Tocca a noi essere Profeti

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Alla fine dei giorni,
il monte del tempio del Signore
sarà eretto sulla cima dei monti
e sarà più alto dei colli;
ad esso affluiranno tutte le genti.
3 Verranno molti popoli e diranno:
«Venite, saliamo sul monte del Signore,
al tempio del Dio di Giacobbe,
perché ci indichi le sue vie
e possiamo camminare per i suoi sentieri».
Poiché da Sion uscirà la legge
e da Gerusalemme la parola del Signore.
4 Egli sarà giudice fra le genti
e sarà arbitro fra molti popoli.
Forgeranno le loro spade in vomeri,
le loro lance in falci;
un popolo non alzerà più la spada
contro un altro popolo,
non si eserciteranno più nell’arte della guerra.
5 Casa di Giacobbe, vieni,
camminiamo nella luce del Signore. (Isaia 2,2-5)

Vale sempre la pena raccontare  come la riscrittura biblica non venga praticata solo nell’arte, in letteratura, in musica: ma come possa esistere anche una forma di riscrittura incarnata, per così dire, nella vita, nelle azioni, nella condotta . Succede che qualcuno la prende talmente sul serio, la Parola, da viverla in se stesso. Declinandola per conseguenza nella sua specifica realtà e nel suo mondo. Dandone così una versione attualizzata e contestualizzata, tutta sua, che sarà  per forza qualcosa di nuovo e originale.

Siamo abituati a credere che questo possa accadere in pochi casi: quelli di coloro che chiamiamo  “santi”, ad esempio. Ma i santi non nascono tali, con tanto di aureola incorporata: e se una larga fetta di agiografia tradizionale tende a presentarceli come predestinati e presecelti, basta accostarsi alle loro vite in modo oggettivo per cogliere tutta la normalità e tutta l’umanità di queste persone: assolutamente uguali a noi. Santi, eventualmente, si diventa. Testimoni, si diventa. Riscritture viventi del Vangelo, si diventa.

Nella Preghiera per la pace voluta da papa Francesco in San Pietro il giorno 27 di ottobre, è stata proclamata a un certo punto la profezia di Isaia che abbiamo riportato qui sopra. A dare una prospettiva e un orizzonte alla supplica della giornata , bene incentrata sui disatri, sui pericoli e sulle paure connesse all’ora buia  che stiamo vivendo.

Solo poche ore dopo questa preghiera e queste parole, tutti i Tg sono andati in onda  con edizioni starordinarie che annunciavano un incremento di violenza, di bombardamenti, in una parola di guerra, come non si era mai visto dall’inizio di questa crisi. Il che ci ha fatto toccare con mano, ci ha fornito l’ennesima  prova provata di quanto le parole della fede e della preghiera possano sembrare lontane, svuotate, irrealistiche e – vogliamo dircelo ?- sostanzialmente inutili davnti allo scatenarsi della furia bellica.

Eppure la Parola è quella, ed è parola di Dio, se ci si crede.

A noi tocca ascoltarla, meditarla, pregarla. E poi? Poi: ci tocca riscriverla nelle nostre vite. Pena il renderla inerte, vana, veramente inutile, questa Parola che ci è data. E saremo noi ad averla sabotata e ad averla fatta abortire: con il nostro nulla fare.

Due brevi vademecum per l’occasione.

La reazione impulsiva di chiudersi a riccio, blindandosi per paura del “diverso” che vive in mezzo a noi, serve a poco o nulla. Sentirsi in guerra  in modo permanente, cercare la contrapposizione frontale tra civiltà e religioni,  sarebbe abboccare all’amo: proprio questo cercano. C’è un piano su cui si muovono e debbono agire i politici, le polizie e gli eserciti .  Noi possiamo influirci poco o niente. Ma ce n’è un altro, non meno importante,  che è quello culturale, sociale e di mentalità, dove è indispensabile fare un gran lavoro paziente , tenace e prolungato nel tempo. Lì, noi possiamo fare tanto. Tocca a noi. Basta, col rinchiudersi  in salotto, a lanciare accuse o profezie di sventure: tocca schiodarsi dalle poltrone e andare fuori. Basta, col salire sulle barricare del ” noi cattolici”, contro tutto quello che non lo è: bisogna  farsi elemento di unione, collaborazione, far fronte comune con  tutti gli altri per cercare e portare avanti ogni forma possibile di integrazione e coesistenza pacifica tra culture e religioni. C’è da farsi un bel mazzo. Che però passa dalle nostre parole, dai nostri piccoli gesti, dalle nostre chiacchiere da bar, dai nostri interventi pubblici, dal nostro essere presenti nelle piazze, dai nostri pareri, dal nostro modo di vivere e di comportarci .A patto che ci si voglia mettere la faccia , la testimonianza e il “giorno per giorno”.” ( Ufficio per la Pastorale della Cultura della Diocesi di Torino, 30 marzo 2016)

La violenza, la guerra, ” il terrorismo, di qualunque matrice esso sia, è una scelta perversa e crudele, che calpesta il diritto sacrosanto alla vita e scalza le fondamenta stesse di ogni civile convivenza. Se insieme riusciremo ad estirpare dai cuori il sentimento di rancore, a contrastare ogni forma di intolleranza e ad opporci ad ogni manifestazione di violenza, freneremo l’ondata di fanatismo crudele che mette a repentaglio la vita di tante persone, ostacolando il progresso della pace nel mondo. Il compito è arduo, ma non impossibile. Il credente infatti sa di poter contare, nonostante la propria fragilità, sulla forza spirituale della preghiera.

Cari amici, sono profondamente convinto che dobbiamo affermare, senza cedimenti alle pressioni negative dell’ambiente, i valori del rispetto reciproco, della solidarietà e della pace. La vita di ogni essere umano è sacra sia per i cristiani che per i musulmani. Abbiamo un grande spazio di azione in cui sentirci uniti al servizio dei fondamentali valori morali.

Quante pagine di storia registrano le battaglie e le guerre affrontate invocando, da una parte e dall’altra, il nome di Dio, quasi che combattere il nemico e uccidere l’avversario potesse essere cosa a Lui gradita. Il ricordo di questi tristi eventi dovrebbe riempirci di vergogna, ben sapendo quali atrocità siano state commesse nel nome della religione. Le lezioni del passato devono servirci ad evitare di ripetere gli stessi errori. Noi vogliamo ricercare le vie della riconciliazione e imparare a vivere rispettando ciascuno l’identità dell’altro. La difesa della libertà religiosa, in questo senso, è un imperativo costante e il rispetto delle minoranze un segno indiscutibile di vera civiltà”. ( Benedetto XVI, Colonia, 2005)

C’è dunque una riscrittura che attende ciascuno di noi.

Il posto di spettatore , per quanto angosciato, ci è precluso.

Se siamo qui, è perché siamo stati scelti, mandati.

Credenti, missionari, testimoni: ma anche – e in questi momenti soprattutto –  PROFETI

Non a  parole: non sta a noi.

A noi tocca la profezia nei piccoli fatti della nostre storie.

 

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La Bohème alla Consolata

 

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

Che esista un robusto legame tra Torino e La Bohème di Giacomo Puccini è cosa risaputa. Fu proprio qui, al Teatro Regio, che andò in scena la prima rappresentazione dell’opera. Con un successo che si consolidò poi attraverso il tempo , i luoghi e le generazioni di melomani, tanto da renderla una delle opere piu’ gettonate, celebri ed eseguite in tutto il mondo.

Anche quest’anno, nel 2023, siamo alla vigilia di una sua  nuova messa in scena torinese.

La storia di Bohème è arcinota: come in tutti i melodrammi, è storia di amore e morte. Ma calata, a differenza della maggior parte degli altri casi, in un ambiente di vita quotidiano e realistico;senza eroi né eroine, per intendersi, ma con un gruppetto di giovani squattrinati e  per l’appunto bohemiens, secondo il detto dell’epoca, a far da protagonisti, e belle ragazze a fare da comprimarie e contraltare. Noi – pubblico di oggi – abbiamo in parte perduto il senso della novità di questa ambientazione: la musica, il testo del libretto, i costumi e il way of life di questi artisti poveri in canna e volentieri goliardi ci appare comunque datato e lontano nel tempo. Ma quando l’opera fu scritta e rappresentata, era qualcosa di molto attuale e molto contemporaneo. Per farcene un’idea, avrebbe potuto avere sugli spettatori dell’epoca l’impatto che avrebbero avuto parecchi decenni dopo  i film italiani neorealisti nel dopoguerra.

Quello che qui ci interessa, però, non è l’analisi del capolavoro di Puccini. Piuttosto, il fatto che sul finire dello spettacolo – siamo alla fine del IV atto – irrompono improvvisamente sulla scena la fede e la preghiera. E’ poco più di un attimo: poche battute, pochi versi, nemmeno un’aria lirica vera e propria. Scena: nella soffitta, tutta spifferi gelidi e umidità malsana, Mimì giace, malatissima di tisi e prossima ormai alla fine; senza che né lei, né i suoi giovani amici, pur spaventatissimi ,  abbiano coscienza dell’imminenza della tragedia che incombe. C’è appena stato il ricongiungimento appassionato della ragazza con il suo Rodolfo, e il reincontrarsi con il resto della compagnia. E’ a questo punto che  Musetta, la più spensierata, spregiudicata e leggera del gruppo, improvvisamente  ha uno slancio di fede e di preghiera per l’ amica che vede stare malissimo. Non c’è rottura, né scenica né musicale, che  prepari o  introduca questo cambio di registro:  la supplica sgorga spontanea e apparentemente incongrua, unica parentesi  del genere in tutta l’opera, dove  l’orizzonte è tutto all’interno della dimensione terrena e amorosa, giorno per giorno, di quel loro microcosmo. E’ tutto talmente rapido e naturale nel suo manifestarsi, che le parole della  preghiera si mescolano alle parole legate alle azioni spicciole dettate dal momento e dalla contingenza. Si sprigionano lì dove si è, come si è: né più né meno.

Dice e canta all’improvviso Musetta, in mezzo ai suoi amici , mentre sta facendo riscaldare a una debole fiamma il preparato che uno degli altri  è uscito a prendere per l’ammalata:

Madonna benedetta,

fate la grazia a

questa poveretta

che non debba morire…

 

(poi, interrompendo la sua preghiera, rivolta a Marcello)

Qui ci vuole un riparo

perché la fiamma sventola.

 

(Marcello si avvicina e mette un libro ritto sulla tavola formando paravento alla lampada)

 

Così.

 

(Ripiglia la preghiera)

E che possa guarire.

Madonna santa, io sono

indegna di perdono,

mentre invece Mimì

è un angelo del cielo.

 

(mentre Musetta prega, Rodolfo le si è avvicinato)

 

Rodolfo:

Io spero ancora.

Vi pare che sia grave?

Musetta

Non credo.

