Lazzaro silenzioso

Scritto da MARIA NISII.

 

38 Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra. 39 Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni». 40 Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?». 41 Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. 42 Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». 43 E, detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». 44 Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: «Scioglietelo e lasciatelo andare».(Giovanni 11)

1 Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. 2E qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. (Giovanni 12)

9Intanto una grande folla di Giudei venne a sapere che egli si trovava là e accorse, non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti. 10I capi dei sacerdoti allora decisero di uccidere anche Lazzaro, 11perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù.(Giovanni 12)

 

Fatto curioso (o forse no?), la resurrezione di Lazzaro è l’evento soprannaturale tra i più contestati dalle riscritture, con i picchi di Amélie Nothomb che in Sete fa deporre Lazzaro al processo, lamentando «come sia odioso vivere con quest’insopportabile puzza di cadavere che ti si incolla alla pelle», ma soprattutto di José Saramago che ne Il vangelo secondo Gesù Cristo mostra come al primo incontro Gesù risani l’uomo dalla malattia che lo affligge, mentre dopo la morte rinuncerà a rianimarlo, in quanto fermato all’ultimo istante da Maria Maddalena che gli dice: «nessuno ha compiuto tanti peccati in vita per meritare di morire due volte». Il testo prosegue notando come, «a quel punto, Gesù lasciò ricadere le braccia e si allontanò per piangere» (p. 338), un momento che, secondo Piero Boitani, è il «più sconvolgente dell’intera opera, perché la rinuncia a resuscitare Lazzaro costituisce di fatto un rifiuto a compiere il miracolo di dare la vita. Essa comporta la caduta di tutta la rivoluzione cristiana, secondo le parole di Paolo ai Corinzi: Se non esiste resurrezione dei morti, neanche Cristo è resuscitato! Ma se Cristo non è resuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede (1 Cor 15,14). Il cristianesimo stesso, insomma, muore qui insieme a Lazzaro» (Esodi e Odissee, p. 144). Come Saramago evidentemente desiderava.

 

Vincent Van Gogh (1890)

 

Talvolta le riscritture sottolineano gli aspetti teologicamente meno rilevanti (come il cattivo odore del corpo in decomposizione), ma come facilmente ci si può attendere, contengono pure le obiezioni alle interpretazioni tradizionali o persino le proprie insoddisfazioni per il racconto canonico. Eppure su un punto possiamo concordare con i nostri riscrittori: che cosa ha significato la resurrezione di Lazzaro se poi l’uomo di Betania non prende mai la parola? La sua permanenza nel regno dei morti resta un mistero: possibile che nessuno gliene abbia chiesto conto? Non sono in tanti a essere tornati dallo sheol! Allo stesso modo sfugge il senso di quel ritorno alla vita se di fatto non lo si vede agire sulla scena. Dopo la resurrezione, Giovanni lo cita ancora come uno dei commensali a tavola con Gesù, sebbene a quella cena siano le sorelle a essere attrici sulla scena: Marta serve a tavola e Maria compie il gesto di unzione che tanto scandalizza Giuda. Lazzaro è ancora oggetto dell’interesse di chi vuole appurarne la resurrezione, ma appunto resta un soggetto passivo. Su queste ellissi narrative, ogni autore individua la propria pista di riflessione più o meno convincente.

In Confessione di un condannato a morte la sera del suo arresto, prima parte del romanzo Il vangelo secondo Pilato di Eric-Emmanuel Schmitt, Gesù-Jeshua non dà importanza ai miracoli e li minimizza, riferendoli come si trattasse di un grande malinteso, mero frutto dell’esaltazione di chi lo ama. Presto deve però constatare che la gente non va più ad ascoltare le sue parole, ma è solo in cerca di prodigi. E quando ha ormai deciso di non farsi avvicinare ancora dai cercatori di miracoli, si lascia commuovere dalla morte dell’amico Lazzaro. Così, gli si sdraia accanto e «scende nel suo pozzo d’amore», ovvero nella dimensione di intimità dove incontra il Padre. Nel momento in cui ne riemerge, scopre quindi che Lazzaro è seduto.

Tuttavia si tratta di una resurrezione a metà, perché l’uomo risulta solo parzialmente cosciente: è muto e come istupidito. «[…] non riuscivo a rimuovere uno scrupolo: ero io il responsabile del suo ritorno, del suo stato. Mio Padre aveva compiuto il miracolo per rassicurare me, e me soltanto, per spiegarmi che avrei fatto ritorno dalla morte, e che io, a differenza di Lazzaro, avrei parlato. Aveva sacrificato il riposo di Lazzaro in mio favore. Lacrime di vergogna devastavano il mio volto» (p. 90).

Quel silenzio a cui il quarto vangelo vota Lazzaro viene qui interpretato in senso negativo: questa resurrezione non è foriera di vita, ma solo segno di una prossima e qualitativamente diversa resurrezione. Gesù ne prova vergogna e Dio padre non ne esce meglio, visto che si è limitato ad accontentare il figlio senza preoccuparsi di sacrificare il giusto riposo di un uomo. Questa rinarrazione risulta quindi riduttiva, senza essere intenzionalmente critica.

Per comprendere quello che è successo a Lazzaro occorre un altro sguardo, una lettura anche teologicamente raffinata, oltre che letterariamente efficace, ovvero capace di mostrare il mistero senza sentire il bisogno di spiegarlo.

 

Maffiolo da Cazzano, Chiesa del Corpus Domini (1480-1494), Pagliaro di Algua

 

Tra i pochi che hanno saputo esibire questa rara dote in una riscrittura evangelica, ricordo Stefano Jacomuzzi che in Cominciò in Galilea compone un racconto a due voci, così che ogni brano evangelico è prima raccontato da Andrea, fratello di Simon Pietro, e poi dallo stesso Gesù. Di fronte alla pietra sepolcrale, l’apostolo riconosce nel Maestro il «Signore della vita e della morte», riferendo che quando a sera torna a chiamarli, dopo essere rimasto a lungo solo con Lazzaro, è di nuovo «il volto misterioso dell’uomo ignoto che aveva intravisto quando si era chinato a ricevere l’acqua dal Battista». Lazzaro qui potrebbe anche aver parlato, ma con il solo Gesù, per quanto di quell’incontro nulla venga riferito. Dalle parole di Gesù invece emerge qualcosa di quel di più che è avvenuto e che è ora presente in mezzo a loro. E persino il silenzio di Lazzaro assume un altro significato, preceduto com’è dalla promessa di vita eterna:

«’Amici entrate’, dico. Siedono con me. Anche Lazzaro è in mezzo a noi. Questa gente vede le cose succedere una dopo l’altra. E invece accadono tutte insieme, da sempre, davanti allo sguardo di Dio. ‘Sempre’ è la parola che voglio dire, che possa ricoprire i loro destini. Anche la pietra della soglia e la polvere delle strade, che dureranno più delle loro facce, e le nubi nel cielo e le tempeste sul lago, che dureranno più dei loro pensieri, sono chiuse nel tempo e vedono le cose succedere una dopo l’altra, e allora il dolore e la morte, la povertà, la fame non hanno contrappeso e la bilancia tracolla sotto il loro carico. Il tempo non dà ragioni alle loro sofferenze. Per questo dirò loro la parola ‘sempre’, che travolga ogni confine di tempi, di spazi e faccia traboccare ai loro occhi il piatto vuoto della bilancia.

‘Amici, Dio ha resuscitato Lazzaro dai morti. Anche il figlio dell’uomo starà tre giorni nel sepolcro come Lazzaro, ma al terzo giorno risusciterà. Perché il Padre lo ha fatto vittorioso sulla morte. E chi avrà fede in me vivrà per sempre». Marta e Maria portano i cibi sulla tavola. Lazzaro mi siede accanto e resta silenzioso» (p. 169).

