Eccoci alla fine

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Care amiche e amici lettori,

con la fine di questo anno solare termina anche l’avventura di questo blog.

E’  stato un viaggio abbastanza lungo, cominciato il 28 marzo del 2016 per accompagnare la pubblicazione dei volumi  della collana Scrittori di Scrittura, ma col tempo ha finito con l’assumere una sua fisionomia autonoma. Che poi in realtà è il riflesso delle diverse personalità che vi hanno contribuito e questo testimonia a favore della sua genuinità, perché quando le persone hanno la possibilità di condividere le loro passioni succede sempre qualcosa di bello. Così nel tempo si sono accumulati 410 post, che sono una bella cifra e spaziano sui diversi ambiti in cui la Scrittura ha trovato risonanza.

Per noi è stato bello poter partecipare a questa iniziativa e colgo l’occasione per rinnovare i miei ringraziamenti a tutti quelli che hanno pubblicato il frutto dei loro sforzi e hanno avuto l’audacia di condividerlo sulla rete. L’editore Effatà ha reso possibile questa operazione acquistando lo spazio per ospitare queste riflessioni e merita il nostro plauso. Ma soprattutto vorrei ringraziare voi che ci avete seguiti in questi anni: abbiamo cercato di incuriosirvi e di trovare qualche spigolatura nuova che permettesse di comprendere meglio testi che continuano a parlarci a distanza di secoli e speriamo di esserci riusciti almeno in parte. Il profeta Isaia ci ricorda che l’erba si secca e il fiore appassisce, ma la Parola rimane in eterno. Anche se questa compagnia si scioglie, il viaggio della Scrittura continui per ciascuno di voi! (don Gian Luca Carrega)

Viaggiando in rete, mi sono imbattuto l’altro giorno in un post dell’amica scrittrice torinese Desy Icardi che a proposito dell’anno giunto agli ultimi, così si esprime: Nulla di personale, ma vattene senza voltarti…Questo andarsene senza voltarsi indietro, mi ha richiamato alla mente la vecchia, cara storia di Orfeo ed Euridice: il mito per eccellenza che, detto in soldoni, si occupa di fine, di rimpianto, di eccessivo amore, di impossibilità di riportare indietro le cose a piacimento.  Tutta roba che casca a fagiolo in sede di chiusure & bilanci. Da qui a saltare su una riscrittura particolarissima di quello stesso, famosissimo mito, il passo è stato quasi istantaneo.

 

 

Sto parlando di Orfeo9 : poco nota, ma assolutamente degna di menzione, si tratta della prima opera rock italiana, datata 1970, a firma di Tito Schipa jr, e di cui possediamo una versione teatrale, un film e un disco ( per i patiti, decisamente cult). In rete si trova abbondante materiale, ed è anche possibile fruire della visione integrale del film ( peraltro trasmesso nel mese di dicembre 2023 a più riprese ed in diversi orari da Rai5 e disponibile su Raiplay ). Chi volesse farsene una idea più precisa e completa, ne ha dunque la possibilità, con la comodità aggiuntiva di poterlo fare in santa pace a domicilio.

Qui ci si limita a citare la chiusa dell’opera, ECCOTI ALLA FINE,  parafrasata appunto nel titolo dell’articolo. Naturalmente sono parole che si riferiscono alla storia raccontata, ma sono cariche di echi e vibrazioni che ben si adattano a una situazione di conclusione e di passaggio come è la nostra in questi giorni.

“Eccoti alla fine e come tutte le fini ha uno strano sound” 

Credo che ben rappresenti, pur parlando di tutt’altro, quello che quanti hanno messo mano a questo blog hanno sperimentato e cercato di esprimere. Chiunque si avvicini a una riscrittura biblica – credo che  lo abbiamo dimostrato nei nostri quattrocentodieci esperimenti – si trova a che fare sì con la Scrittura vera e propria, ma solo come  nocciolo di partenza; per il resto fronteggia  le immagini, i suoni, le storie, le suggestioni, l’ispirazione, l’eco, che la Scrittura stessa ha generato nel riscrittore, sia esso diretto o indiretto. Quel che ne deriva ( la ri-scrittura appunto) è qualcosa di autonomo ed indipendente, talvolta anche lontano, in certi  casi sprigionato inconsapevolmente da un racconto o una situazione che assumono accenti di riscrittura solo all’orecchio del credente…” Hai sparso le tue note sul sentiero come nella favola. Ma il sentiero non ritorna indietro, adesso chi le coglierà? “