 

Chi ha vissuto l’esperienza di assistere e magari partecipare alla fine di una vita giovane e crudamente spezzata dalla malattia ( Mimì è stroncata dalla tisi, il male del secolo del tempo) avverte immediatamente la nota di verità di questa scena. Perché qui  non c’è nulla di rassegnato, di arreso, di accettato davanti alla morte prematura, per quanto  si possa vedere coi propri occhi la persona  fiaccata e sconvolta dalla sofferenza. E questa incredulità, questa nota innaturale, sovrasta e domina tutto, persino la disperazione e il dolore, insinuandosi tra i gesti, le parole, i ritmi, le consuetudini degli amici presenti,  che restano comunque, incredibilmente quanto vanamente, gli stessi di sempre:  pur nella eccezionalità spaventosa di quello che sta accadendo.

Oltre a questo, la prima volta che vidi l’opera dal vivo, fui colpito dalla somiglianza della scena con qualcosa di vagamente familiare eppure indistinto che sul momento non seppi cogliere. Solo in  seconda battuta, ripensandoci,  mi resi conto che il colpo d’occhio di quel che avveniva sul palco mi aveva richiamato alla memoria le immagini provenienti da tutt’un altro mondo: quello  di certi ex voto della Consolata.  Uguale la stanza disadorma, uguale la persona  malata riversa su un povero letto, uguale la  piccola folla di persone intorno: la stessa atmosfera drammatica e allo stesso tempo sospesa, stessa supplica basica e infantile, ridotta all’osso e confidente

Madonna benedetta!”

Basta farsi un giro nella galleria degli ex voto della Consolata, qui a Torino, per imbattersi in tante, tantissime scene di questo tipo. Molte volte sono esattamente come quella della soffitta di Mimì, senza epici accadimenti d’intorno: né precipizi sgarupanti pronti a inghottire qualche disgraziato, né marosi sul punto di sommergere ogni cosa, né battaglie che infuriano da ogni lato. Solo silenzio, riservatezza,  “normalità”: una camera da letto, o  un letto della corsia di un ospedale, e basta. Come a ricordarci: per morire non è necessario uno sconquasso, la morte puo’ esere ordinaria, senza clamori. Roba di casa e di gente nostra. Specie in quell’epoca in cui veramente si moriva per lo più così: tutt’altra storia dalle morti medicalizzate e  ospedalizzate che ci attendono oggi, tra video, bip di apparecchi e ronzii elettromedicali.

Gli ex voto sono, naturalmente, una riscrittura formidabile: per quantità di storie e per vivezza del racconto. Una riscrittura della fede cristiana colta nella sua dimensione più popolare e se si vuole anche ingenua, quella fede che trova più alla mano rivolgersi a Maria e ai santi, che non a Dio Creatore o a Gesù Cristo: una fede certamente naif e  forse addirittura infantile, tutta ed esclusivamente tesa al prodigio. Che vuol dire: guarigione. salvezza, vita. E per quanto possiamo, e in molti casi dobbiamo, saper prendere e tenere le distanze da manifestazioni religiose troppo fideistiche e miracolistiche, tuttavia non possiamo dimenticare che il Vangelo stesso è pieno di richieste di aiuto di questo genere, a tal punto che se si volesse espungere il testo evangelico di tutti i miracoli costantemente riportati, troveremmo che è praticamente impossibile farlo. Anche nel Vangelo i miracoli arrivano, e si compiono. In molti casi proprio nelle piccole storie e nelle piccole vicende, nella case anonime e nella famiglie come tante altre di chi supplica a chiede. Gli ex voto, pur nella loro dimensione popolana e tavolta infantile, sono lì a voler testimoniare proprio questo: la potenza di una fede ridotta all’osso che riesce a strappare l’intervento al Cielo.

 

 

Giustamente mi è stato fatto osservare un giorno,  da un amico ateo che avevo accompagnato al visitare la galleria della Consolata, che in realtà, quella raccolta era tutta una antologia di immagini  “di vita”: drammatiche sì’, ma andate a buon fine. Laddove – in chiesa – c’è al contrario un prevalere di immagini di morte: dal Crocifisso ai martiri ai santi stessi  (forzatamente trapassati), ai simboli della caducità delle cose, alle reliquie …Un argomento che darebbe la stura a una mezza dozzina di dotti dibattiti teologici, di cui, qui, non ci si occupa minimamente. Ci interessa invece ricordare come gli ex voto siano stati ( e siano ancora) espressione della fede semplice e minuta, esattamente come lo è la preghiera spontanea di Musetta, scaturita dallo spavento e dal dolore davanti alla sofferenza di un’amica.  Gli ex voto non solo riscrivono la fede (a modo loro), ma riscrivono anche le storie ordinarie e anonime dei loro protagonisti. I quali, da sconosciuti quali generalmente restano, diventano personaggi della storia  della Salvezza, in grado come sono di squarciare con la loro preghiera tempo e spazio e attirare, rappresentate nei lembi superiori dei dipinti, Madonne incoronate  e maternamente intenerirte,  incapaci di tacere senza rispondere alla richiesta di aiuto. C’è un unico limite, in questa narrazione: gli ex voto raccontano – per definzione e natura- solo “lieti fini”: son lì a testimoniarli. La preghiera, apparentemente inascoltata, di Musetta fa parte invece  della gran massa di tutti gli infiniti altri casi. Quelli in cui i cieli restano chiusi, e ci sembrano vuoti, sordi e impassibili alle nostre grida. Nessun cenno mistico, nessun’ apparizione fugace e risolutrice , nella scena del quart’atto di Bohème. Al contrario: Mimì se ne muore, nel suo letto. L’orizzonte resta chiuso e a splancarsi è il grido di disperazione di Rodolfo che la chiama per nome,  e l’attonita impotenza degli amici davanti al sipario che cala. Cala su Mimì stessa, sulla sua storia, sull’opera, e sulle nostre forse troppo facili aspettative di miracolo. Forse per questo , a più di un secolo di distanza, questo finale è sempre in grado di toccarci, nel profondo dell’anima.

 

Storpio nei piedi

Scritto da MARIA NISII.

Di piede in piede (5)

 

 

 

Giònata, figlio di Saul, aveva un figlio storpio nei piedi. Egli aveva cinque anni quando giunsero da  Izreèl le notizie circa i fatti di Saul e di Giònata. La nutrice l’aveva preso ed era fuggita, ma nella fretta della fuga il bambino era caduto ed era rimasto storpio. Si chiamava Merib-Baal. (2Sam 4,4)

In questo excursus biblico che focalizza l’attenzione su un dettaglio anatomico solo apparentemente irrilevante, ritroviamo Davide e Gionata (https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/davide-e-gionata) incontrando il personaggio di Merib-Baal. E poiché sono tanti i racconti che hanno riscritto la storia di re Davide, abbiamo un’ampia gamma di riscritture a cui attingere.

 

 

Ne Il pianto del figlio di Lais di Riccardo Bacchelli (1945) si racconta che Gionata è rimasto vedovo con un solo figlio piccolo e prima di partire per una guerra, che in anticipo sa essere l’ultima, lo affida alla sorella Micol andata frattanto in sposa a Faltiel.Quando il cognato va a prendere il bambino, trova però la città assediata, la casa di Gionata già vuota e i giochi del piccolo abbandonati sul pavimento. Disperando ormai di trovarlo, l’indomani mattina all’alba vede una donna seduta sul margine di una strada con un bambino steso sulle ginocchia. La donna piange disperata.

Faltiel considerava il viso estenuato, le belle e delicate fattezze del fanciullo che giaceva ad occhi chiusi, colle gambe inerti e come morte (p. 206).

La donna, che dice di essere la sua nutrice, spiega:

Ieri, quand’arrivò la prima notizia che Saul e i figli di Saul e gli uomini d’Israele son tutti morti, sentendo gridare: Ci sono i filistei! Io mi levai per fuggire. L’avevo in braccio; nel correre ho inciampato: mi è caduto e non si regge più sui piedi. Di sicuro li ha rotti […] Ma io non ho fatto apposta: ho inciampato: credevo che i filistei fossero già in Gabaa: tutti urlavano. Oh, s’è fatto tanto male, e resterà storpio per sempre. Meglio per suo padre non rivederlo mai più, ridotto com’è (p. 206-8).

Micol e Faltiel accolgono e si prendono cura del piccolo e della nutrice, ma il suo destino pare segnato:

il fanciullo, chiuso e rattratto nella sua timidezza d’infelice e di segnato da Dio […] sembrava perso ed assorto in un sogno […]. I ricordi della prima infanzia e del padre, ai tentativi di parlargliene, lo rattrappivano penosamente, con ira stolta e penosa; e non sopportava vicina altra persona che la nutrice, la quale, secondo il parere di Micol, finiva di renderlo stupido e inetto, di storpiargli lo spirito, per adoperare le sue parole, come gli aveva storpiati i piedi (p. 214-5).

 

 

In Betsabea di Torgny Lindgren (1984) la descrizione del figlio di Gionata è prodiga di dettagli:

Merib-Baal era dunque storpio. Lo era fin dall’infanzia, era stata la nutrice a renderlo storpio. La donna apparteneva alla stirpe dei Daniti, la stessa di Sansone, colui che uccise mille uomini con una mandibola d’asino, ella era alta quattro braccia e aveva la forza di tre uomini. Quando Saul e Gionata furono uccisi presso il monte Gelboa, ella scappò con Merib-Baal per sfuggire ai Filistei, il bambino diventerà re, penso, Merib-Baal aveva all’epoca cinque anni, ella lo sollevò sulle mani e se lo tenne alto sopra il capo mentre correva, il piccolo era figlio del re ed ella lo sollevò verso il cielo perché anche nella fuga potesse conservare la propria dignità e grandezza, ma quando raggiunse Izreel, la pianura sotto il Gelboa, il suo piede sinistro inciampò contro una pietra ed ella cadde in avanti e Merib-Baal le scappò di mano e i suoi piedi si schiacciarono nella caduta, entrambi i piedi si schiacciarono e non furono mai più piedi nel vero senso della parola, ma diventarono due masse informi e carnose  prive di mobilità e di stabilità; per poter camminare Merib-Baal era costretto a servirsi di due bastoni, i bastoni erano intagliati in legno di gelso e avevano in basso teste di serpente e in alto artigli di uccello rapace. (p. 75)

 

 

Il re gli disse: «C’è ancora qualcuno della casa di Saul, che io possa trattare con la bontà di Dio?». Siba rispose al re: «Vi è ancora un figlio di Giònata, storpio nei piedi». (2Sam 9,3)

Quando Davide scopre l’esistenza di questo figlio di Gionata, le sue parole sembrano ricche di affetto per l’amico perduto. Tuttavia la preoccupazione mostrata altrove di dover rivaleggiare con eventuali eredi al trono (cfr 2Sam 21,8-9), ci fa propendere per un’interpretazione meno generosa. Merib-Baal appartiene infatti alla famiglia di Saul, è il figlio maschio del figlio del re, e di conseguenza potrebbe avanzare pretese regali. Il fatto che Davide lo tenga da quel momento ospite fisso nel suo palazzo è stato quindi visto come un modo per controllarlo, sebbene la sua condizione di storpio gli precluda ogni aspirazione – come si rivelerà in 2Sam 16,3 egli potrebbe pur sempre far valere i suoi diritti. L’atteggiamento di Davide è quindi ambiguo: da un lato gli promette protezione, mentre dall’altra cerca di conciliarsi con i seguaci di Saul che ancora ci sono, trattandolo con benevolenza.