Non meno enigmatico del racconto evangelico, che pure amplia e arricchisce, la versione di Jacomuzzi cerca parole nuove ma lascia il mistero intatto. «Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere», ha detto L. Wittgenstein. E come Lazzaro ha taciuto, anche il riscrittore, a sua volta, adotta la stessa dotta reticenza….. sssss, silentium!

 

Giotto, Cappella Scrovegni (1303-5)

 

____________________________________________________

  • In copertina : Duccio DiBuoninsegna (1250-60) , Resurrezione di Lazzaro

Il vangelo di Tex Willer

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

Ebbene, lo confesso.

Da vecchio lettore di Tex Willer, ho sobbalzato sulla sedia quando ,spulciando i giornali per lavoro nella quotidiana rassegna stampa, mi son trovato sotto il naso un articolo nella sezione cultura de L’Osservatore Romano, dedicato proprio a lui, con tanto di immagine inequivocabile: un’autentica vignetta del vecchio Tex, pistola in mano, cinturone in vita, fazzoletto al collo a sventolare al vento, nell’atto di sparare con la sua pistola “fiammeggiante”.Il titolo poi non lasciava dubbi: “ Credente a modo suo” e, nell’occhiello, un clamoroso “Il vangelo secondo Tex Willer”.

 

Ok: le strade del Signore sono infinite.Ok: lo Spirito del Signore soffia dove vuole. Però mai mi sarei aspettato, di prima botta, di trovarmi l’eroe della mia infanzia, e compagno costante di tutta la mia storia, in bella mostra sul quotidiano della Santa Sede. Non che la cosa mi abbia scandalizzato, naturalmente:  ma sorpreso grandemente, sì. Passato lo stupore iniziale, e letto l’articolo in questione, le cose si sono rapidamente chiarite. Quel“vangelo secondo Tex Willer“, con la v di Vangelo significativamente minuscola , nel suo virgolettato rimandava a un libro, fresco di stampa per i caratteri della Editrice Claudiana,  di cui è il titolo, scritto da Brunetto Salvarani e Odoardo Semellini. Eccolo qua:

 

 

A questo punto mi sono brevemente interrogato, cercando di scovare nella mia memoria di antico lettore se e quando avessi trovato traccia della religiosità, del “ credere” di Tex. Sinceramente, non l’ho trovata. Anche se, in diverse storie, ricordavo di averlo visto entrare in contatto con realtà spirituali e anche religiose diverse, io personalmente , se interpellato, avrei inserito il buon Tex nella affollata categoria degli “agnostici”, piuttosto che in quella dei credenti. Senza contare che , da ottimo personaggio di un West di matita e vignette, ma a miei occhi certamente autentico (al pari delle jungle o dei pirati di Salgari o dei paesaggi di Sergio Leone) la sua azione mi pareva restare ben poggiata su gran pistolettate e gran pugni, anche se perennemente rifilate   ( se no che eroe sarebbe stato?) dalla parte della giustizia e dei “buoni”.

 

 

In realtà, il libro non cerca di consegnare a Tex una impossibile “patente” di uomo di fede. Piuttosto si industria di  cercare i segni del suo rapporto con il sacro e di individuarne un’etica di fondo. Sul primo punto, si esaminano tutte le realtà religiose o spirituali con cui Tex entra in contatto nelle sue vicende e si scopre che ci sono praticamente tutte. Lui ha a che fare con “le culture antiche( atzechi, egizi, maya), con quelle cristiane ( cattolici, battisti, quaccheri), con le altre religioni ( buddismo Islam e via dicendo) con quelle dei nativi americani fino ad arrivare ai satanisti e al vodoo.”

Paolo Naso, nella prefazione, ritiene di poterlo definire vicino a una sensibilità impastata di protestantesimo metodista, ma poi chiarisce che “in realtà  lo si potrebbe definire un unchurced, traducibile con “schiesato”, ovvero «un credente a modo suo che mal tollera liturgie e preghiere, candele e inni, prediche e devozioni. Cresciuto nello spirito libero del protestantesimo della frontiera, porta dentro di sé la radice puritana della libertà e del rigore, il senso profondo di una vocazione che diventa missione di vita. E vi sono pochi dubbi che sia quella alla giustizia, al sostegno dei truffati e delle vittime di ogni prepotenza». Inconsapevolmente Willer è il paladino di «un vangelo duro, energico, di una giustizia retributiva per cui raccogli in proporzione e in relazione a quello che hai seminato». Mentre  la sua vicinanza  alle tradizioni dei nativi ( non dimentichiamo che  Tex è amche “ aquila della notte”, per gli indiani Navajo che lo riconoscono come capo “ fa sì che Tex sia più spirituale che religioso, con un suo «personale rapporto con il sacro che non si esprime in un’appartenenza formale ma si concretizza nel rapporto col la natura, la trascendenza, il mistero della vita e della morte» ( dall’articolo dell’Osservatore Romano, di Gaetano Vallini https://www.osservatoreromano.va/it/news/2020-10/quo-248/credente-a-modo-suo.html )

Sul secondo punto, quello del’etica secondo cui si muove il personaggio,  le cose si fanno piu’ chiare. Tex, pur tra risse e sparatorie, “difende costantemente i deboli e gli oppressi: in questo senso è molto “evangelico“ e probabilmente piacerebbe anche a Papa Francesco perché, come ricorda Antonio Staglianò (vescovo di Noto e appassionato del fumetto), “è sempre dalla parte dei poveri”. Con molto anticipo rispetto al cinema western (Soldato Blu è del 1970) Tex è un difensore degli indiani (con il nome di Aquila della notte è il capo dei Navajos) e non giudica mai nessuno per il colore della pelle o per la provenienza geografica. E, vedendo certe tendenze nella società contemporanea, in questo è in anticipo anche rispetto ai nostri tempi. (https://www.quotidiano.net/magazine/non-sparare-invano-il-vangelo-di-tex-willer-1.5510524, Roberto Davide Papini su quotidiano.net).

Forse è un tantino  esagerato affermare, come fa  il fumettista Mauro Boselli in una intervista nella parte finale del volume – che Tex rappresenta una «imago Christi, che si carica della responsabilità di fare giustizia». Piuttosto, come dice Antonio Staglianò nella postfazione, «qui “vangelo” è una sorta di metafora: una parola che funziona simbolicamente per concentrare in sé qualcosa di bello, una buona notizia», secondo la quale «il bene vince sempre e la vittoria contro qualunque male è nella disponibilità di Willer». E aggiunge che «una “lettura religiosa” non è immediatamente una “lettura teologica”», ma che tuttavia non si può dimenticare che «il religioso apre al trascendente», «dischiude un’ipotesi di Dio».

 

Morale prima: devo fare ammenda. Non sono poi quel gran conoscitore di Tex che ritenevo. Anche perché ignoravo completamente che ci fosse una storia articolata di rapporti tra il mio fumetto prediletto e la Chiesa Cattolica. Che è passata negli anni da una sostanziale messa all’indice – nel 1951 l’Apostolato della buona stampa l’aveva inserito nella categoria della stampa «moralmente nociva, che non è permesso leggere». -a una progresiva riabilitazione, che è evidenziata da altrettanti articoli proprio sull’Osservatore Romano. ( del 2008, del 2018,del giugno 2020).

Morale seconda : non solo le strade di Dio e della Provvidenza sono infinite. Certamente lo sono anche… quelle della ri-scrittura del messaggio evangelico.

 

Jerusalema

Scritto da  MARIKA BONONI.

 

Jerusalema è una canzone pubblicata nel novembre 2019 dal produttore discografico sudafricano Master KG e interpretata dalla cantante Nomcebo Zikode. Divenuta colonna sonora dell’estate 2020 soprattutto grazie a una challenge sul social-media Tik Tok, il suo hashtag ha raggiunto livelli di popolarità altissimi. Nessuna categoria esclusa (emozionante il video dei francescani in https://youtu.be/6Zw0Jfl5_bE) l’umanità intera si è lasciata travolgere dal ritmo garbato e festoso delle sue note. Le bandiere dei paesi di tutto il pianeta hanno trovato in questa sonorità la medesima brezza da cui farsi accarezzare, stili di vita disparati e fedi religiose diverse, uniti da un richiamo che sfugge al pensiero logico, hanno percepito qualcosa in grado di far vibrare corde invisibili ai sensi.