Hai creduto il mare popolato d’ombre per l’eternità…Hai sognato in viaggio che al di là del bosco fosse l’aldilà”  mi pare che renda bene la situazione che abbiamo attraversato e che abbiamo tentato di farvi attraversare. Per cui, ora che questa esperienza si conclude, che questo viaggio giunge alla sua fine, le parole di questo brano risuonano al nostro animo come rivolte da noi alla Scrittura stessa: ” Solo da te verrà verrà il sorriso, il vero paradiso, tu sei il paradiso in terra e nessuno lo sa. Solo per te stasera canto, non mi importa di aver pianto, guarda, ascolta sono qui: sto cantando per te, per te, per te.”

Utilizzando la abusata ma sempre efficace metafora del dito e della luna, i riscrittori e coloro che li raccontano sono il dito, laddove la luna, immutabile, splendida, misteriosa e sempre soprendente, è la Scrittura. Il dito, in questi sette anni, ha cercato in moltissimi modi diversi di appuntarsi su piccoli e grandi aspetti del Lunone: ” Uomo, lo so che lei nasconde il viso: si fa più in là, ogni volta che con l’ombra della tua mano, col velo del tuo respiro, cerchi Amore“.  La speranza è che in qualcuno sia nato, per curiosità o per contagio, il desiderio di considerare la Scrittura qualcosa di vivo adesso, di vivo per ciascuno di noi, protagonista nelle nostre vite, e come tale trattabile e raccontabile anche al di fuori delle aule di teologia e del luoghi venerandi di preghiera. Perché quello che abbiamo capito è che, in potenza, tante sono le riscritture di Scrittura quanti sono i suoi  ascoltatori, se solo la ascoltano disarticolando l’abitudine, tirandola giu’ dai piedistalli, andando oltre la devozione, molto bella e santa,  che tuttavia  molte volte congela e sterilizza.

UomoGuarda più avanti. Avanti è l’avventura. Scorda il passato, scorda la paura, scorda la gioia che non è matura, anche la gioia se non ti assicura vita vera, cara, cara...”

Buona avventura a tutti.

(…e una dedica e un ringraziamento speciali a Giovanni Flecchia, “titoschipomane” della prima ora).

 

 

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  • In copertina, una citazione da THE END, The Doors

L’unica culla dello straordinario è l’ordinario. Nazareth

Scritto da MARIA NISII.

 

“Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?

Mi pongo la stessa domanda che si è posto un tempo Natanaele.

“Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?” si chiedeva quell’essere colto del I secolo quando gli parlavano del Messia della Galilea. Stando al Vangelo secondo Giovanni, Natanaele era stupito che il Figlio di Dio si manifestasse in un posto simile.

All’epoca Nazareth era un villaggio inerpicato su una collina, senza strade pavimentate, in cui duecento analfabeti vivevano in tuguri abbarbicati alle rocce insieme ai loro animali. La vita era cadenzata dai compiti quotidiani come trasportare l’acqua, pulire, pelare le verdure e cucinare, dalle stagioni, dalle esigenze dei campi e dalla cura del bestiame, mentre una manciata di artigiani fabbricava vasellame, tessuti oppure mobili, come un certo Giuseppe. Una minuscola sinagoga ospitava i due soli individui in grado di leggere, scrivere e trasmettere i rudimenti della religione ai bambini del posto, tra cui Gesù.

Oggi la città di Nazareth, situata ancora a quattrocento metri di quota, si è ingrandita e allargata, ma conserva identico un profumo di ordinarietà. Tra le esalazioni di benzina e gli effluvi unti dei fast food, tra lo scoppiettio dei motorini e i clacson delle macchine, tra la musica leggera internazionale vomitata dalle automobili e il folklore turistico che alimenta i negozi di souvenir, Nazareth è uguale a mille altri borghi. Ho percorso migliaia di chilometri per trovare la banalità.