Così sembra interpretare Geraldine Brooks in L’armonia segreta (2015):

Quando venne a sapere che Merav aveva generato cinque figli maschi col marito Adriel, David fu preso dall’inquietudine perché temeva che, in quanto discendenti di Shaul, decidessero di rivendicare la corona, magari facendo leva sullo scontento che serpeggiava fra le tribù settentrionali.

In realtà un discendente di Shaul viveva già con noi, sedendo ogni giorno alla tavola del re. Infatti, David aveva mantenuto fede alla promessa fatta a Yonatan di custodire la sua stirpe. Ma si trattava di un bimbo storpio che doveva essere sorretto per poter camminare, e David lo trattava sempre con affetto, anche perché non rappresentava alcuna minaccia per la sua dinastia. (p. 184)

In realtà quando Merib-Baal diventa ospite fisso alla tavola del re non è più bambino da un pezzo e tuttavia, quanto all’atteggiamento affettuoso, non è l’unico testo a eliminare l’ambiguità del racconto originario.

 

 

 

Nel Davide di Carlo Coccioli (1976) si presenta un’immagine del re affascinante e seducente pur nelle sue contraddizioni, ma nel passaggio implicato, quando cioè scopre l’esistenza di questo discendente di Gionata, sembra conoscere solo una reazione appassionata e sinceramente affettuosa:

Eccolo davanti a me, che ho il cuore confuso. […] allora mi chino su di lui, lo sollevo, lo sento ghiacciato di paura […]. Sul viso scarno, tristissimo, scorgo un riflesso di Gionata […] Nella voce acerba afferro e me ne commuovo grandemente, un riflesso della voce di Gionata.(p. 254)

 

 

 

Quanto alla vicinanza che Davide sembra imporre a Merib-Baal per amore dell’amico perduto, come sempre il testo biblico non si perde in dettagli (sebbene non dimentichi mai di citare il dettaglio che lo caratterizza):

Ma Merib-Baal abitava a Gerusalemme, perché mangiava sempre alla tavola del re. Era storpio in ambedue i piedi. (2Sam 9,13)

E tuttavia non è difficile scorgerne l’ambivalenza, che vede da un lato la fedeltà a un patto e dall’altro il controllo di un nemico potenziale. Il figlio di Gionata sarà infatti costretto a vivere da recluso, sebbene si tratti di una gabbia dorata.

Non interpreta male allora la versione di Lindgren, in cui Davide,seppur appaia benevolo, beneficiando ogni sera Merib-Baal di lauti banchetti per ricordare i tempi felici con Gionata, non manca di fiaccarne lo spirito:

Ogni pasto è un pasto sacrificale io sono la vittima. (p. 76), confessa infatti Merib-Baal.

Quei momenti creano però nell’altro un legame profondo, tanto da divenirgli indispensabili:egli non può più rinunciarvi, richiamando in questo modo l’affetto che suo padre aveva nutrito per Davide:

Io non ho altro che la mia debolezza da regalare al re. Se perdo la mia debolezza, che cosa mi rimane da offrirgli? (p. 79)

Prima di congedarci da questo personaggio minore, la cui presenza contribuisce però a rivelare alcuni tratti del regale protagonista, non può sfuggirci la presenza nel nome della divinità cananea (Baal) tanto combattuta da Dio e dai profeti, che sembra rendere il figlio di Gionata impotente in partenza di fronte al re Davide, l’unto di YHWH, anche al di là della menomazione fisica. Nella Bibbia il nome Merib-Baal è sovente sostituito con Mefiboset, appunto per eludere le tracce di tale scomoda presenza.

 

 

Davide disse in quel giorno: «Chiunque vuol colpire i Gebusei, attacchi attraverso il canale gli zoppi e i ciechi, che odiano la vita di Davide». Per questo dicono: «Il cieco e lo zoppo non entreranno nella casa». (2Sam 5,8)

Nell’epopea del re Davide si nota un insolito dispregio nei confronti degli zoppi. La ragione di tale stigma potrebbe derivare dall’atteggiamento di scherno dei Gebusei, che pare avessero messo dei disabili a difesa della città. Ma non si esclude neppure che Davide abbia eliminato ciechi e zoppi dal suo esercito, dopo averli esclusi dal tempio. Ci chiediamo allora se è a causa di tale interdizione che gli zoppi continuino a restare fuori dal tempio ancora al tempo di Gesù e della prima comunità cristiana:

Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita; lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta Bella, per chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. (At 3,2)

 

 

Anche in questo caso, l’atteggiamento nei confronti degli zoppi (insieme alle altre categorie che messe insieme rappresentavano probabilmente le principali disabilità identificate come tali all’epoca) non è univoco nella Scrittura. Quando Davide li esclude dal tempio, in realtà lo erano già dal sacerdozio:

Il Signore disse ancora a Mosè: «Parla ad Aronne e digli: Nelle generazioni future nessun uomo della tua stirpe, che abbia qualche deformità, potrà accostarsi ad offrire il pane del suo Dio; perché nessun uomo che abbia qualche deformità potrà accostarsi: né il cieco, né lo zoppo, né chi abbia il viso deforme per difetto o per eccesso,né chi abbia una frattura al piede o alla mano, né un gobbo, né un nano, né chi abbia una macchia nell’occhio o la scabbia o piaghe purulente o sia eunuco. Nessun uomo della stirpe del sacerdote Aronne, con qualche deformità, si accosterà ad offrire i sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. Ha un difetto: non si accosti quindi per offrire il pane del suo Dio. Potrà mangiare il pane del suo Dio, le cose sacrosante e le cose sante;ma non potrà avvicinarsi al velo, né accostarsi all’altare, perché ha una deformità. Non dovrà profanare i miei luoghi santi, perché io sono il Signore che li santifico».

In Isaia si riconosce invece un posto privilegiato agli eunuchi nella casa del Signore (56,4-5), categoria esclusa nel Levitico e qui probabilmente citata in modo sintetico comprendendo anche le altre. La Bibbia, libro di libri, raccoglie le diverse sensibilità degli autori e delle epoche in cui sono vissuti. Di conseguenza nessuna norma va assolutizzata, ma letta nel contesto più ampio e nell’evoluzione della sua comprensione.

Nel Nuovo Testamento poi l’atteggiamento di Gesù eliminerà ogni preclusione conosciuta in precedenza:nella parabola lucana del banchetto del Regno gli invitati saranno appunto “i poveri, gli storpi, i ciechi, gli zoppi” (Lc 14,21), che Gesù ha guarito (Mt 15,29-31) e dichiarato beati nella loro afflizione e povertà di spirito (Mt 5).

 

Melchiorre Ferrari, La guarigione del paralitico (1761)

 

 

 

Indossare i sandali

 

Scritto da  MARIA NISII.

Di piede in piede (5).

 

 

Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. (Dt8,4)

 

Che il mettere e togliere sandali non sia una faccenda semplicemente e banalmente quotidiana, l’avevamo già capito. La polisemia biblica poi ne fa persino un rompicapo. In tutto questo mi pare che ancor più interessanti siano le contraddizioni, più o meno apparenti, che non mancano di rivelarsi e che sembrano quasi suggerirci di tenere desta l’attenzione.

Nel roveto ardente ci eravamo soffermati a riflettere sulla richiesta di Dio a Mosè di togliersi i sandali – perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo(Es 3,5). Nella ripresa degli anni dell’Esodo che troviamo nel libro del Deuteronomio, si trova però un riferimento curioso: Dio è colui che ha condotto il popolo nel deserto per quarant’anni, lo ha messo alla prova e umiliato (Dt 8,2), ma del suo popolo si è preso cura, sfamandolo e proteggendolo. E, guarda caso, per esprimere il concetto di cura si ricorre ancora una volta all’immagine del piede: il tuo piede non si è gonfiato… Eppure.

 

Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto…(Dt 8,2)

 

Nei lunghi anni di cammino nel deserto i piedi del popolo sono stati messi indubbiamente a dura prova: un dato di realtà che deve allertarci verso un altro livello di lettura – peraltro il versetto è ripreso tal quale in Ne 9,21, quando si ripercorre la storia della salvezza al ritorno dall’esilio. Siamo inevitabilmente di fronte a un’iperbole, un’amplificazione di quanto avvenuto sotto la luce del meraviglioso. È in quella situazione di fatica e afflizione che si è tanto più rivelata la misericordia divina:

ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che neppure i tuoi padri avevano mai conosciuto (8,3).

L’enfatizzazione dei fatti nel caso del nutrimento eccezionale della manna era preceduto da una volontà divina che il popolo provasse fame:

per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore (Dt 8,3).

Un tale bilanciamento è invece meno evidente nel nostro versetto (Dt 8,4). Non si dice cioè che Dio ha fatto loro conoscere le piaghe ai piedi per poi sanargliele e farli giungere a destinazione con i piedi freschi e riposati. Al contrario, dopo aver ricordato tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni, il racconto punta sull’integrità dei piedi (il tuo piede non si è gonfiato), che tanta strada hanno percorso, e sui vestiti, tra i quali possiamo – immagino – annoverare anche i sandali – segno di dignità della creatura.

La necessità di indossare sandali era d’altra parte già annoverata in Es 12,11 in prossimità della partenza dall’Egitto:

Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore!

Fianchi cinti, sandali e bastone erano evidentemente parte dell’abbigliamento di coloro che si mettevano in viaggio, come pure in At 12,8 quando l’angelo libera Pietro che si trovava in prigione: Mettiti la cintura e legati i sandali. E tuttavia in Mt 10,10 e Lc 10,4 Gesù chiede agli apostoli di partire facendo a meno anche di quel minimo armamentario, perché non ne avranno bisogno – come loro infatti confermeranno (Lc 22,35).

Che i sandali ci siano (come in Esodo) o meno (invio in missione degli apostoli in Mt e Lc), Dio si rivela vicino e provvidente anche perché si prende cura dei piedi di coloro che ha messo in cammino.

 

 

Nelle riscritture si possono trovare molte immagini della cura di Dio per gli uomini e le donne, anche se non necessariamente rivolte ai piedi. Preferisco allora riportare l’Elogio dei piedi che Erri De Luca ha posto a conclusione di Altre prove di riposta (Libreria Dante & Descartes).

Perché reggono l’intero peso. Perché sanno tenersi su appoggi e appigli minimi. Perché sanno correre sugli scogli e neanche i cavalli lo sanno fare. Perché portano via. Perché sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in linea retta.

Perché sanno saltare, e non è colpa loro se più in alto nello scheletro non ci sono ali. Perché scalzi sono belli. Perché sanno piantarsi nel mezzo delle strade come muli e fare una siepe davanti al cancello di una fabbrica. Perché sanno giocare con la palla e sanno nuotare. Perché per qualche popolo pratico erano unità di misura. Perché quelli di donna facevano friggere i versi di Puškin (Onegin, strofa 31).

Perché gli antichi li amavano e per prima cura di ospitalità li lavavano al viandante. Perché sanno pregare dondolandosi davanti a un muro o ripiegati indietro da un inginocchiatoio. Perché mai capirò come fanno a correre contando su un appoggio solo. Perché sono allegri e sanno ballare il meraviglioso tango, il croccante tip-tap, la ruffiana tarantella.