La straordinarietà di questa canzone non va ricercata però in un mero romanticismo e neanche nella lingua inusuale scelta dall’autore (la lingua venda, una dei molti idiomi parlati in Sudafrica e Zimbabwe) bensì nelle parole del testo il cui significato è direttamente riconducibile alla sfera religiosa, più propriamente ebraico-cristiana. Gerusalemme è la città delle tre fedi monoteiste: “Terra Promessa” di ebrei e musulmani, luogo dell’evento Pasquale e prefigurazione del Regno Celeste per i cristiani. È nel testo che però risuona più forte il richiamo alla Sacra Scrittura a partire dal genere letterario a cui appartiene, infatti nella Bibbia corrisponde a quello dei Salmi in cui i versi di Master KG “Gerusalemme è la mia casa, guidami, portami con te, non lasciarmi qui” trovano la loro giustificazione nel Salmo 122:Quale gioia, quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore”. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme!” (Sal 122,1-2). L’esultanza del popolo di Israele è motivata dalla rettitudine di chi vi abita  (Là sono posti i seggi del giudizio) dalla pace che vi regna  (sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi) dal riparo e dal senso di protezione che essa emana  (Gerusalemme è costruita come città salda e compatta).

Questa città non è solamente un luogo terreno, proprio come suggerisce la canzone (“Il mio posto non è qui, il mio Regno non è qui”) il riferimento è alla biblica Gerusalemme celeste (“Voi vi siete invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli” Ebrei 12,22-23) che non apparterrebbe a questo mondo bensì al Regno di Dio: “E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio” (Apocalisse 21,1-3). Il breve testo (otto versi ripetuti) di una canzone all’apparenza così priva di pregi degni di rilievo, nasconde in realtà il peculiare dinamismo che caratterizza l’essenza di questa città, la nuova Gerusalemme  (la “mia casa”) è la “nostra casa” in cielo, perché  “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”  (Gv 14,2-3).

 

 

Cielo o terra, la strada percorsa fin qui ci ha portati a due destinazioni che certamente catalizzano il credente, ma che possono lasciare indifferenti tutti gli altri. Nella profondità della pagina sacra però si cela un significato universale valido per tutte le epoche, le vite e le condizioni umane, è per questo motivo che un non credente può dire di essa che  “è almeno una letteratura e il Dio di Israele è se non altro il più grande personaggio letterario dei tempi”   (E.De Luca, Una nuvola come tappeto, Feltrinelli).

Dunque, se milioni di persone diverse hanno ballato Jerusalema e se esiste una dimensione costitutiva dell’uomo che accomuna tutta l’umanità a prescindere da fede, cultura e provenienza, questo brano deve condurre a una terza via, quel sentiero è il non-luogo di chi si percepisce disorientato: “il mio posto non è qui”. La sensazione di non conoscere il senso della propria vita, il timore che del proprio passaggio non rimanga nulla di significativo, la paura di non aver più ideali per cui lottare, possono essere il primo passo per un cambio di direzione e il non-luogo si può trasformare in un nuovo viaggio da compiere. Gerusalemme è la Terra Promessa di chi anela a una pace che si ottiene solo rendendo ragione all’inalienabile dignità della persona umana, l’unica, tra tutte le specie, in grado di cogliere che il significato stesso di Israele “È qualcosa che continuamente rimette in moto la coscienza sui grandi valori dell’essere e del non essere, di Dio e del non senso”  (Carlo Maria Martini https://www.avvenire.it/agora/pagine/gerusalemme-il-sogno-di-martini).

Infine Jerusalema: si tratta di una preghiera, di una narrazione della condizione umana oppure di un semplice svago? Ebbene, la risposta forse si cela nel senso della domanda stessa, o nell’insita unicità dell’uomo che solo la Sacra Scrittura sa cogliere in maniera così luminosa.

 

 

 

_______________________________________

Nomi, soltanto nomi

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

 

Cosa c’è in un nome?”, si domanda pensosa la Giulietta di Shakespeare, “forse che quella che chiamiamo rosa con un altro nome smetterebbe di profumare?”. No, signorina Giulietta. Ma se lei fosse nata qualche secolo prima e l’avessero salutata come Zippora, forse qualche riflessione in più sul valore dei nomi se la sarebbe fatta. E magari avrebbe chiesto alle amiche di chiamarla Sefora, alla greca, che fa molto profumeria ma ha pur sempre un fascino esotico.

Se bazzicate un po’ la Bibbia, qualche volta rimarrete interdetti sui nomi in cui vi imbattete. Ecco, se siete alla ricerca di un nome per vostro figlio non prendete esempio da Isaia che gli appioppa un Seariasub (“Unrestoritorna”) che presumibilmente lo avrà reso scapolo per tutta la vita. Non che alle femmine vada meglio. Giobbe pensa bene di dare all’ultima figlia il nome Fiala di Stibio, ma almeno lei aveva una dote da paura e certamente trovare un marito non era un problema. Oltretutto nella versione greca si trasforma nel grazioso Amalteia, forse aveva amici all’anagrafe.

 

 

La differenza si vede spesso quando si passa da una lingua all’altra e a volte si fa fatica a pensare che la versione ebraica della Bibbia e quella greca stanno parlando della stessa persona. Chi lo direbbe che il Pinchas del testo masoretico è lo stesso che gli alessandrini chiamano Finees? Se siano migliori i nomi ebraici o greci, beh, è questione di gusti. Certo è meglio l’ebraico Mical per il greco Milcol nel caso della moglie di Davide. Ma Adassa può ringraziare di essere diventata regina e di lasciarsi alle spalle il nome ebraico per portare quello di Ester.

Alcune idiosincrasie sono frutto dei traduttori italiani, ad esempio il vezzo di rendere più eufonici i nomi facendoli finire per vocale invece che per consonante. In ebraico, in greco, persino in latino il figlio di Saul è un dignitoso Gionatan, ma nella nostra lingua perde la consonante, al pari dell’ugualmente sfortunato Goliath, che è destinato a chiamarsi come una caramella. Possiamo almeno consolarci che le traduzioni moderne hanno evitato a Potifar, già gravato dal peso di una moglie infedele, l’onta di vedersi appellato come Putifarre.

 

 

 

Infine non riesco a capacitarmi di come i nostri traduttori non abbiano seguito criteri uniformi nella resa dei nomi del Nuovo Testamento, soprattutto là dove si creava confusione di genere tra maschile e femminile. Approvo senza riserve la scelta della versione 2008 della Conferenza Episcopale Italiana che ha reso alla greca il nome di uno dei prominenti della comunità cristiana di Corinto, così che invece di un imbarazzante Stefana (chi legge penserà a un errore per Stefania) leggiamo ora Stefanas. Ma mi chiedo perché la stessa cosa non sia stata fatta col sommo sacerdote emerito al tempo di Gesù: anche lui è Annas in greco, ma continuiamo a chiamarlo Anna… Il Signore lo punirà certamente per le sue responsabilità nella crocifissione di Gesù, ma perché dobbiamo tartassarlo anche noi con un nome da donna?

 

Barabba ( seconda parte)

 

Scritto da  MARIA NISII.

 

Arazzo Atti degli apostoli, Il Sacrificio di Listra, 1517-1519

 

 

Sebbene rifiutato, Barabba continua a cercare quegli uomini devoti all’uomo crocifisso perché desidera capirne la fede. Tuttavia, quando rivela loro di non credere nella resurrezione, questi lo portano a incontrare Lazzaro, dalla cui vista Barabba resta molto turbato perché il resuscitato versa ora in uno stato tra la vita e la morte: voce atona, parlata lenta, occhi smorti, colorito ceruleo. Se non può smentire il fatto della resurrezione in quell’uomo, non può però ritenerla una cosa buona. Si allontana così da loro, non solo per l’impossibilità di accettare quella fede, ma anche per il rifiuto che i cristiani continuano a opporgli non appena lo riconoscono come colui che è stato liberato al posto di Gesù. Per diverso tempo versa quindi in uno stato di apatia, finché decide di lasciare decisamente Gerusalemme dopo aver assistito ad analogo rifiuto della Leporina.

