande e dilaga dalla finestra dei media e della rete, segno di qualcosa di molto radicato e ormai inscindibile dalla nostra cultura e dai nostri concetti di riferimento. La seconda: proprio l’uso disinvolto e “sportivo”- in questo caso in senso letterale – del concetto di divinità, senza alcun timore reverenziale, lungi dal dimostrare una maggior presenza e autenticità delle radici cristiane della nostra cultura, ne attesta invece la banalizzazione, lo scolorimento, il degrado a maschera tradizionale e quasi di folclore.

Il che è una bella alternativa, non c’è che dire.

 

 

 

 

 

Tito, un testamento di cinquant’anni fa

 

Scritto da  LORENZO CUFFINI,

 

Cinquant’anni sono trascorsi da quel 1970 in cui usciva  l’album forse più celebrato, e in un certo senso anche più datato, di Fabrizio De Andrè, La buona novella. Il disco in cui lo sguardo – per qualche aspetto di  sapore evangelico – con cui il cantautore canta il mondo e le cose, si confronta direttamente con il modello originale, con il Vangelo vero e proprio, prendendone di petto personaggi e temi. Naturalmente De André lo fa a modo suo: senza genuflettersi, senza abbassare il capo, senza alcun timore reverenziale né devozioni precostituite; piuttosto a muso duro, con la dimestichezza confidenziale  e ruvida di chi non è abituato a mandarle a dire. Insomma senza rinunciare a nessuna polemica o alle  rivendicazioni  che ribollono nei testi delle  sue canzoni, che risuonano anche qui.  Perché anche qui è sempre  il mondo degli ultimi che lo attira:  quei personaggi spesso travolti  dalla vita, magari vittime della “ cultura dello scarto” di cui parlerà papa Bergoglio cinquant’anni dopo. E’ sempre in nome e per conto loro, che spesso non hanno voce, che De André leva alta la sua.

Quando cinque anni fa, come Ufficio per la Pastorale della Cultura della Diocesi di Torino, ci ponemmo il problema di scegliere una canzone de  La buona novella  da inserire nella scaletta del concerto organizzato in occasione della grande Ostensione della Sindone, ci trovammo tutti d’accordo nello scegliere “Il testamento di Tito”. Il concerto era “SinGdone: uomo, tra noi” e  si proponeva appunto di scandagliare – attraverso brani pop , rock, cantautoriali – in che modo gli artisti avessero colto il filo della fratellanza Dio-Uomo, reso in modo  così potentemente visivo dalla immagine del telo di Torino. In questo senso, il “testamento di Tito”, rappresentava una occasione perfetta. Intanto , era “ messo in bocca” a uno dei ladroni, per la precisione a quello cosiddetto buono  ( secondo la tradizione più conosciuta  chiamato Dismas, qui Tito) e dunque a uno di quelli a cui capitò la sorte di condividere con Dio il momento più terreno e squisitamente umano che esista: quello della morte. Poi c’era il fatto che quella sorte condivisa, feroce tragedia per la cronaca,  diventa stupefacente gloria, per la fede: tanto che secondo il Vangelo, è proprio lui, quel “ladrone”, il primo santo della Storia, colui che sente dalla voce stessa di Cristo morente insieme a lui,  l’annuncio della sua salvezza: “ canonizzato” in diretta dal legno della croce, potremmo dire secondo i linguaggi televisivi odierni. La morte fianco a fianco con i due disgraziati ( “lo crocifissero, uno a destra, l’altro a sinistra e Gesù nel mezzo”) è per così dire la prova provata della condivisione della natura umana da parte del Dio dei cristiani. Lì, come in nessun altro momento e in nessun altro luogo, davvero Dio, il creatore dell’Universo e il Signore della storia, diventa “ uomo, fra noi”. Infine, c’era il modo in cui De André racconta questa crocifissione, parallela e simultanea rispetto a quella con la C maiuscola: fortemente provocatorio , in senso positivo, all’orecchio di un credente in Cristo. Perché in quel momento ultimo, definitivo, radicale, Tito rivive la sua vita: facendo veramente, a modo suo, un testamento delle sue esperienze. E lo fa ripercorrendo, come tappe di una via crucis amara e vicinissima alla parola fine, le regole del decalogo, i Comandamenti che tutti noi conosciamo e ripetiamo  e sentiamo ripetere fin da bambini. Dando così – comunque se ne pensi – uno scossone alla nostra attenzione, magari appannata dai “ lo so già” e dalla abitudine. Aggiungo, in questa sede, dove si parla di  ri-scritture di Scrittura, che così facendo, per bocca del “ suo” ladrone,  De André opera una riscrittura bella e buona dei Dieci Comandamenti. Intendiamoci: ri-scrittura  estrema, eterodossa, quasi sempre un rovesciamento , un controcanto puntuale fatto in ottica strettamente laica e terrena, piena di scherni, di rabbia e di ironia amara e graffiante. Tanto che, a prima vista, non rimane nulla, in De André, che permetta di parlare di “ buon” ladrone.