Perché non sanno accusare e non impugnano armi. Perché sono stati crocefissi. Perché anche quando si vorrebbe assestarli nel sedere a qualcuno, viene scrupolo che il bersaglio non meriti l’appoggio. Perché come le capre, amano il sale.

Perché non hanno fretta di nascere, però poi quando arriva il punto di morire scalciano in nome del corpo contro la morte.

Slegare i lacci

 

Scritto da  MARIA NISII.

Di piede in piede (4).

 

È ancora una faccenda di sandali quella in apertura dei Vangeli nelle parole pronunciate da Giovanni Battista:

Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. (Mt 3,11)

E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. (Mc 1,7)

Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. (Lc 3,16)

Anche se in questione ci sono sempre i sandali, notiamo una differenza tra Matteo che parla di “portare i sandali” e Marco e Luca che invece ricorrono al dettaglio dello “slegare i lacci”. In comune c’è il senso di indegnità, implicato nell’avvicinamento, per quanto si tratti di toccare una calzatura e neppure una parte del corpo – peraltro i piedi, ritenuti qualcosa di infimo, tanto che i gesti richiamati erano compiuti dallo schiavo. Lo slegare i lacci era infatti “un atto che un padrone non poteva esigere dal suo servo ebreo, perché considerato troppo umiliante” (La Bibbia, Via Verità e Vita).

La versione matteana che parla di “portare i sandali” pare faccia invece riferimento all’azione del discepolo: “Per i rabbini,il discepolo è tenuto a due cose, nei confronti del suo maestro: il servizio (shimmush) e l’ascolto (shimmua’). Non tutti sono d’accordo su quali siano i servizi che un discepolo deve rendere al maestro, ma Rabbi Jehoshua’ ben Levi diceva che egli era esentato da tutti, eccetto che dal togliergli le scarpe. Giovanni è così rappresentato come se dicesse di avere un discepolo di cui egli stesso è indegno di essere discepolo.” (Alberto Mello, Evangelo secondo Matteo, p. 82).

Nella Bibbia slacciarsi o togliersi i sandali è un atto di penitenza. Al penitente veniva infatti richiesto di andare scalzo:

Davide saliva il pendio del monte degli Ulivi e, salendo, piangeva; camminava col capo coperto e a piedi scalzi. E tutta la gente che era con lui aveva il capo coperto e, salendo, piangeva.(2Sam 15,30)

Perciò farò lamenti e griderò,
me ne andrò scalzo e nudo,
manderò ululati come gli sciacalli,
urli lamentosi come gli struzzi
(Mi 1,8)

Seguendo questa pista, Giovanni Battista non può certo invitare Gesù a penitenza, né può togliergli i sandali allo scopo. Ma come la mettiamo con l’indegnità? Non sarebbe degno di invitarlo a penitenza?

Alcuni autori poi fanno notare che la versione di Marco, ripresa da Luca, farebbe risuonare un versetto di Isaia 5,27:

non si scioglie la cintura dei suoi fianchi / e non si slaccia il legaccio dei suoi sandali.

Secondo questa tesi si tratterebbe dell’interpretazione di un passo della Bibbia ebraica applicata a Gesù, sebbene paia un po’ fuori contesto dato che nel brano di Isaia il soggetto è un popolo nemico, probabilmente gli assiri, di cui Dio si serve per attuare il suo piano. Il versetto implicato suggerisce l’efficienza e la rapidità dell’esercito nemico e neanche questo mi pare abbia molto da dire sulla ritrosia del Battista.

 

 

Vi è ancora un’altra lettura, piuttosto ardita, che mostra l’associazione tra il legare i lacci e il legame matrimoniale. Per indicare l’intenzione di prendere possesso di quel paese, nel Sal 60,10 leggiamo:

Il Signore getta i suoi sandali sull’Idumea.

Questo filone interpretativo associa quindi l’atto dello slegare i sandali allo scioglimento di un legame e in particolare di quel vincolo del parente maschio più vicino alla donna rimasta vedova senza figli,che egli era tenuto a sposare per dare una discendenza al fratello morto. Si tratta della legge del levirato (Dt 25,5-10), dalla quale ci si poteva svincolare appunto con il gesto del sandalo, con cui si “cedevano” ad altri i diritti di proprietà sulla donna – come è il caso di Rut 4,7-8.

Secondo questa interpretazione “sponsale”, l’atto di togliersi i sandali richiesto a Mosè nel roveto andrebbe inteso come rinuncia a ogni forma di possesso o dominio.

L’associazione di questa pratica al brano che vede protagonisti Gesù e Giovanni Battista chiederebbe pertanto di fare ricorso all’immagine di Gesù-sposo, rispetto a cui il Battista non può vantare diritti – come spiega dicendo appunto:

Viene dopo di me colui che è più forte di me.

Giovanni può limitarsi, come fa, a indicare lo sposo – Ecco l’agnello di Dio – ma non può vantare altri legami. E d’altra parte in Gv 3, 27-30 dirà così:

L’uomo non può ricevere nulla se non gli è dato dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: “Io non sono il Cristo, ma sono mandato davanti a lui”. Colui che ha la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, si rallegra vivamente alla voce dello sposo; questa gioia, che è la mia, è ora completa. Bisogna che egli cresca, e che io diminuisca.

Che dire? Forse non c’è neppure una tesi che appaia più convincente delle altre, nel senso che nessuna sembra possedere maggiore forza persuasiva. Forse può essere sufficiente fare ricorso al gesto dello schiavo o del discepolo, e mostrare la paradossalità dell’immagine quando si tratta di Gesù, il quale poi quel gesto lo compirà.

Concludo queste “riletture” bibliche intrecciate nel versetto, ricordando la ripresa in At 13 nel discorso di Paolo nella sinagoga di Antiochia.

 

 

Qualunque sia la spiegazione, certo è che questo versetto è uno dei più noti e per questo è citatissimo. Purtroppo tra le tantissime riscritture dei Vangeli, che conoscono l’episodio del battesimo, non ci sono riferimenti interessanti al nostro versetto e quando lo si ricorda, non ci si ferma sull’espressione specifica in modo da offrirne un ampliamento o qualche tipo di spiegazione.

Invece è quasi più interessante notarne le varianti, distorsioni o ricorrenze in cui lo si inserisce, in formulazioni completamente diverse, dove risuona ogni volta nuovo in base alla creatività dell’autore, come in questo caso:

«accecati dall’ideologia, molti critici cinematografici dell’epoca non si rendono conto di essere al cospetto di due geni a cui non sarebbero degni di lucidare l’obiettivo» (Nicola Lagioia, nel podcast Fare un fuoco, “Perché abbiamo bisogno di un nemico: Fellini contro Visconti”).

 

Oppure nell’aneddotica, questa volta “calzata” su Filippo Neri:

San Filippo Neri considerava l’umiltà la prima virtù di un Santo. C’era ai suoi tempi una religiosa di cui tutti parlavano poiché si diceva avesse estasi e rivelazioni. Un giorno il Papa manda proprio Filippo in quel convento per rendersi conto della santità di questa suora. Il tempo si mette al brutto. La pioggia viene giù come Dio la manda… Filippo arriva al convento infangato fino alle ginocchia. Chiede subito della suora, ed eccola che arriva… seria seria, compunta, tutta annegata in Dio. Il santo siede tende le gambe e dice alla suora: “Toglietemi le scarpe!”. Al che la suora s’impenna, alza il mento, resta immota. Padre Filippo non chiede nulla. Ne sa già abbastanza. Si riprende il cappello, e torna dal Papa a riferire che, secondo lui, una persona così altezzosa non poteva essere una santa.”

 

 

 

 

 

Togliti i sandali!

 

Scritto da MARIA NISII.

Di piede in piede (3).

 

Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. 2L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. 3Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». 4Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». 5Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». 6E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. (Esodo 3)

 

Tutti conosciamo l’ordine di Dio a Mosè: “Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!”. L’episodio è quello del “roveto ardente”, così detto in quanto Mosè si avvicina a un roveto, attirato da un fuoco che arde senza bruciare. I segnali di genere, cioè quegli elementi inseriti nella narrazione allo scopo di guidarne la comprensione, sono molti: il monte di Dio, l’angelo, il fuoco che non brucia, il fatto dei sandali. Tutto ci dice che siamo di fronte a una teofania, che poi il testo rende esplicita. Poco oltre, al v. 14, avviene anche la rivelazione del nome divino. Si tratta in breve di un brano cruciale, molto richiamato e di grande importanza nella storia biblica.

Per il significato della calzatura riporto l’analisi dettagliata di Antonio Nepi (Esodo, il Messaggero, Padova 2002, p. 94-5): “I sandali rappresentano la dignità di una persona libera, il suo potere d’acquisto (Am 2,6; Sal 60/59,10): oggi potremmo dire la sua autonomia e la sua carta di credito. Togliere i sandali dai piedi è un gesto di rispetto e di riconoscimento della santità di un luogo (come farà Giosuè in Gs 5,15 e come fanno ancor oggi i musulmani, i buddisti e gli indù prima di entrare in una moschea, in una pagoda e in un tempio); è un segno di povertà (Ger 2,25), di umiltà (2Sam 15,30) e della condizione di chi è schiavo e depone il proprio onore dinanzi a un superiore (Is 20,2); togliere i sandali, giuridicamente, significa rinunciare ai propri diritti di possesso (cf. Dt 25,9; Rt 4,7-8).

 

 

Dio ordina, anzi GRIDA, offrendo pure la spiegazione di tale imposizione: si tratta di un luogo sacro. E su questo ci sarebbero molte cose da dire, perché è la prima volta che nella Bibbia si parla di un luogo sacro: nei primi capitoli di Genesi Dio si è riservato un giorno, il sabato, non un luogo – non casualmente nella sua prima enciclica, Evangelii gaudium, papa Francesco ricorda la superiorità del tempo sullo spazio… Ma su questo non ci fermiamo, sia perché quasi ogni parola di questo brano è ricchissima di significati, sia perché ora ci interessano i piedi e i calzari, che un tempo non era per nulla scontato indossare, tanto che Nepi ha dovuto specificare tutti i valori simbolici che contenevano.

Il grido sembra esprimere la preoccupazione che Mosè non si fermi in tempo e per questo parlare di segno di rispetto è a mio avviso inadeguato a spiegarne la necessità: nei tempi antichi infatti il contatto con il sacro era ritenuto pericoloso – da qui tutte le prescrizioni sul sangue e sulla purità. E non casualmente si dice che Mosè ha paura… Col tempo poi la preoccupazione sul sacro e il rischio di morte che il contatto implicava va a scemare. Al suo posto resta il rispetto riservato al luogo. Ma anche sul carattere di sacralità si assiste a un’evoluzione, che varia in ogni esperienza religiosa.