Barabba infatti non è l’unico personaggio ad avere caratteri somatici che lo trasfigurano in reprobo e come qualcuno da tenere a distanza. Una serie di popolani sfilano infatti nel romanzo assieme alla loro figura impacciata, che ne segna l’identità: la leporina, la grassona, il guercio. Un’umanità brutalizzata già dalla natura, prima ancora che dagli altri uomini. Gli stessi seguaci di Cristo guardano con disprezzo alla donna dal labbro deforme durante un raduno dal sapore liturgico, in cui ciascuno prende la parola per testimoniare. Eppure, quando anche la Leporina decide infine di parlare (in obbedienza alla richiesta dello stesso Gesù che l’aveva invitata a dare testimonianza di lui), su tutti scende un imbarazzo e presto l’adunata viene sciolta. Barabba, che ha assistito a tutto in un cantuccio nascosto, si allontana disgustato.

Frattanto iniziano le persecuzioni e tra le prime a cadere nelle mani dei sacerdoti è proprio la Leporina che, fedele alla richiesta di Gesù, ne predica la dottrina dell’amore, parlando del rinnovamento che verrà per tutti i poveri e i disgraziati. Ironia vuole che sia un cieco a denunciarla agli uomini della legge, e che poi si rifiuterà di scagliare la prima pietra al momento della condanna. Al suo posto la lancia un custode della legge che, nel trambusto seguito alla lapidazione, Barabba pugnala a morte per vendetta. Prima di morire la donna ha una visione di Gesù verso cui si protende. Nella notte Barabba torna a riprendersi quel corpo martoriato dalla natura e dagli uomini, caricandoselo sulle spalle per andarlo a seppellire in terra di Madian, da cui lei proveniva e dove pure era stato sepolto il bambino nato morto, perché maledetto dai suoi quando ne avevano scoperto la gravidanza. Nel viaggio Barabba riflette sulla sventurata, che ha creduto in un salvatore che non solo non l’aveva salvata, ma che ne aveva voluto il sacrificio e che lui ora stava iniziando a odiare.

Fin qui solo la prima parte di un bellissimo romanzo sul tema della fede e dell’impossibilità del credere. Barabba è il reietto in una società di uomini che quelli come lui li tiene alla larga, e non solo per timore di essere derubati di quel poco che possiedono. Da questa realtà neppure i cristiani si differenziano, come dimostra l’episodio della Leporina durante il raduno liturgico: «Tutti si guardavano fra loro impacciati: era come se essa avesse messo in ridicolo ciò che li aveva condotti in quel luogo. E forse lo aveva anche fatto! Forse avevano anche ragione. E sembrava che, dopo ciò, desiderassero soltanto che la loro riunione avesse termine il più presto possibile» (p. 68). La donna si era limitata a testimoniare la sua fede, come avevano fatto altri prima di lei, ma con la sua parlata impacciata, per via della malformazione al labbro e per il nervosismo a esprimersi di fronte a tanti, era stata solo causa di imbarazzo.

Barabba ha il marchio del reietto sul volto e il suo stesso nome diventa segno di quel rifiuto – Barabba il liberato! Il suo è un nome che non può caratterizzarlo: figlio di un padre (dall’ebraico: bar abbà), come chiunque altro, tranne lui che non ha mai saputo chi fosse suo padre. Eppure in questo romanzo non tutti i personaggi hanno un nome; neppure Pietro è nominato e Maria viene detta solo «la madre». Barabba si è legato, nel solo modo in cui è capace di farlo, con la Leporina, e poi con una prostituta, detta «la grassona». Neppure di sua madre si conosce il nome, mentre del padre il narratore rivela che si tratta di quell’Eliahu che l’ha pugnalato sotto l’occhio con l’intento di ucciderlo. Il padre l’ha marchiato, mentre la madre l’ha maledetto. E con questa eredità Barabba si muove nel mondo, incapace di legarsi altrimenti da come fa. L’insolito rapporto che vivrà in schiavitù con Sahak (un armeno con cui condivide le catene in miniera) non è stato cercato e si rivela l’unico autentico: molti anni dopo a Roma si sveglia, cercando ancora la catena che non può più trovare. A differenza delle tante altre figure che sfilano attorno al protagonista, questo schiavo armeno ha però un nome, dunque una dignità intrinseca. Alla sua morte Barabba assiste, come tempo addietro aveva assistito alla morte di Gesù.Questo bel romanzo racconta la storia drammatica di chi non può vivere la fede, scegliendo di focalizzare l’attenzione su un personaggio che raramente era stato ritenuto degno d’attenzione. Alcuni decenni dopo solo un’altra autrice, per quanto ci risulta, lo farà in uno dei quattro racconti del Vangelo dei bugiardi. Ma Naomi Alderman, ebrea, è interessata alla storia antica di Israele e sposa la tesi del Barabba zelota, pure abbracciata da diverse pellicole cinematografiche che raccontano il dopo crocifissione, senza fare del liberato una figura importante. Il Barabba di Lagerkvist invece è un personaggio complesso, e dunque più accattivante, dotato di un passato ignoto e di un’irrequietezza esistenziale senza nome, un anelito alla vita spirituale a cui non riesce a fare spazio. È attratto da Gesù e sulla sua strada continua a incontrarne i seguaci, ma la sua curiosità non trova requie. E non solo perché respinto. Egli vive l’impossibilità di una fede che chiede di credere in ciò che sembra impossibile – un Dio che si lascia crocifiggere come uno schiavo, un salvatore che non salva e sembra chiedere il sacrificio della propria vita. Barabba non può abbandonarsi alla fede, visto che non sa che cosa sia il fidarsi, né può vivere il comandamento dell’amore, perché la sua storia glielo impedisce. Non è mai stato «alfabetizzato» all’amore, anche se è in grado di compiere un gesto di pietà seppellendo la Leporina.

 

 

 

Alessandro Ceni, in postfazione, ricorda come la scansione in scene richiami la struttura del dramma religioso, sostenendo che il romanzo di Lagerkvist sia «lo studio di un essere che dal suo stato primitivo di bruto evolve in uomo, a causa di un trauma rivelativo». La rivelazione di quell’alone di divinità che avvolge Gesù, lo ha cambiato e da quel primo incontro egli non è più lo stesso; persino chi lo conosce si accorge del cambiamento. Il narratore onnisciente ne mostra lo sguardo di altri, quando riferisce il suo disinteresse alle cose del mondo. La prostituta (la grassona), che gli vuol bene, capisce da dove abbia avuto origine quella trasformazione, ma a sua volta non può accedere al livello della fede. Gli altri briganti invece pensano si tratti semplicemente dell’effetto della morte scampata. Il continuo spostamento di focalizzazione, dall’esterno all’interno e fino all’onniscienza, sembra voler chiedere al lettore di guardare a sua volta il protagonista prendendo posizione con tutti gli elementi a propria disposizione. Quanto all’onniscienza narrativa, che emula il punto di vista divino, la si vede comparire e scomparire, come a voler ricalcare in forma letteraria la presenza divina sul protagonista.

Barabba è in cerca di qualcosa e per questo si sposta continuamente da un luogo a un altro senza tregua. Suo malgrado, persino la vita da schiavo (altro paradosso del nome, questa volta del nome attribuitogli dai cristiani: il liberato) conosce luoghi e situazioni diverse. L’ironia narrativa è efficace proprio nel raccontarne la tensione: il liberato viene reso schiavo ma è lì che per la prima volta si «lega» veramente a un altro essere umano, continuando fino alla fine a desiderarne il vincolo nel segno della catena. Colui che nasce senza legami, e che non può conoscere la legge dell’amore, mostra un istinto «naturale» per l’altro dopo l’incontro con Cristo. Il resto lo lasciamo alla lettura: un romanzo da non perdere!