 

Non avrai altro Dio all’infuori di me
Spesso mi ha fatto pensare
Genti diverse venute dall’est
Dicevan che in fondo era uguale
Credevano a un altro diverso da te
E non mi hanno fatto del male
Credevano a un altro diverso da te
E non mi hanno fatto del male
Non nominare il nome di Dio
Non nominarlo invano
Con un coltello piantato nel fianco
Gridai la mia pena e il suo nome
Ma forse era stanco, forse troppo occupato
E non ascoltò il mio dolore
Ma forse era stanco, forse troppo lontano
Davvero lo nominai invano
Onora il padre, onora la madre
E onora anche il loro bastone
Bacia la mano che ruppe il tuo naso
Perché le chiedevi un boccone
Quando a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore
Quanto a mio padre si fermò il cuore
Non ho provato dolore
Ricorda di santificare le feste
Facile per noi ladroni
Entrare nei templi che rigurgitan salmi
Di schiavi e dei loro padroni
Senza finire legati agli altari
Sgozzati come animali
Senza finire legati agli altari
Sgozzati come animali

 

 

Che bontà d’animo ci sarebbe  infatti nel suo Tito? In lui c’è è piuttosto  il consuntivo disincantato e squallido, ma non privo di una sua orgogliosa dignità rivendicata, di chi ha condotto una esistenza “ ai limiti” – e decisamente oltre – di cui non si nasconde nessuna macchia. Ma c’è anche la critica, feroce fino allo sberleffo, la condanna senza appello per l’altra metà del mondo, per i “perbene” ( o perbenisti?), per i sedicenti giusti ( o benpensanti?) , per gli idolatri della giustizia, che non conoscono, né men che meno vivono, la misericordia. In fin dei conti, è come se Tito, davanti quell’uomo che gli è crocefisso insieme, e che poche ore prima  si è pubblicamente confessato Dio, rovesciasse tutta la bile  della sua “ storia sbagliata”, per citare un’altra celebre canzone dello stesso autore. Come a dirgli: guarda a cosa sono serviti i tuoi comandamenti!

Il quinto dice non devi rubare
E forse io l’ho rispettato
Vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie
Di quelli che avevan rubato
Ma io, senza legge, rubai in nome mio
Quegli altri nel nome di Dio
Ma io, senza legge, rubai in nome mio
Quegli altri nel nome di Dio
Non commettere atti che non siano puri
Cioè non disperdere il seme
Feconda una donna ogni volta che l’ami
Così sarai uomo di fede
Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
E tanti ne uccide la fame
Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore
Ma non ho creato dolore
Il settimo dice non ammazzare
Se del cielo vuoi essere degno
Guardatela oggi, questa legge di Dio
Tre volte inchiodata nel legno
Guardate la fine di quel nazzareno
E un ladro non muore di meno
Guardate la fine di quel nazzareno
E un ladro non muore di meno
Non dire falsa testimonianza
E aiutali a uccidere un uomo
Lo sanno a memoria il diritto divino
E scordano sempre il perdono
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
E no, non ne provo dolore
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
E no, non ne provo dolore
Non desiderare la roba degli altri
Non desiderarne la sposa
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
Che hanno una donna e qualcosa
Nei letti degli altri già caldi d’amore
Non ho provato dolore
L’invidia di ieri non è già finita
Stasera vi invidio la vita

 

 

Poi, un sommesso colpo di scena. Proprio alla fine, dopo aver riscritto, quasi distruggendoli uno per uno, gli articoli del Decalogo, Tito approda improvvisamente e, almeno per me, inaspettatamente, a una dimensione  diversa, a una  “ bontà”  implicita e non detta che ne fa- anche nella prospettiva della canzone- per davvero un uomo rinnovato: quello che riesce, dopo aver recriminato e inveito per tutte le strofe su se stesso e sulla sua disperata condizione,  a dimenticarsi di sé , a guardare quell’altro poveraccio che gli pende a fianco, sul punto di crepare insieme a lui.

 

Ma adesso che viene la sera ed il buio
mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti:
io nel vedere quest’uomo che muore,
madre, io provo dolore,
Nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l’amore. 

 

Il dolore e l’amore, i due elementi  protagonisti e misteriosamente, scomodamente, scandalosamente  protagonisti della Redenzione e del  Calvario, fanno irruzione negli ultimi quattro versi del testo, squarciano l’orizzonte  chiuso fino a quel momento, e , partendo da una dimensione tutta umana e tutta terrena ( senza segni e nomi di fede e religione, per intendersi ) approdano alla Salvezza. Ho imparato l’amore: e  al nostro orecchio, che cosa, anzi Chi è Dio, se non Amore? Per struggente dolcezza, in maniera  altrettanto inattesa in questi ultimi versi cambia l’interlocutore di Tito , che diventa, esplosivamente , “ madre”. Già, ma quale madre? Madre di chi? Quella di Tito, che ricevebbe così la confessione ultima e quasi commossa del figlio morente? O la Madre per antonomasia,  Maria,  sconvolta ai piedi della croce di Gesù, cui Tito si rivolgerebbe per  consegnare ( invece che a Gesù) la sua “conversione” di cuore? Il testo non lo dice. E questo silenzio, questa duplice possibilità , è  come un’altra tessera nella costruzione della comunione di destini tra Uomo e Dio, che si sprigiona, implicita, dal finale tutto senza maiuscole di questa canzone: perché la madre di un condannato che ha i minuti contati , anche se non è la sua, è madre, e basta.

 

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  • In copertina : Mattia Trotta, Il Buon Ladrone, (scultura in filo metallico e ferro )
  • “SINgDONE: uomo, tra noi” , 2015, concerto-reading del MARCO NIELOUD ENSEMBLE , organizzato dall’Ufficio per la Pastorale della Cultura della Diocesi di Torino, in occasione dell’Ostensione della S.Sindone.