Tuttavia la simbolica della nudità ha il suo fascino. Al suolo sacro sono infatti adatti i soli piedi nudi, e null’altro: se un giorno a Dio torneremo nudi, a lui ci si reca anche nudi, cioè scoperti, spogliati di tutte le maschere di cui siamo normalmente ri-vestiti. Interessante notare che il testo non dice se Mosè i sandali se li tolga davvero (ovviamente dobbiamo supporre che lo faccia), mentre specifica che egli si copre il capo, che nessuno gli aveva chiesto di celare, come se l’eccessiva nudità lo inquietasse. D’altra parte, sempre biblicamente, la nudità viene scoperta dopo aver assaggiato l’albero della conoscenza del bene e del male. E da questa eccessiva esposizione di sé Dio protegge la prima coppia umana, cucendo loro delle pelli quando viene il momento di allontanarli dal giardino.

Le riscritture di questo passo non sono numerosissime, ma ci sono. Non è detto che ci aiutino a capire qualcosa in più, ma vi possiamo almeno riconoscere echi di un significato che ha attraversato la storia.

 

 

Il nonno del protagonista-narratore di Marilynne Robinson in Gilead raccontava di aver avuto visioni a partire dall’età di sedici anni, visioni che non sarebbero venute meno anche in età avanzata. I racconti di quelle esperienze provocavano scetticismo ma anche una certa deferenza in famiglia e il nipote, che racconta la storia quando è ormai a sua volta anziano, cresce in un’atmosfera di sacro familiare:

A volte, quando tornavo da scuola, mia madre mi veniva incontro dal portico sul retro bisbigliandomi: – Il Signore è in salotto -. Allora entravo di soppiatto senza scarpe e sbirciavo dalla soglia, dove vedevo mio nonno seduto sul lato sinistro del divano, con un’espressione attenta, cordiale e solennemente soddisfatta. (p. 101)

Chissà, forse, data la situazione è stato istruito sin da piccolo, oppure forse quello del nipotino è un atto spontaneo di cautela. Sbircia, sapendo di non poterlo fare, ma almeno si toglie le scarpe perché, appunto, il salotto è ora un luogo sacro. Inutile dire che dopo quegli incontri il nonno restava “raggiante”…

 

 

Anche se non compaiono i sandali, non posso non citare questa particolarissima riscrittura di Michel Tournier, che attribuisce al suo protagonista Eleazar una personalità mosaica, nel senso che la sua vita ne ripercorre la vicenda, sebbene ambientata a metà Ottocento in Irlanda e poi in America, dove emigra per fuggire alle conseguenze di un omicidio, compiuto involontariamente per aver difeso un giovane pastore che veniva frustrato violentemente. L’Irlanda è inoltre un paese “piagato” dalla carestia e la traversata in mare verso il Nuovo Mondo dura quaranta giorni e quaranta notti. Una volta lì la famiglia di Eleazar si unisce a una carovana alla ricerca di un luogo in cui fermarsi, e durante il viaggio, morso da un serpente, il figlio Benjamin verrà guarito da Serpente di bronzo, un capo indiano (così chiamato perché le sue palpebre, come quelle dei serpenti, non si abbassano mai) che lo salva fissandolo negli occhi.

Eleazar si fermò davanti a un rovo. Si tolse il cappello per ricevere meglio la luce, ma anche, forse, in segno di rispetto. Ed ebbe improvvisamente la rivelazione del senso profondo del suo viaggio. Capiva adesso che la sua terra natale, e soprattutto il cielo della sua infanzia e della sua giovinezza, avevano steso una cortina innanzi ai suoi occhi, un velo di pioggia, di nebbia e di clorofilia che gli aveva celato la verità. La verde Irlanda si era frapposta fra il suo sguardo e le Scritture. Solo l’aria perfettamente secca e trasparente del deserto rispettava la brutale chiarezza della legge biblica.

Abbassò lo sguardo verso il cespuglio di spine. Non era così folle da aspettarsi che prendesse fuoco, e che una voce sorgesse dal suo centro. Non era così folle da credersi Mosè. Pure la sua storia personale appariva fortemente attratta, forgiata e dotata di significato dal destino stesso del profeta, così come un mucchio di limatura di ferro prende ordine e direzione in forza del campo magnetico di una calamita. La grandiosa avventura di Mosè funzionava da riferimento per decifrare i modesti accadimenti della sua vita… (p. 75)

Eleazar è un pastore protestante e la Bibbia è la sua guida. Ma la storia biblica, che scorre quasi in parallelo alla sua, non è solo chiave di lettura per il protagonista, bensì cornice mitica in cui comprenderla, grazie alla quale la narrazione attribuisce forma epica alla vicenda di una delle tante famiglie di immigrati irlandesi.

Che lo schema del mito esodico funzioni tanto bene nel passaggio dal Vecchio al Nuovo Mondo era già evidente ai Padri Fondatori, come furono detti i coloni, che interpretarono l’esperienza di immigrazione come un nuovo esodo, convinti di essere il nuovo popolo di Dio(1) eletto dal Signore per conquistare la nuova Terra Promessa  in virtù di una nuova alleanza (2) : ; e lì stabilirsi come “città sulla collina”, società ideale ed esemplare per il mondo, la città di Dio come recita la celeberrima formula di John Winthrop: “we must consider that we shall be as a City upon a Hill, the eyes of all people are upon us” (1638). Il riferimento è a Mt 5,14 (“Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte”), ma anche alla Gerusalemme celeste di Apocalisse. Questa nuova terra offriva ai Puritani (3)  la possibilità di praticare gli ideali che avevano professato in Inghilterra.

La vicenda proposta da Tournier riprende quella medesima cornice scritturistica con un passo leggero e disinvolto, apprezzabile dal lettore europeo che difficilmente conosce e ancor meno potrebbe gradire i diari della letteratura puritana del XVII secolo. Eleazar è solo uno dei tentativi che l’autore ha sperimentato nella medesima modalità, facendo incarnare ogni volta ai suoi personaggi i tratti di un aspetto della condizione umana – tra questi ricordo Gaspare, Melchiorre e Baldassarre in cui i sapienti d’oriente sono rappresentanti della ricerca della conoscenza (di cui mi sono occupata con “Passione per le immagini” del 2/1/2021 e “Il quarto re magio” del 9/1/2021).

 

 

La rilettura di Erri De Luca aggiunge invece un dato personale, visto che in Mosè lo scrittore vede la sua passione per la montagna e nelle Scritture un senso vitale che continua a guidare, anche al di là della fede:

Amo la scrittura sacra perché è estremista, più di qualunque altra. Perciò neanche la geografia sta quieta: “Le montagne saltarono come arieti, le valli come cuccioli di gregge” racconta il salmo (114,4). E il Sinai vallo a trovare, prova a piantarci sopra una bandierina, se sai dove sta. Il Sinai è il Horeb, due nomi sono il minimo per una montagna introvabile e data per trovata varie volte, nel gioco dell’oca dell’archeologia. […]

Mosè alla prima ascensione, attratto dal cespuglio ardente, sente la guida chiedere: “Cava i tuoi sandali”. Ho praticato arrampicata scalza, un raddoppio d’intesa fisica con la superficie. So che scalare è un procedere a tentoni. Non dev’essere stato così per Mosè. Incerto di labbra, balbuziente, in compenso doveva avere una destrezza da funambolo, piedi da equilibrista sugli abissi. È il maggior alpinista della storia sacra e muore da alpinista sopra un’altra cima, il Nebo, a est del Giordano, fiume che corre parallelo alla costa e ignora il mare. (p. 12-13)

 

Il Mosè di De Luca è un alpinista, divertente attualizzazione dell’immagine mitizzata di colui che ha incontrato il divino, dove solo lo si poteva immaginare: su un alto monte, ovvero nel luogo più vicino al cielo, concetto traslato per esprimere la trascendenza dai luoghi e dall’umana comprensione. In questo senso, l’interpretazione dei piedi privati dei calzari è letterale ma pure stupefacente: muoversi scalzi sui monti richiede grandi abilità e destrezza, che il Mosè del roveto doveva ancora imparare, mentre quello sul monte Nebo è avvantaggiato dalle precedenti arrampicate.

Un altro personaggio di De Luca si toglie i calzari: si tratta dell’artigiano, protagonista di La natura esposta, a cui è stato affidato il compito di restaurare un crocifisso di marmo. L’uomo è non credente, ma nella condizione di esilio in cui si trova, prova una strana identificazione con quel corpo marmoreo a misura naturale. Nell’ultimo atto, un istante prima di finire il lavoro, si avvicina alla statua togliendosi le scarpe – e a seguire il resto dei vestiti -, rabbrividendo nel contatto, per un senso di timore e tremore. È la venerazione del non credente per l’umanità denudata, esposta e vulnerabile.

 

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(1) “The New-Englanders are a People of God setteled in those, which were once the Devil’s Territories; and it may easily be supposed that the Devil was exceedingly disturbed, when he perceived such a People here accomplishing the Promise of old made unto our Blessed Jesus”. (Cotton Mather, The Wonders of Invisibile World, 1692).

(2) “God hath taken us to be his after a most strict and particular marriage, which will make him the more jealous of our love and obedience” (John Winthrop)

(3) Movimento di calvinisti rigorosi intenzionato a “purificare” la Chiesa laddove questa si allontanava dalle Sacre Scritture e che per questo oppose resistenza all’istituzione anglicana della Chiesa di Stato

 

Missionari, sempre in cammino

Scritto da MARIA NISII

 

Di piede in piede (2).

 

Ogni volta che padre Joseph passava di là, raccontava loro di quanto desiderasse che Dio, in aggiunta alla consacrazione delle mani, avesse previsto una qualche speciale benedizione per i piedi dei missionari. (Willa Cather, La morte viene per l’arcivescovo)

Evidentemente Willa Cather, scrittrice americana del secolo scorso, doveva avere ben presente la lode ai piedi del messaggero resa immortale dal profeta Isaia, quando descrive uno dei suoi protagonisti mentre si sta preparando per il viaggio più impegnativo della sua vita da missionario.

Padre Joseph Vaillant arriva nel Nuovo Messico perché voluto dall’amico Jean Marie Latour, nominato vescovo della nuova diocesi a metà Ottocento. La vita di missione è impervia, ma i due hanno le doti necessarie per affrontarne le difficoltà, soprattutto perché per i primi anni le vivranno insieme (li mandò a due a due) e ancor più in quanto sono tanto diversi, dunque complementari. All’eleganza naturale di Latour è infatti affiancato lo sgraziato Vaillant, brutto e dotato di un fisico gracile che parrebbe poco adatto alle asperità del luogo: «eppure persino i più rozzi meticci messicani avevano compreso all’istante il suo valore. Se il vescovo era tornato a una Santa Fe bendisposta nei suoi confronti, era perché tutti credevano in padre Vaillant – semplice, concreto, tenace, con la forza di dieci uomini in quel suo corpo così striminzito» (p. 37).

Inevitabile tornare a parlare delle doti fisiche, armamentario indispensabile per l’uomo che viaggia; eppure qui lo si fa per relativizzarle, dato che la vivacità di questo prete francese supera di gran lunga il suo aspetto dimesso. Perché allora si consacrano le mani e non i piedi, si chiede padre Vaillant, quando entrambi sono fondamentali per il ministero abbracciato? E ce lo chiediamo pure noi oggi, che viviamo in tempi accelerati, in cui non si può star fermi… Tempi in cui è oramai scomparso l’uomo di sacrestia, ingessato nella sua talare d’altri tempi, chiuso nell’ufficio parrocchiale o in confessionale in perenne attesa di penitenti… o no?