 

___________________________________________

 

2.Fine ( la prima parte dell’articolo è stata pubblicata su questo blog in data 10/10/2020)

 

 

 

 

 

 

Barabba

Scritto da  MARIA NISII.

 

Tutti sanno come egli venne appeso là, su quella croce, e conoscono quelli che stavano raccolti intorno a lui […]. Ma, un tratto più giù, sul pendìo, un po’ in disparte, stava un uomo, che guardava continuamente colui che era appeso lassù e moriva, e ne seguì l’agonia dal principio fino alla fine. Il suo nome era Barabba (p. 7).

Dati per noti i fatti che hanno portato alla comparsa sulla scena pubblica del personaggio di Barabba, è da lì che il racconto prosegue, narrando la vicenda del suo protagonista. Per questo romanzo, lo svedese Lagerkvist ha ottenuto il Nobel per la letteratura l’anno successivo alla sua pubblicazione (1950), adattandolo per la rappresentazione teatrale; in seguito sarà ridotto da Richard Fleischer in versione cinematografica, con Antony Quinn nel ruolo di Barabba. La storia non è una vera riscrittura, nonostante i diversi richiami all’episodio in incipit, quanto piuttosto il modo in cui un «ateo cristiano», come Lagerkvist si riteneva, si misura con la fede e l’idea di Dio – parzialmente presente nella ragione del riconoscimento ottenuto: «…per il suo vigore artistico e per l’indipendenza del suo pensiero con cui cercò, nelle sue opere, di trovare risposte alle eterne domande che l’umanità affronta».

Barabba, come Lagerkvist, è un «credente senza fede», anche se in quel Dio che l’ha salvato, lasciandosi crocifiggere al suo posto, egli vorrebbe davvero credere. Assiste al supplizio della croce di Gesù per quell’attrazione da subito avvertita al primo istante, in cui ha sentito di non aver mai incontrato un essere simile in vita sua: ne ha visto un alone tutt’attorno alla figura, che in seguito si spiegherà come il risultato di un abbaglio della vista, abituatasi al buio della prigione. Quando il condannato esala l’ultimo respiro, egli è convinto di potersi finalmente liberare dall’ossessione che lo tiene avvinto a quel luogo. Invece segue da lontano il gruppo di intimi che ne seppellisce il cadavere e resta poi a lungo presso il sepolcro – senza pregare, perché sa che le sue parole non possono essere accolte: egli è un delinquente e ora si ritrova libero senza aver espiato.

Neppure nei giorni seguenti riesce a liberarsi di quel pensiero e continua a girare per Gerusalemme ascoltando furtivamente i racconti su Gesù, imbattendosi più volte nei suoi discepoli. Prima di veder rivelata la sua identità, riesce persino a parlare a lungo con Pietro e a sapere qualcosa dell’uomo morto in sua vece (pp. 28-33). La resurrezione non è ancora avvenuta, ma pare che molti l’attendano – come è stato predetto loro. Tra questi vi è il dolente personaggio della Leporina, una donna disgraziata a cui Barabba in passato si è legato per necessità e che ora spera nel risanamento dei mali che affliggono i tanti come lei, nei tempi nuovi che sicuramente la resurrezione inaugurerà. A differenza di altri, lei a Gesù non aveva chiesto la guarigione, ma lui l’aveva notata e le si era avvicinato, sfiorandole anche le labbra: «egli l’aveva guardata con tanta dolcezza e insieme con angoscia e l’aveva accarezzata sulla guancia e le aveva toccata la bocca senza che in questa si avverasse alcun mutamento» (p. 37).

Recatosi al sepolcro nella notte del sabato, convinto che la resurrezione non sia qualcosa di possibile, Barabba non vede «niente di straordinario» (p. 42). Eppure al primo raggio di luce il sepolcro risulta vuoto e la pietra appare rotolata, fatti che lui è convinto di poter facilmente spiegare: sono stati i discepoli con il favore dell’oscurità. Poco dopo però si accorge che accanto a lui c’è la Leporina, che ora ha uno sguardo estatico e sostiene di aver visto un angelo sceso dal cielo con il braccio proteso verso l’apertura dell’uscio. Dalla donna Barabba apprende anche la dottrina insegnata da quell’uomo: «Amatevi l’un l’altro».

Nonostante lo scetticismo, Barabba continua a restare a Gerusalemme senza una ragione apparente e non è da lui, avvezzo ai pericoli, il gironzolare senza meta. Naturalmente continua a incontrare i discepoli del rabbi crocifisso, i quali sono persuasi che il loro maestro sia risorto. E udendone i discorsi, si accorge pure che non vi è comunanza di interpretazioni sulla sua identità – come a ricreare le successive dispute teologiche sulle due nature. Tuttavia questi, non appena si accorgono di lui, subito lo allontanano. Già Pietro, dopo avergli parlato a lungo, per essere venuto a sapere di chi si trattava, era apparso smarrito mentre gli altri lo mandavano via, maledicendolo. Per Barabba non è una novità: non è solo il nome a farne un reietto per i seguaci di Cristo. Egli è infatti segnato da una cicatrice profonda sotto l’occhio, inflittagli da un compagno di brigantaggio che nessuno, lui compreso, sa essere stato suo padre. Questa cicatrice, che di tanto in tanto si infiamma, lo segna sul volto, suscitando negli altri repulsione.

Nonostante sia abituato alla reazione degli altri uomini, è la prima volta che Barabba se ne dispiace. Dunque resta escluso dai raduni dei seguaci di Gesù e dalla loro comunanza di fede, sebbene lui non possa credere che quell’uomo morto sulla croce sia il figlio di Dio. Egli infatti non riesce a capire, e trova quindi inaccettabile, che qualcuno possa scegliere di soffrire e morire in quel modo. Ma quando sente dire che egli è morto per tutti loro, pensa che questo valga tanto più per lui: «Egli era stato scelto, ben si poteva dire, … scelto a non dover soffrire; scelto a salvarsi! Egli era il vero eletto, colui che era stato assolto in luogo del figlio stesso di Dio, perché egli lo aveva voluto, per il suo comandamento!» (p. 51).

 

  • (continua)

I sommersi e i salvati

 

 

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

Il titolo, I sommersi e i salvati, preso in prestito da un libro di Primo LEVI, evidenzia bene le due categorie di persone che sono presenti nell’avvenimento dell’Antico Testamento del Diluvio universale e della “punizione di Dio agli uomini”, raccontato nel capitolo 6 della Genesi ai versetti 12:

Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra”, 17 “Eccoio manderò il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne, in cui è alito di vita; quanto è sulla terra perirà” e al capitolo 7, versetto24 “Così fu sterminato ogni essere che era sulla terra: con gli uomini, gli animali domestici, i rettili e gli uccelli del cielo; essi furono sterminati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arca”.

Le immagini che troviamo rappresentate nell’arte sono in alcuni casi quelle dell’arca quale oggetto simbolo della salvezza, soprattutto nell’arte cristiana delle catacombe; in altri l’arca durante la costruzione oppure con il corteo degli animali in coppia che entrano al suo interno. L’arca è normalmente raffigurata come Dio disse a Noè nei versetti 15-16, sempre del capitolo 6, costruita come una casa che doveva galleggiare sull’acqua:

“Fattiun’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori. Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza. Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore”.

Il racconto del diluvio veniva presentato, soprattutto nel periodo medioevale, come monito in vista del Giudizio Universale e le rappresentazioni trascuravano gli aspetti materiali, limitandosi ai dettagli considerati necessari alla simbolizzazione dell’evento e alla trasmissione evidente del messaggio salvifico. In alcune interpretazioni artistiche possiamo cogliere bene in che modo vengono evidenziate le due destinazioni: l’annientamento dei corrotti e la salvezza dei pochi eletti o giusti. Ho scelto di soffermarmi sulle opere di due artisti che hanno evidenziato i comportamenti degli uomini destinati a morire e che tentano invano di entrare nell’arca: Paolo di Dono detto Paolo Uccello e Michelangelo Buonarroti. Il primo a Firenze, nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella (1430) e il secondo a Roma, nella volta della Cappella Sistina (1508-1510).