 

 

Cambiamo latitudini geografiche e storiche, facendo un salto indietro nel tempo fino al Giappone del XVII secolo, raccontato da Shusaku Endo in Silenzio (1966) e riproposto al cinema da Martin Scorsese nel 2016. Non sono pochi i punti di contatto tra le due storie, come in genere tra le tante storie di missione. Ma qui c’è la non piccola differenza che si tratta di una terra dove si rischia il martirio, perché la religione cristiana è duramente perseguitata, e fedeli e pastori mettono in pericolo la loro vita al pari dei cristiani dei primi secoli.

Di fronte all’accusa di essere adepti della religione proibita, la prova che si deve essere disposti ad affrontare (ai tempi dei primi cristiani era offrire sacrifici agli dei) è quella di calpestare il fumie, l’immagine di Cristo su una lastra di bronzo. Un’immagine che il lettore di Endo è chiamato ad accogliere nelle modalità personali, più intime e significative per la propria storia, e che il film di Scorsese rende invece con il volto del Cristo di El Greco.

 

https://www.youtube.com/watch?v=l6p-Dl6KdIQ

 

Interessante, a mio avviso, la critica che emerge nella ricostruzione del livore per il cristianesimo nutrita dal suo maggiore persecutore: «I padri ci hanno sempre messi in ridicolo. Conoscevo padre Cabral… provava solo disprezzo per tutto ciò che era giapponese. Disprezzava le nostre case; disprezzava la nostra lingua; disprezzava il nostro cibo e le nostre usanze… eppure viveva in Giappone. Neppure a quelli di noi che si sono diplomati al seminario ha concesso di diventare preti» (p. 97). Il risentimento suscitato ha assunto proporzioni enormi, ma all’origine si riconosce la mancanza di fedeltà al Vangelo in una delle tante forme dell’umana miseria.

Per spezzare la resistenza del protagonista e costringerlo all’abiura pubblica, padre Rodriguez non viene sottoposto a tortura fisica ma a indebolimento dello spirito. La sua prigionia è protratta, viene rinchiuso in un capanno al buio dopo aver assistito ai supplizi e alla morte di diversi cristiani: tutto contribuisce a intensificarne il tormento di sentirsi responsabile di tanta sofferenza. Quando infine comprende a quale supplizio sia chiamato, torna a sentire la presenza di Cristo tanto a lungo desiderata:

 

Signore, da molto, molto tempo, innumerevoli volte ho pensato al tuo volto. […] ogni volta che pregavo, il tuo volto mi compariva davanti; quando ero solo pensavo al tuo volto che impartiva una benedizione; quando mi hanno catturato il tuo volto, quello che avevi quando portavi la croce, mi ha dato vita. Questo volto è profondamente scolpito nel mio animo: nel mio cuore ha vissuto la cosa più bella e preziosa che esista al mondo… E adesso con questo piede io ti calpesterò. […] Vorrebbe premersi quel volto quel volto calpestato da tanti piedi. Con espressione rattristata fissa intensamente l’uomo al centro del fumie, logorato e scavato perché calpestato di continuo. […] Ora egli calpesterà ciò che ha considerato la cosa più bella della sua vita, ciò che ha ritenuto più puro, ciò che riempie gli ideali e i sogni di un essere umano. Come gli duole il piede! E poi il Cristo di bronzo gli dice: “Calpesta! Calpesta! Io più di ogni altro so quale dolore prova il tuo piede. Calpesta! Io sono venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini! (Shusaku Endo, Silenzio, p. 183-4)

Con gli stessi piedi con cui era partito, fiducioso e timoroso per la missione, ora è costretto all’atto di abiura. I piedi gli dolgono al solo pensiero di calpestare l’immagine che gli è più cara, quella con cui ha vissuto per gran parte della sua vita. Da quell’immagine però ora arrivano parole chiare,parole che impartiscono un ordine: calpesta! Lascia che i tuoi piedi si posino sul mio volto. Ti farà male, lo so. Ma io sono venuto al mondo per calpestare le sue strade ed essere calpestato dagli uomini.

 

Maestro fiammingo, La donna di Betania (particolare), olio su tavola, 1510–1520, Budapest

 

Questa è stata l’incarnazione. Prima di Vaillant e Rodriguez e i tanti missionari di tutti i tempi, anche Gesù di Nazareth ha camminato per predicare il Vangelo. Per questo ha lasciato che i suoi piedi venissero benedetti dalle cure di una donna innominata (bagnati e unti, come un sacramento!). Quel gesto però non può che scandalizzare, perché lui si lascia “toccare” da una donna (Lc), per lo spreco dell’unguento (Mc, Mt, Gv) – come se non si trovasse una ragione sufficiente e ne occorresse più d’una. Scandalizzerà infatti anche Pietro quando Gesù vorrà ripetere il gesto sui suoi amici. E continua a fare un certo effetto anche a noi oggi, quando il papa bacia i piedi ai detenuti il giovedì santo.

 

 

Non far le cose con i piedi, si diceva un tempo… Lo sappiamo, c’è sempre stata una certa svalutazione associata a questa parte del corpo…

… Generazioni hanno calpestato, calpestato, calpestato;

   e tutto è arso dal commercio; offuscato, insozzato dalla fatica;

   e porta lordume d’uomo e ha lezzo d’uomo: il suolo

è nudo ora, né sente il piede, essendo calzato.

Gerald Manley Hopkins, poeta e gesuita inglese vissuto nella seconda metà dell’Ottocento, scrive questi versi onomatopeici nel noto componimento La grandezza di Dio:

Generations havetrod, havetrod, havetrod

A leggerlo nella sua versione originale inglese, questo verso carico di consonanti dure, sembra di sentirli tutti quei passi che hanno ripetutamente calpestato il suolo, pieni di sudore e fatica. In un testo in cui si loda la grandezza divina, ancora una volta c’entrano quindi i piedi, di cui non si dimentica il lordume.

L’aria granulosa. Quel sapore in bocca che non se ne andava mai. Erano fermi sotto la pioggia come animali da fattoria. Poi proseguirono, tenendosi il telo sopra la testa per ripararsi da quella noiosa acquerugiola. Avevano i piedi fradici e gelati e le scarpe che cominciavano a consumarsi. Sui fianchi delle colline, vecchie messi secche e appiattite. Lungo l’arido crinale, alberi scorticati e neri sotto la pioggia. (Cormac McCarthy, La strada, Einaudi, p. 16)

Sono oltremodo lerci e infreddoliti i piedi dei due protagonisti di La strada, che si spostano in un mondo post-apocalittico, dove ci si deve continuamente spostare per sopravvivere, al punto che le scarpe diventano importanti quasi come il cibo.

 

 

I nostri piedi incarnano il moto perpetuo che ci caratterizza, il nostro istinto migratorio e istinto di sopravvivenza, il desiderio che ci spinge a superarci, a proseguire sempre qualunque meta si sia raggiunta. Anche essere cristiani comporta il mettersi in cammino, non per niente il primo nome della nuova religione è stato la “via”. Non per niente conosciamo una favolosa proliferazione di metafore che va in ogni direzione: dalla navata delle chiese alle processioni, dall’ite missa est ai pellegrinaggi…

 

 

Di piede in piede

Scritto da  MARIA NISII.

 

Il messaggero di buone notizie

 

Che la fede cristiana sia più materialista che spirituale diventa evidente quando si osserva l’importanza riservata a una parte del corpo come i piedi. Il sacramento rimosso della lavanda dei piedi ha infatti molto da dire su uno degli atti scandalosi compiuti da Gesù e di un certo modo di essere cristiani che la tradizione ha scelto di non seguire. Troppo difficile, fastidioso, scandaloso appunto. Proviamo allora a seguire questa traccia per gustare i tanti significati che sono stati intessuti dagli autori antichi prima e dai riscrittori poi. Non possiamo seguire le moltissime occorrenze, e ci limiteremo a una scelta limitata. Tuttavia, chi fosse curioso può sempre dare un’occhiata qui:

https://www.lachiesa.it/bibbia.php?ricerca=testo&Testo=piedi&Cerca=Cerca&libro=0&id_versioni=3&VersettoOn=1

 

Come sono belli sui monti / i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, / che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». (Is 52,7)

Come è giusto attendersi, l’importanza del messaggio convoglia tutte le attenzioni su colui che lo deve annunciare o portare, consegnando materialmente l’incarto. Nei tempi in cui i viaggi non erano veloci e sicuri, era dunque fondamentale poter fare affidamento sulla salute fisica del messaggero e sulle sue doti atletiche. Pensiamo ai casi leggendari, come Filippide, che da Atene arriva a Sparta in un sol giorno, percorrendo 225 km! E anche se all’arrivo il poveretto muore per il grande sforzo, lo scopo di quel viaggio era chiedere appoggio per la battaglia contro i Persiani e quel supporto appunto viene dato. Il fatto che poi la battaglia fosse quella di “Maratona” spiega alcune cose…

 

 

Non so se la citazione del profeta Isaia ci stupisca o sappia sortire un qualche effetto su noi lettori contemporanei. I profeti, specie Isaia, usano preferibilmente la forma poetica e dunque il fatto di lodare la bellezza dei piedi vuole indubbiamente suscitare una qualche meraviglia, perché la poesia e le immagini poetiche intendono farci guardare quello che non siamo abituati a vedere.

Ma la domanda resta, vieppiù rafforzata, specie dopo la storia di Filippide: perché mai i piedi e non la muscolatura delle gambe o meglio ancora la capacità polmonare che potesse garantire il fiato necessario alle lunghe percorrenze?

 

 

Faccio un’ipotesi, che certo non è l’unica o la più arguta, ma tanto per giocare con l’immagine dei piedi. Mi dico che, forse, l’imponenza del corpo non può niente contro la fragilità dei piedi, come tutti sappiamo per aver provato almeno una volta nella vita a camminare con scarpe strette o con vesciche plantari. O come, biblicamente e metaforicamente, il libro del profeta Daniele ben spiega in un celeberrimo passo:

31 Tu, o re, guardavi, ed ecco una grande statua; questa statua, immensa e d’uno splendore straordinario, si ergeva davanti a te, e il suo aspetto era terribile. 32 La testa di questa statua era d’oro puro; il suo petto e le sue braccia erano d’argento; il suo ventre e le sue cosce di bronzo; 33 le sue gambe, di ferro; i suoi piedi, in parte di ferro e in parte d’argilla34 Mentre guardavi, una pietra si staccò, ma non spinta da una mano, e colpì i piedi di ferro e d’argilla della statua e li frantumò. 35 Allora si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro e divennero come la pula sulle aie d’estate. Il vento li portò via e non se ne trovò più traccia; ma la pietra che aveva colpito la statua diventò un gran monte che riempì tutta la terra.36 Questo è il sogno; ora ne daremo l’interpretazione al re.37 Tu, o re, sei il re dei re, a cui il Dio del cielo ha dato il regno, la potenza, la forza e la gloria; 38 e ha messo nelle tue mani tutti i luoghi in cui abitano gli uomini, le bestie della campagna e gli uccelli del cielo, e ti ha fatto dominare sopra tutti loro: la testa d’oro sei tu. 39 Dopo di te sorgerà un altro regno, inferiore al tuo; poi un terzo regno, di bronzo, che dominerà sulla terra; 40 poi vi sarà un quarto regno, forte come il ferro; poiché, come il ferro spezza e abbatte ogni cosa, così, pari al ferro che tutto frantuma, esso spezzerà ogni cosa. 41 Come i piedi e le dita, in parte d’argilla da vasaio e in parte di ferro, che tu hai visto, così sarà diviso quel regno; ma vi sarà in esso qualcosa della consistenza del ferro, poiché tu hai visto il ferro mescolato con la fragile argilla. 42 Come le dita dei piedi erano in parte di ferro e in parte d’argilla, così quel regno sarà in parte forte e in parte fragile43 Hai visto il ferro mescolato con la molle argilla, perché quelli si mescoleranno mediante matrimonio, ma non si uniranno l’uno all’altro, così come il ferro non si amalgama con l’argilla. (Daniele 2)

Per quanto magnifica e preziosa, una statua con i piedi in parte di ferro e in parte d’argilla ha un futuro piuttosto instabile, come puntualmente si verificherà visto che il re in questione era Nabucodonosor. La potenza di questa metafora è stata tale da essere preservata nei secoli, al punto che continuiamo a ritrovarla ogni volta che uno Stato potente rivela tutta la sua fragilità, quando appunto si parla di «colosso dai piedi di argilla».