 

Nell’affresco di Paolo Uccello, inserito in una lunettaa monocromo o verdeterra, riconosciamo a sinistra l’arca dalle assi di legno che la compongono e vediamo chi si aggrappa ai legni, chi sprofonda nei flutti; a destra la stessa arca è rappresentata all’esterno, ormai in salvo, e ciò che succede al di fuori, durante il riversarsi dell’acqua e dopo, quando Noè deve accertarsi se tutto è finito: due episodi, ma con lettura univoca dell’evento biblico. La scena appare irreale per i colori verdi e i due punti di fuga della prospettiva utilizzati. L’artista evoca una natura impetuosa, pronta a manifestare la sua terribile forza con saette, turbini e vento, mentre le rigide cortine lignee della maestosa arca disegnano una velocissima fuga prospettica verso il fondo. I personaggi appaiono come stretti tra cielo e terra, tra il primo piano e il fondo; qui si annidano, tra arditi scorci, cadaveri giacenti, uomini terrorizzati che sembrano volersi aggrappare alla nave, altri che trovano un rifugio di fortuna in una botte, altri ancora che provano a domare le acque sui loro cavalli. L’impianto prospettico dello spazio genera un tratto di profondità che, con l’aiuto delle raffiche di vento, trascina addirittura gli uomini verso il basso. Nella raffigurazione dell’arca, Paolo Uccello colloca l’una accanto all’altra le due scene separate nello spazio: a sinistra, l’avanzare dei flutti e a destra il loro rifluire. Con un riferimento ai criteri delle raffigurazioni medievali, Noè non è inserito nell’inquadramento prospettico, ma sovrasta gli avvenimenti uscendo dall’evento scenico poiché ha stretto un patto d’alleanza con Dio e ciò lo preserva dalla fine, diversamente dall’umanità che s’inabissa.

Nel dipinto di Michelangelo vediamo in secondo piano, sullo sfondo, l’arca, mentre in primo piano è data molta enfasi a ciò che succede alle persone che rimangono. Nella divisione dell’umanità in eletti e reprobi, egli interpreta il testo biblico come tragedia umana, mettendo da parte la questione del concetto di grazia. La scena drammatica promana un senso di angoscia e terrore: Dio che scatena la sua ira con una saetta che cade sulla tenda (ora non più visibile per lo stacco di intonaco e colore in corrispondenza). Distinguiamo diversi gruppi di persone che hanno atteggiamenti o comportamenti che dicono come possano essere le reazioni dell’uomo in caso di catastrofe inaspettata. Michelangelo sottolinea la raffigurazione degli uomini disperati destinati all’annientamento, perché esclusi dalla grazia di Dio; sono la manifestazione della lotta per la sopravvivenza, del soccombere e della perdita della speranza di poter sfuggire al diluvio. Al centro dell’affresco c’è una barca che galleggia sicura, l’arca, mentre una piccola imbarcazione si sta rovesciando durante una lotta tra alcune persone; a destra un padre sorregge il figlio nella speranza di strapparlo alla morte; su uno sperone di roccia e sotto una tenda stanno altre persone con l’estrema illusione di salvarsi e c’è chi guarda verso l’abisso, inesorabile meta finale; a sinistra un insieme di persone disperate e rassegnate. Il bambino che si aggrappa al grembo della madre, con in braccio un altro bimbo e la donna portata a spalla da un uomo, rendono il senso della disperazione mentre le acque incalzano e alcuni che pensano di salvarsi trasportano a fatica poche suppellettili. In primo piano, la donna distesa, in atteggiamento pensoso e sconsolato, sembra essere indifferente al pianto del figlio che le sta alle spalle, perché certa della fine imminente. L’arca è in alto, si intravvedono la colomba e Noè che si sporge con una mano mentre sotto di lui si consuma il dramma: un uomo aiuta un altro uomo a salire sull’arca, mentre un terzo tenta di ucciderli entrambi.

Anche un pittore moderno, russo di origine ebraica chassidica, Marc Chagall, tra le storie della Bibbia conservate a Nizza al Museo Nazionale Messaggio Biblico, illustra  “l’arca di Noè” (1963) ma lì si coglie la visione della salvezza e viene tralasciato il destino dei corrotti: vediamo l’interno dell’arca, lontana dalla classica rappresentazione sacra, priva di prospettiva. La composizione ruota intorno a un vortice come un’ellisse centrale in cui c’è Noè che lancia la colombae e prolunga quel gesto che si conclude nella scala di Giacobbe, simbolo di collegamento tra cielo e terra.Tutto il dipinto è ricco di richiami e simboli: anche qui c’è una parte di umanità, una folla, uomini e animali mescolati e illuminati dalla sola luce che entra dalla finestra e che illumina gli esseri in uno spazio quasi completamente blu, che vanno verso una nuova vita salvata, con la speranza del futuro. Oltre al blu pochi altri colori emergono: il bianco del cavallo, il giallo della cerva, il rosa della donna, il verde del volto di Noè. Si vedono numerose maternità che compongono la nuova umanità e in particolare una con un bimbo a braccia aperte che ricorda Gesù crocifisso e la presenza di un pavone, simbolo della salvezza eterna.

Perché essere cattolico è difficilissimo!

Scritto da  MARIKA BONONI

 

 

All’Angelus del 30 agosto 2020 Papa Francesco, commentando il Vangelo della domenica (Mt 16,21-27) avverte i fedeli dei pericoli di una “fede ancora immatura e ancora troppo legata alla mentalità di questo mondo” (http://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2020/documents/papa-francesco_angelus_20200830.html). Gli Apostoli a causa della loro fede acerba diventano nelle parole del Pontefice l’archetipo del cattolico incapace di un vero “capovolgimento di valori”.

La narrativa spesso ci presenta un severo giudizio rivolto ai Dodici. Non sfuggono, per esempio, le parole poco edificanti del giovane Holden Caulfield: “Mi stanno proprio qui, se volete saperlo. Se la cavano benissimo dopo che Gesù era morto e tutto quanto, ma finché era vivo gli servivano suppergiù quanto un buco nella testa” (J.D. Salinger, Il giovane Holden, Einaudi, Torino 1961, p.117). In effetti è facile immaginare le espressioni basite di fronte alle frequenti e insolite richieste di Gesù, come quando rispondono all’ordine di prendere il poco cibo a disposizione (episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci) con le parole: “Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?”(Mc 6,34-44). In realtà per il cristiano il pensiero semplice degli Apostoli ha la funzione di uno specchio, egli vede in loro l’umanità e in questo modo può comprendere quanto è faticoso pensare alla croce come all’unica via per chi aderisce al Vangelo. “La croce è una cosa incomoda” dice Papa Francesco nell’Angelus e “Essere cattolico è difficilissimo” (Pif, …che Dio perdona a tutti, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2020, p.128) scrive Pierfrancesco Diliberto nel suo ultimo romanzo.

Nel libro di Pif il crocifisso è l’emblema del cambiamento in atto: il giovane protagonista finalmente lo appende per compiacere (e sfidare) la fidanzata perché deciso a fingersi, per tre settimane, un vero cattolico. Proprio come Chips, la star della serie tv Living biblically andata in onda in Italia l’estate scorsa e oggetto di un articolo nel nostro blog (https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/lestate-sta-finendo), il personaggio principale di     …che Dio perdona a tutti ci offre un’interpretazione della Sacra Scrittura rigorosa e poco ultraterrena. Le vicende si snodano intorno a una coppia siciliana, la loro storia uguale a quella di altri giovani del nostro tempo: si incontrano, si innamorano, vanno a convivere. Flora però è cattolica, la sua fede pare profonda e questo si rivela un problema perché lei non accetta la superficialità religiosa di Arturo. Da qui la sfida del protagonista: dimostrare che la fede autentica richiede una vera conversione, l’adesione deve implicare delle scelte morali che non sempre rendono facile la nostra esistenza, può causare imbarazzo, litigi e anche vergogna in una società abituata a prendere dal cristianesimo tutto ciò che interessa lasciando indietro la parte più impegnativa.

I riferimenti biblici si trovano cosparsi in tutto il libro anche se le citazioni dei Vangeli hanno inizio ufficialmente dal capitolo 12. L’autore alterna, spesso con amara ironia, interpretazioni autentiche e letture che mirano all’utile materiale: il versetto di Giovanni “Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (Gv 18,37) diviene lo spunto per confessare all’acquirente di una casa (Arturo è un agente immobiliare) i difetti che la rendono invendibile; a pagina 121 invece Don Vitrano, il prete “adatto alla media alto-borghese” (p.119) incaricato di dissuadere Arturo dal proseguire una conversione troppo intransigente, cita Matteo 7,24: “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia”. La saggezza richiesta ad Arturo però è quella che avrebbe dovuto mettere a tacere la sua coscienza per un opinabile bene comunitario: la vendita dell’invendibile appartamento che si rivela della nipote del curato.

La narrazione procede con la comparsa di un missionario, Don Marco, lui avrà il definitivo compito di guarirlo da quella che, con sarcasmo, l’autore definisce “patologia che si chiama cristianesimo” (p.136). Il frate gli propone l’esempio di tre personaggi che hanno reso la loro conversione un’autentica rivoluzione andando incontro a numerosi conflitti, Papa Francesco, San Francesco e infine Gesù: “Quante difficoltà ha trovato nella sua strada in nome della verità, in nome di Dio. Voglio dire, è morto crocifisso!” (p.138).

L’intreccio custodisce anche numerosi episodi che indirettamente rimandano ad alcuni fra i più conosciuti personaggi dei racconti evangelici. Quando la coppia attraversa un paese di terremotati non è la cattolica Flora a sentire il bisogno di fermarsi per dare un aiuto, ma è Arturo che, proprio come il Buon Samaritano, giunge a donare i suoi vestiti e a privarsi dell’auto per dare calore e riparo a chi aveva perso tutto. La verità cristiana non è una teoria astratta e si realizza solo nell’esperienza umana integrale, così  anche se l’autore non cita espressamente San Paolo (“Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voiRm 15,7) è impossibile non sentire le sue parole riecheggiare nell’episodio in cui Arturo accetta di ospitare un senegalese o quando si rifiuta di osteggiare l’ampliamento della parrocchia volto proprio all’accoglienza degli immigrati.

Al netto di alcuni luoghi comuni (l’eterna contrapposizione fra preti e frati missionari, l’ipocrisia di una certa borghesia cattolica…) la gradevole storia narrata da Pif, certamente senza alcuna pretesa esegetica, rappresenta una coerente riscrittura del messaggio evangelico. La ragione più evidente? Il finale del libro (che non si svelerà) e l’entusiasmo delle parole di Arturo dopo aver aiutato i terremotati: “Deve esserci un processo chimico che rilascia delle sostanze benefiche nel corpo quando fai del bene al prossimo […] quella sostanza, se esisteva, doveva essere potente, perché quel giorno mi portò a uno stato di piacere così profondo e intenso che dimenticai il mio lato oscuro di “mentitore di conversione”, e riuscii a godere dell’aiuto che avevo dato a persone che neanche conoscevo” (p.117-118).

È indubbio “Credere in Cristo è facile, bastano le parole, essere cristiani è difficilissimo” (p.147). Ma la gioia che con forza divampa in alcune pagine del libro è anch’essa parte integrante dell’essere cristiano e questa, l’autore non credente di …che Dio perdona a tutti, non può esimersi dall’esprimerla. D’altronde, anche se la conversione non è autentica, il piacere che deriva dal compiere il messaggio evangelico non può che esserlo.

 

 

 

 

“È solo una balena”

Scritto da  MARIKA BONONI.

Nel 2015 esce in Italia il film The heart of the sea, le origini di Moby Dick diretto da Ron Howard e interpretato dal giovane Chris Hemsworth nel ruolo del protagonista. La storia è l’adattamento cinematografico del romanzo di Nathaniel Philbrick sulla vicenda drammatica della baleniera Essex che avrebbe poi ispirato Herman Melville per la stesura del celebre Moby Dick.

La pellicola si apre con il giovane Melville che si reca dal vecchio Thomas Nickerson: da ragazzo era stato l’inesperto mozzo della Essex capitanata da George Pollard – l’arrogante e inetto rampollo di una facoltosa famiglia di armatori – e dal primo ufficiale Owen Chase (Chris Hemsworth) l’abile baleniere di umili origini. Tutti sopravvissuti al naufragio seguito all’attacco di una gigantesca balena bianca.

Chi c’è sopra di me? La verità non ha confini” (H.Melville, Moby Dick ovvero la Balena, Newton & Compton Editori, Roma 2004, p.149) scrive Melville nella prima parte del suo romanzo, ma poi disincantato afferma: “Gli sguardi degli occhi dell’uomo sono livellati dalla natura all’orizzonte di questa terra” (p.388). È la tensione verso un Infinito che trascende l’uomo, un dibattito interiore che i  protagonisti delle due opere, The heart of the sea e Moby Dick, trasformano in quella dialettica dell’anima che chiamiamo teologia letteraria. Esprimere l’inesprimibile non attraverso le Sacre Scritture, ma affidandosi all’esperienza che di Dio ogni essere umano vive nella propria esistenza, nelle scelte morali, nello sguardo che si ferma o oltrepassa la finitudine.

Eravamo diretti ai confini della Terra in cerca di verità” così il vecchio Thomas Nickerson nel film introduce il suo racconto, fornendo allo spettatore la pietra d’inciampo in cui imbattersi durante la visione delle avventure vissute dal primo ufficiale Owen Chase. La stessa ricerca che spinge Achab, il capitano “Roso di dentro e bruciato di fuori” (p.165), a inseguire la balena bianca attraverso tutte le acque della Terra.

Qual è dunque il confine fra ciò che è umanamente possibile e ciò che non lo è? La vendetta può considerarsi il superamento dei limiti imposti dalla morale? L’indomita libertà dell’anima umana conduce all’autodistruzione oppure alla piena realizzazione di sè? L’insegnamento è custodito nella conclusione delle vicende dei nostri protagonisti, la risposta (anche biblica) in colui che alla fine sopravvive: Owen Chase.

L’albero della conoscenza del bene e del male (Gn 1), la Torre di Babele (Gn 11), Caino e Abele (Gn 4): Scrittura e umanità si intrecciano nelle vicende della Essex e del Pequod (la nave melvilniana). Owen Chase al momento di sferrare il primo attacco, quello che gli costerà la nave e la vita di parecchi uomini dell’equipaggio, ricorda a se stesso che si tratta solo di una balena. Ma è proprio così? La riposta è no. È vero, i Salmi ci restituiscono un Leviatan voluto da Dio sin dagli albori della Creazione e chiamato con tutto il Creato a lodare il Padre “perché solo il suo nome è sublime” (Sal 148,7-13), un gigante marino che addirittura allieta il Signore e con il quale Egli non disdice giocare (Sal 104,26). La Bibbia talvolta pare fornire un’immagine quasi bonaria del Leviatan e quindi l’invito a considerare Moby Dick alla stessa stregua dell’uomo (in fin dei conti Adamo aveva ricevuto il permesso di dare un nome a tutte le creature in Genesi 2,19) sembrerebbe autorizzare il primo ufficiale Owen Chase e il capitano Achab a inseguire, sfidare, piegare ogni mostro marino alle proprie necessità.