Dopo questo, mi pare però che non tutto torni ancora. Infatti perché mai sarebbero «belli» e non solo forti o saldi i piedi del messaggero che reca buone notizie? E che cos’hanno di bello dei piedi che camminano in strade polverose, avvolti – quando va bene – in sandali?

Quello che fa il verso poetico, in questo caso, è trasferire la bellezza del messaggio su colui che lo reca con sé, meglio ancora: sui suoi piedi, dai quali dipende che arrivi a destinazione. E se i piedi sono belli perché tale è il messaggio, quella che viene messa in scena è una bellezza dinamica, in continuo movimento, perché appunto il messaggio è sempre e ancora da consegnare, leggere, riscrivere.

I testimoni della Crocifissione di Gesù

Scritto da  NORMA ALESSIO

 

La Crocifissione di Gesù, intesa come avvenimento, è menzionata in tutti i Vangeli canonici e in alcuni apocrifi. Ho riportato alcuni esempi di rappresentazione della Crocifissione in alcuni precedenti miei post su questo blog, a cui rimando per una rilettura d’insieme dell’argomento: “La crocifissione di Gesù nella chiesa di Santa Maria Assunta di Elva”,15 maggio 2016;  “La passione di Gesù”,1° aprile 2017 e 8 aprile 2017; “Tutto è compiuto”, 2 aprile 2021; “Anche gli angeli piangono”, 10 novembre 2018. Qui riprendo il tema, soffermandomi su quali personaggi al di fuori di quelli consolidati nell’iconografia, non citati nei vangeli, sono presenti intorno alla Croce in alcune opere d’arte di autori anche non cristiani o dichiaratisi atei.

Nei Vangeli canonici i testimoni presenti sono: in Mt 27 versetti 35 “(i soldati) si spartirono le sue vesti tirandole a sorte”, 41 Anche i sommi sacerdoti congli scribi e gli anziani lo schernivano; 48 E subito uno di loro (i presenti) corse a prendere una spugna e, imbevuta di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere; 55 C’erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo; 56 Tra costoro Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedèo.

In Lc 23, versetto 35 Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano.

In Gv 19, versetti 25Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala”; 26 Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava…”.In Mc 15 ai versetti 29-31 I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!». Ugualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi beffe di lui, dicevano: «Ha salvato altri, non può salvare sé stesso!”.

Nelle trascrizioni pittoriche si passa da una scena con solo la Madre di Gesù, sorretta da Maria Maddalena, Maria di Cleofa e Giovanni Evangelista, a quella con una folla costituita da vari personaggi, anche di un certo impatto scenografico, testimoni dell’avvenuta esecuzione della Crocifissione di Gesù, sia suoi contemporanei sia vissuti in vari momenti storici seguenti. Gli artisti dal XII al XIX secolo furono condizionati sia dalla committenza civile e religiosa -che dettava loro chi doveva essere inserito nelle varie rappresentazioni- sia da trattatisti, come Giovanni Paolo Lomazzo che nel 1584 raccomandava di non inserire nelle scene tristi elementi che riconducessero all’allegria, quali “fanciulli che scherzino e uomini che ridano”, definendo l’ordine secondo il quale raffigurare la sofferenza” dei personaggi presenti a una Crocifissione.

L’impostazione di questo soggetto nell’arte del frate domenicano Beato Angelico, vissuto nel quattrocento, fu orientata verso la massima essenzialità, perché doveva guidare i monaci nella preghiera. Lo storico dell’arte Carlo Giulio Argan lo definì una “una personalità artistica e riflessiva, lontana da un’interpretazione drammatica degli eventi” dove “I personaggi agiscono in conformità di un disegno divino che segue una logica superiore. Consci del loro ruolo, essi lo interpretano serenamente, con levità di gesti e atteggiamenti”. Insieme ad aiuti, BeatoAngelico affrescò in ogni cella del Convento di San Marco a Firenze, una serie di quarantatré lunette o riquadri con le Storie di Cristo, attraverso una fitta, e a tratti ossessiva, ripetizione di Crocifissioni che ogni monaco, nella propria cella doveva avere solo per sé, su cui meditare e avere spunti di contemplazione. In sette Crocifissioni decorate nelle celle del convento compare san Domenico, il santo fondatore, sempre inginocchiato, che abbraccia la croce, oppure prega a mani giunte o intrecciate o con le braccia incrociate sul petto, che si copre il volto per il dolore, si autoflagella, apre le palme delle mani.

Talvolta è presente San Pietro Martire, anch’egli domenicano, raffigurato con la testa spaccata e sanguinante. Nella Sala Capitolare del convento, importante luogo comunitario dove i monaci si riunivano, tra altre importanti attività, per prendere le decisioni relative alla gestione, sempre il Beato Angelico dipinse nella grande lunetta la “Crocifissione e i Santi”, ma con altro scopo rispetto quello delle celle. Ai piedi della croce, oltre alle quattro consuete figure femminili, ci sono una serie di martiri, santi, beati, papi, cardinali, vescovi, maestri provinciali, semplici padri predicatori, patroni di Firenze e del Convento, fondatori e riformatori di vari ordini monastici che vissero e prescrissero l’attività di predicazione, di conversione ad imitazione di Dio, nei periodi antecedenti e nei luoghi più disparati. Altre due schiere di santi domenicani sono dipinte sul fregio orizzontale, alla base della lunetta.

 

Questa è stata considerata una raffigurazione ecumenica e punto di riferimento morale e dottrinale.Fra Angelico è rimasto nella memoria della Chiesa e nella storia della cultura come uno straordinario religioso-artista (…) col pennello espresse la sua“summa” dei misteri divini, (…). Guardare al Beato Angelico è guardare a un modello di vita in cui l’arte si rivela come un cammino che può portare alla perfezione cristiana…”, con queste motivazioni Giovanni Paolo II nel 1984 lo proclamò patrono degli artisti.

Un’iconografia dal punto di vista protestante, si trova nella Crocifissione nella Chiesa luterana dei Santi Apostoli Pietro e Paolo a Weimar, in Germania, dove predicò Martin Lutero, iniziata dal pittore tedesco Lucas Cranach detto il Vecchio, poi completata dal figlio nel 1555, dove manca ogni riferimento ai presenti citati nelle Scritture. Sono rappresentati: il pittore stesso, a cui il sangue che esce dal costato di Cristo cade direttamente sulla testa, l’Agnus Dei, l’agnello che tiene tra le zampe una croce astile, San Giovanni Battista che addita Cristo e Martin Lutero con la Bibbia aperta in mano e il dito puntato su di essa. Singolare e significativo poi è il Cristo risorto a sinistra della croce che calpesta uno scheletro e il diavolo in segno di vittoria sulla morte. Alle sue spalle completano la scena, oltre il sepolcro aperto e l’annuncio della nascita di Gesù ai pastori, diverse scene dell’Antico Testamento, come la cacciata di Adamo dall’Eden e Mosè con le tavole della Legge, l’accampamento degli Israeliti e i serpenti. Il pastore Heiner Bludau, decano della Chiesa Evangelica Luterana in Italia, ha definito gli elementi presenti in quest’opera “una predica dipinta, rappresentativa della teologia della Riforma”.

 

 

Nel XX secolo e nell’arte contemporanea gli artisti diventano più liberi nelle loro modalità di espressione artistica e del loro personale senso religioso. Il crocifisso continua a ispirare gli artisti ma non è più preponderante il suo significato cristiano come sempre è stato inteso. La figura dell’uomo crocifisso diventa l’archetipo dell’umano sofferente, maltrattato, schiacciato, così che sono numerose le Crocifissioni realizzate con questo intento. Pablo Picasso, ad esempio, nella Crocifissione surrealista del 1930, conservata al Museo Nazionale di Picasso di Parigi, di difficile comprensione se non la si analizza a fondo nei suoi particolari, composta come una specie di rebus, concentra un insieme di allusioni. Le figure sono orribilmente deformate e la loro disposizione disordinata; i colori violenti contribuiscono a nascondere le diverse scene della narrazione biblica riportate. Un piccolo personaggio rosso sale su una scala, ai piedi due figure (i due ladroni?), i soldati romani intenti a giocare a dadi su un tamburo, sotto la croce, una donna priva di colorazione (la Vergine o la Maddalena?), sembra voler mordere l’asta. A sinistra, un essere informe con un lungo mantello viola e sopra un uccello sovrastato da un enorme macigno; un volto blu e bianco di profilo (Marie Therese, modella e amante?). A lato una figura scarmigliata, di cui si ignora il significato, dai denti affilati, le cui braccia gialle si alzano al cielo in un gesto di supplica. Gesù ha la testa piccola, mentre è enorme la lancia tenuta dal piccolo cavaliere che lo trafigge.

 

 

A mio parere l’opera esclude la speranza, manca di una dimensione spirituale, non traspare alcun aspetto sacro, è di fatto priva di una congruenza anche minima con il messaggio cristiano; è possibile che si riferisca anche alla profonda crisi che Picasso stava attraversando all’epoca.

Di ben altra partecipazione emotiva è la famosa Crocifissione bianca realizzata nel 1938, ora presso l’Istituto d’Arte di Chicago,dal pittore ebreo bielorusso Marc Chagall. Gesù è rappresentato come un uomo, con accessori dichiaratamente ebraici, tra varie scene di distruzione e persecuzione subite proprio dal popolo ebraico nel primo Novecento in Europa: un fuoco bianco brucia alcuni volumi delle Sacre Scritture; un uomo scappa con un sacco di oggetti sulle spalle, un altro mette in salvo i rotoli della legge; le due tavole dei dieci comandamenti riposte in alto e accanto a loro la stella di Davide; i soldati avanzano sventolando le bandiere rosse. Tre uomini e una donna accanto alla croce aprono le braccia e pregano. Tre case capovolte in preda alle fiamme e tre persone fuggono dal disastro; alcuni viaggiatori su di una barca cercano di attraccare a riva. Un altro gruppo di uomini invece mette in salvo una Torah arrotolata e ai piedi della Croce, una lampada a sette bracci (la Menorah simbolo della religione ebraica) illumina il corpo di Cristo crocifisso. Infine, una madre accanto alla Menorah protegge il piccolo figlio coprendo il suo viso con la mano.