Perchè dunque appare così evidente il filo tragico che unisce le due baleniere? Nel testo più drammatico della Bibbia, il Libro di Giobbe, il Leviatan diviene il simbolo della potenza di Dio e dell’ordine primordiale della Creazione che nessun uomo può osare controllare: “Puoi tu pescare il Leviatan con l’amo/e tener ferma la sua lingua con una corda […] Metti su di lui la mano:/al ricordo della lotta, non riproverai!” (Gb 40,25-32). La teofania dei capitoli 40 e 41 del Libro di Giobbe assume le sembianze di un interrogatorio e pare rivolgersi direttamente ai nostri personaggi: “Hai tu un braccio come quello di Dio/e puoi tuonare con voce pari alla sua?” (Gb 40,9). No, non c’è risposta al problema del male e allo stesso modo è inutile e folle “pescare il Leviatan con l’amo/e tener ferma la sua lingua con una corda” (Gb 40,25).

Moby Dick allora incarna la volontà di superare quel bisogno di assoluto che Dio ha instillato nel genere umano, quell’anelito alla perfezione che induce l’uomo più temerario a sfiorare la pazzia sfidando la propria finitezza, quella vendetta che pare guarire ogni insana ferita ma che invece porta solo al decadimento morale.

 

Moby Dick non è solo una balena. È la materializzazione della contraddizione che caratterizza la condizione umana quando permettiamo che la mortale grandezza dell’uomo divenga una malattia (p.86):

“Io ti conoscevo per sentito dire,

ma ora i miei occhi ti vedono.

Perciò mi ricredo

e ne provo pentimento

su polvere e cenere.”

(Gb 42,6)

Il seme caduto in terra

 

Scritto da  MARIA NISII.

Pietà Rondanini (Michelangelo)

 

La riflessione sul corpo è al centro di tante opere di Michelangelo (il Bacco, il David, il Crocifisso di Santo Spirito…), ma ora vogliamo soffermarci sul modo in cui questo artista abbia tentato di mostrare un corpo visibile plasmato dallo spirito invisibile. È quanto viene alla luce nella Pietà Rondanini, un gruppo scultoreo a cui pare abbia lavorato negli ultimi quindici anni della sua vita e probabilmente ancora nei giorni precedenti la morte (18 febbraio 1564). È esposto al Castello Sforzesco di Milano, dove è possibile ammirare il risultato di questo lungo lavoro rimasto incompiuto. Il carattere di incompiutezza può anche apparire sconcertante, considerato il tempo dedicato all’opera, ma lo sarà meno se ricompreso come riflessione personale dell’artista sul tema della morte e della resurrezione.Quello che tutto subito ci appare, per la posizione accasciata del Cristo, è che si tratta del suo corpo dopo la morte, eppure questo Cristo morto, quasi fosse vivo, è rivolto verso la madre e lei, a sua volta, stringe a sé il figlio come si trattasse di una persona vivente.Come noto, ogni scultura richiede di essere osservata nella sua tridimensionalità, “camminandoci attorno”. Se dunque ci spostiamo verso destra e guardiamo sul retro, notiamo che la parte superiore del corpo di Maria è piegata in avanti dalla cintola in su. Si tratta di un’immagine che,vista sul davanti, può apparire un gesto di affetto, mentre di lato e sul retro mostra altro: Maria si inchina sul corpo del figlio prendendolo a sostegno, in quanto senza il suo stesso corpo cadrebbe a terra!

 

 

 

Maria infatti pare poggiare il suo peso sulle spalle di Cristo, il quale sembra muoversi per abbracciarla. Il corpo di Gesù dà infatti l’impressione di spingere verso l’alto, un’azione che risulta rinforzata dalle braccia, che tiene contro il corpo della madre, lungo le gambe. Non è quindi Maria a portare il figlio, ma il contrario. Ritroviamo qui le tracce di una tradizione che mostra il corpo di Cristo morto in azione – come è evidente nelle crocifissioni in cui appare vivo. Michelangelo sceglie allora di enfatizzare la vitalità del corpo di Cristo attraverso alcuni dettagli, in cui mostra una Maria che porta ed è portata, che grava verso il basso mentre pare levarsi. L’artista vuole di fatto mostrarci la forza della resurrezione, non ancora in atto ma già sprigionante le sue potenzialità da un corpo attualmente privo di vita.

 

“Non piangere per me madre” (icona russa)

Quello che l’arte ha rappresentato in immagini, è stato reso anche in forma narrativa da alcuni degli autori che hanno riscritto la vicenda evangelica. Nel recente libro di Amélie Nothomb, Sete, Gesù racconta in prima persona la propria passione – dal processo alla resurrezione. Il momento della morte è qui reso come il dischiudersi di una nuova ondata di vita: «Ecco arrivato il grande momento. La sofferenza scompare, il cuore si disserra come una mascella e riceve una carica d’amore inaudita, è al di là del piacere, tutto si apre all’infinito, non ci sono limiti a questa sensazione di libertà, il fiore della morte non cessa più di schiudere la sua corolla» (p. 87).

 

 

 

 

Non è certo il primo tentativo di raccontare il trapasso, in quanto la narrativa sperimenta continuamente forme e contenuti, ma in genere si ferma sulla soglia. Questo piccolo libro invece accompagna il suo lettore oltre il pensabile, consentendogli di immaginare la vita che prosegue senza interruzioni dopo la morte. Alcune pagine sono quindi dedicate alla sosta nel sepolcro, dopo i riti veloci della sepoltura: «Non appena tutto si è concluso, per me è cominciata la festa. Il cuore mi è esploso di gioia. Una sinfonia di letizia ha preso a risuonare dentro di me. Sono rimasto sdraiato a esplorare questa felicità finché non ce l’ho più fatta. Mi sono alzato e ho danzato» (p. 96). In questa narrazione spiazzante (sarebbe poi pensabile qualcosa di diverso?) si immagina la vita che prorompe, persino euforica, immediatamente dopo la morte: «non esistono limiti a quella che chiamiamo vita» (p. 97), conclude infatti prima di iniziare a raccontare la «presenza» di un defunto nella vita delle persone che ha amato e dunque della propria nelle tante apparizioni di cui i Vangeli danno conto.

Questa stessa dimensione spazio-temporale era già stata indagata, sempre in prima persona, in un racconto di Erri De Luca, Dal fresco di una cantina di un sepolcro (nella raccolta Nocciolo d’oliva). Anche in questa versione la resurrezione che arriverà è una forza propulsiva: «già sento la carne che riparte… questo sepolcro nuovo, fresco di cantina, accelera il prodigio» (p. 27-8). Ma è pure un tempo di solitudine dopo gli anni intensi di vita pubblica, che da qui ripercorre in brevi tratti; si racconta quindi come«uno sbaraglio di amore, duro solo contro se stesso ma docile fuori, [che] trascina a vita nuova» (p. 29).Lo si è potuto fraintendere, accusare e uccidere. Alla sua vita però non si è messo fine: la sua agonia è diventata un simbolo d’amore e le braccia stese sulla croce l’abbraccio di Dio. Non solo alla sua però, perché quella vita nuova è promessa a tutti: «vi aspetto al varco delle resurrezioni, dopo la mia le vostre. C’incontreremo qui voi ci verrete» (p. 31).

 

Concludiamo allora con qualche verso di Mario Luzi, che chiude la sua Via crucis, espressamente richiestagli da Giovanni Paolo II, con un coro che annuncia la resurrezione:

Dal sepolcro la vita è deflagrata.
La morte ha perduto il duro agone.
Comincia un’era nuova: l’uomo riconciliato nella nuova
alleanza sancita dal tuo sangue
ha dinanzi a sé la via.
Difficile tenersi in quel cammino.
La porta del tuo regno è stretta.
Ora sì, o Redentore, che abbiamo bisogno del tuo aiuto,
ora sì che invochiamo il tuo soccorso,
tu, guida e presidio, non ce lo negare.
L’offesa del mondo è stata immane.
Infinitamente più grande è stato il tuo amore.
Noi con amore ti chiediamo amore.
Amenì

 

Piero della Francesca, Resurrezione