 

 

Mi è sempre sembrato e mi sembra tuttora – affermava Chagall riferendosi alla Bibbia – che questa sia la principale fonte di poesia di tutti i tempi. Da allora, ho sempre cercato questo riflesso nella vita e nell’arte”.

 

Francis Bacon, pittore irlandese del ‘900, trasgressivo dell’iconografia cristiana, fu attratto dalla crocifissione come “rituale di sangue” e come disse, da una “magnifica armatura su cui innestare ogni tipo di sentimento e di sensazione”. Nel suo trittico Tre Studi per Figure alla Base di una Crocifissione, dipinto nel 1944, vi sono tre personaggi sospesi in una dimensione tra l’umano e l’animale; quello a sinistra china remissivamente la testa, quello al centro sembra quasi braccato tra i due e digrigna i denti, mentre la figura a destra lancia un urlo atroce con la bocca rovesciata sullo sfondo arancio acceso. Può essere che questi Tre Studi volessero catturare la disperazione dell’umanità all’apice della sua crudeltà e della sua violenza insensata, prima della conclusione delle atrocità della Seconda Guerra Mondiale?

 

 

Gli artisti contemporanei sanno scrivere e raccontare il dolore del giusto ingiustamente ucciso. Ma sanno raccontare anche la speranza?. È questo l’interrogativoposto dall’arcivescovo di Milano Mario Delpini nel 2022 durante l’inaugurazione della mostra “La Passione. Arte Italiana del Novecento dai Musei Vaticani” al Museo Diocesano di Milano.

Ed è è anche il mio.

Francesco, Carmen e il corpo violato delle donne

Scritto da   LORENZO CUFFINI.

 

“Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più:

La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità.” ( Papa Francesco, Omelia 1 gennaio 2020)

 

Quella dei femminicidi è ormai diventata una lunga lista di morte che si snoda lungo tutti i periodi dell’anno, in ogni parte del nostro paese, traversando fasce di età diverse e tutte le classi sociali: i giornali ne rigurgitano. Per quanto vengano scomodati analisti e sociologi, ad ogni nuovo caso si rivivono lo smarrimento e la incredulità, acuiti dal ripetersi, con poche variazioni, di un copione in larga parte sempre uguale a se stesso. Né la conoscenza del fenomeno, né la sensibilizzazione culturale sembrano  per il momento portare frutti apprezzabili.

Non che l’accanirsi sul corpo della donna da parte del maschio sia una novità dei nostri tempi. Affonda anzi le radici in qualcosa che risulta talmente radicato da sembrare primitivo. La violenza che si esprime in queste mattanze,  è sempre manifestazione di una volontà cupa e pervicace di possesso a tutti i costi  e di dominio assoluto sulla donna, e scatta nel momento in cui entrambi sono avvertiti in pericolo o, peggio, del tutto compromessi

C’è un’opera lirica che bene illustra la dinamica malata che si manifesta in queste situazioni. E’ Carmen, di Bizet. La prima volta che personalmente la vidi a teatro, trovai rappresentata  la storia di una donna mantide: una sensuale peccatrice libera e selvaggia, una pericolosa rovina/ uomini,  rovina/famiglie e rovina/società…il prototipo della donna del peccato (quale eco familiare risuona automaticamente alle orecchie di noi cattolici!)  pronta a portare dritto alla perdizione – umana, spirituale e civile – uno sciagurato brigadiere che per lei perdeva testa , decoro e anima . In realtà questo modo di narrare è  solo uno dei possibili, naturalmente,e a ben vedere  rappresentava il punto di vista del protagonista stesso,  Don José.  Forse anche  quello della società e del buon senso comune. Entrambi a considerare come una minaccia mortale questa donna molto piu’ che ai margini, fuori dalle regole, senza morale e senza principi, se non quello della propria assoluta libertà.

Occhio: questo modo di vedere le cose, non è poi del tutto tramontato. Il mito della donna in grado di portarti alla rovina con il suo solo essere pericolosamente  femmina, unito a quello gemello della donna che finisce male perché dai e dai se l’è cercata, sopravvivono intatti nello zoccolo duro del pensiero maschile e nel subconscio macista. Diceva  mio nonno a noi nipoti maschi, in dialetto: attenzione a quelle donne che sono “bestie senza coda”, tu pensi di averle e loro ti scappano senza che tu possa in qualche modo afferrarle, trattenerle, tenerle con te. Sono passate tre generazioni, ma il concetto, magari non più espresso esplicitamente, alligna, sopravvive, prospera.

La storia che vediamo raccontata in Carmen è il paradigna di ogni femminicidio: e l’opera, se fosse per me, andrebbe oggi ribattezzata ” Don José”  perché è lui, e non la procace sigararia, l’eroe negativo. Colui che distrugge e rovina persone, famiglie, vite: fno ad ammazzarle. In lui scopriamo molte delle dinamiche che i fatti tragici di cronaca di questi anni ci mettono davanti agli occhi. Uomini all’inizio e apparentemente innamorati, anche  molto innamorati, che si fanno rapidamente ossessivi, possessivi, gelosi patologici, e, al sopraggiungere della crisi del rapporto e della volontà di rompere da parte della donna ormai perseguitata da loro stessi, diventano rapidamente costrittivi, distruttivi, violenti verbalmente e fisicamente, assassini. Così è proprio Don José: un uomo d’armi, un brigadiere con un suo ruolo socialmente apprezzato e definito, una madre adorante (e vagamente opprimente) che lo attende a casa, una fidanzata (caldeggiata dalla sudddetta madre ) devota e pia e mansueta ai limiti della macchietta, che sogna di sposarlo, su insistenza di mammà che, naturalmente, lui pare disposto ad accontentare. Lavoro, posizione, ruolo di buon figlio, di  ragazzo di campagna di sani valori, attaccato al reggimento, pronto al grande passo: tutto sembra ben avviato per lui sulla strada della rispettabilità canonica e del si fa cone si deve fare. L’incontro con Carmen butta all’aria questo bel  castello? Certo che sì: ma, prima di tutto, perché si trattava di un castello di carte fragilissimo. Certo, il ragazzo perde la testa completamente per quella sigaraia sensualissima, carnale  e provocante che gli si offre, lo induce a lasciarla fuggire una volta sotto la sua custodia, e ne determina  così l’arresto e l’essere degradato, militarmente parlando. Ma, all’inizio, la cosa pare stargli bene così, e il brigadiere si fa senza fiatare due mesi di galera , dai quali esce più inamorato e convinto di prima alla ricerca di Carmen. I due si trovano, e la cosa va avanti.Ma i primi segni di una gelosia possessiva compaiono già da subito.

Al primo screzio, la scena è questa.

DON JOSÉ ( con violenza) Tu m’ascolterai! Sì, tu m’ascolterai !Io lo voglio, Carmen, tu m’ascolterai

(Con la mano sinistra ha preso bruscamente il braccio di Carmen; con la mano destra cerca sotto la giacca dell’uniforme il fiore di gaggìa che Carmen gli ha gettato al primo atto. Mostra il fiore a Carmen)

E successivamente, in un rapido crescendo di scena in scena:

DON JOSÉ : Dai, Carmen… Se ti ho parlato troppo duramente, ti chiedo scusa, facciamo la pace.

CARMEN No.

DON JOSÉ: Allora non mi ami più?

CARMEN

Quello che è certo è che ti amo molto meno di prima… e se continui a prendere quegli atteggiamenti, finirò per non amarti del tutto… Non voglio essere tormentata, né soprattutto comandata. Quello che voglio è di essere libera di fare quello che mi piace.

DON JOSÉ : Sei il diavolo, Carmen?

CARMEN

DON JOSÉ… Se tu mi parli ancora di separarci e se tu non ti comporti con me come io voglio che tu ti comporti…

CARMEN : Mi ucciderai, forse? Alla buon’ora! Ho visto più volte nelle carte che noi dobbiamo finire insieme.

DON JOSÉ: Sei il diavolo, Carmen?

CARMEN: Ma sì, te l’ho già detto…

Da notare che Carmen, come risulta da molte delle storie che finiscono in tragedia ai nostri giorni, sa e capisce che c’è una volontà di distruzione e di morte da parte dell’uomo che ha di fronte. Ma questo non la salva , dal momento che è il maschio che in tutti questi casi non si rassegna, bracca sempre piu’ da vicino la sua preda e alla fine la uccide veramente.

DON JOSÉ (a Carmen, minaccioso, ma trattenendosi): Bada a te…Carmen, Sono stanco di soffrire!

(Carmen gli risponde con una scrollatina di spalle e s’allontana da lui) Poi, quando lo invita ad andarsene:

DON JOSE’: Tu mi dici di andare…Perché tu… possa correre dietro al tuo nuovo amante! No! no davvero! Dovesse costarmi la vita, No, Carmen, non partirò! E la catena che ci lega ci legherà fino alla morte!… Dovesse costarmi la vita, No, no, no, non partirò! Ah! ti tengo, dannata,Ti tengo, E ti forzerò a subire il destino che unisce la tua alla mia sorte! Dovesse costarmi la vita, No, no, no, non partirò!

 

Così si arriva alla conclusione. All’ ultimo atto, di nome e di fatto: anche qui la scena si muove sui binari che abbiamo imparato a conoscere dai drammi che la cronaca ci racconta. Carmen l’ha lasciato, se n’è andata per la sua strada, ora ha un altro uomo e un’altra storia: ma è Don Josè che non se ne vuole andare, non se ne va, e che la cerca, e la ritrova e la pedina e vuole incontrarla ancora. E’ “l’ultimo incontro“, la richiesta di un ultino chiarimento, quel pasaggio che gli esperti in psicologia e i criminologi di oggi esortano a NON accettare mai: è quasi sempre in quell’occasione che il delitto si concretizza e la donna viene uccisa. Anche sulla scena, le due amiche di Carmen, che hanno scorto Don José tra la folla a pedinare Carmen, la consigliano a fuggire, o perlomeno ad evitarlo. Come hanno fatto tante sue colleghe odierne di sventura, Carmen non ascolta e va all’incontro. Come pare che accada anche nella realtà vissuta, è il culmine della tragedia. L’uomo mette in opera tutto l’armanetario che ha a disposizione; lusinghe, promesse, sentimenti, scuse, minacce, proposte di nuovi inizi  di mirabolanti cambiamenti. Davanti alla negazione reiterata da parte della donna di ogni possibilità di futuro, la condanna, già prestabilita, preordinata, consumata mentalmente infinite volte, ha il suo sanguinoso compimento.

Se è vero, come lo è, che da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità, c’è da chiedersi in cosa ci si possa considerare evoluti, colti. O, piu’ semplicemente, umani.

 

 

Guarda e ascolta la scena finale di Carmen qui di seguito:

https://www.youtube.com/watch?v=PfUmc1kLzdw