Ci rimango male? No, ricevo la mia prima lezione: l’unica culla dello straordinario è l’ordinario.” (Eric-Emmanuel Schmitt, La sfida di Gerusalemme. Un viaggio in terra santa, p. 27)

 

 

Schmitt ha raccontato la storia del suo viaggio in Terrasanta a Torino Spiritualità, sebbene purtroppo a distanza, in un cinema Massimo pieno:

https://www.youtube.com/watch?v=uG50QqU50jc

E il brano sopra riportato introduce il lettore al suo arrivo a Nazareth che, come le altre pagine di questo diario di viaggio,è una raccolta di sensazioni, incontri e ricerche. Chi le scrive si rivela, come oggi ci stiamo oramai abituando con l’auto-fiction. Ma in tempo di Avvento, mi pare che questa pagina dica soprattutto bene lo spirito natalizio che ha spesso attraversato le pagine del blog sul tema. E per questo rimando al precedente pezzo su Nazareth:

https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/nazaret-follia-di-dio

 

Con i migliori auguri di un felice Natale (nelle nostre più ordinarie Nazareth)!

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  • In copertina: Juan del Castillo, Sagrada familia (1635-6)

 

L’INCOMPIUTA (La perdita dell’Unità)

 

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. (Gn. 11, 1-9)

Babele è la città dove, secondo il racconto delle Sacre Scritture, i discendenti di Noè vollero costruire una città e una torre alta fino a raggiungere il cielo (e dunque Dio), ma che non riuscirono a completare perché Dio stesso creò scompiglio nei popoli e, facendo in modo che le persone parlassero lingue diverse e non si capissero più, impedì che la torre fosse portata a termine. Gli esegeti distinguono in questo racconto due momenti diversi fusi insieme, in cui Dio discende due volte dal cielo: una per vedere la costruzione e l’altra per confondere le lingue della gente. Infine Dio  infligge due castighi diversi agli uomini: la confusione delle lingue e la loro dispersione per tutta la terra.

Questo mio post fa seguito a quello scritto da Lorenzo Cuffini sullo stesso tema il 19 maggio 2018, sempre su questo blog (https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/benedetto-pentecoste-risana-e-supera-babele), a cui aggiungo le interpretazioni figurative. Nella maggioranza di queste, gli artisti hanno posto l’attenzione soprattutto sui particolari architettonici dell’immagine della torre e sulle modalità della sua costruzione – un vero e proprio cantiere – tralasciando spesso le azioni di Dio. Queste ultime  invece sono presenti in alcune delle rappresentazioni più antiche, come nel bassorilievo romanico in avorio della sagrestia della Cattedrale di Salerno risalente al 1050 dove è presente Dio alto quanto la torre in costruzione:

 

 

oppure nelle miniature, come quella del Libro d’Ore del maestro di Bedford (1424-1430) conservato alla British Library a Londra, dove, sulla sommità della torre, vi sono un paio di angeli che impediscono la continuazione della costruzione, con uomini che iniziano a picchiarsi e a buttarsi giù.

 

 

Ancora, nell’affresco del 1110-1130 sulla navata della Chiesa di Saint Savin sur Gartempe in Francia, Dio è presente, sceso sulla terra per fermare l’edificazione della torre e sembra frenato dalle proteste di un gruppo di operai.

 

 

Nel mosaico del XIII secolo dell’atrio della Basilica di San Marco a Venezia abbiamo il racconto suddiviso in due momenti: uno relativo alla costruzione della torre, con Dio che ne vede la realizzazione; l’altro con la discesa di Dio e la dispersione. A sinistra, il cantiere edile è in piena attività e Dio si affaccia da una lunetta di cielo  insieme a tre angeli; a destra appare Dio al centro della torre incompiuta a far cessare la costruzione mentre due angeli si allontanano in direzione opposte. Un particolare curioso è quello di un uomo che ha due dita alle labbra (allusione alla futura incomunicabilità linguistica?).

 

 

Edoardo Bennato, cantautore e rocker italiano, ma anche autore della copertina del suo album discografico dal titolo “La Torre di Babele” del 1976, rappresenta in modo originale una umanità dedita alla guerra componendo la torre quale evoluzione tecnologica dell’uomo attraverso lo sviluppo delle armi, strumento utilizzato costantemente nei secoli per farsi strada e conquistare la terra e lo spazio. Cento figurine di guerrieri e soldati sono disposte in un’ideale Torre di Babele cronologica: in basso a sinistra l’uomo primitivo con l’ascia, sulla sommità un missile. Lui stesso spiega: “È un’immagine che rappresenta il concetto biblico della Torre di Babele, con gli uomini determinati a sfidare la natura e Dio stesso, che alla fine li punì per questa loro presunzione. Tutti i brani di questo disco seguono un filo conduttore ben preciso e riflettono la mia posizione in contrapposizione ad ogni forma di conflitto. Avevo intuito che il modo migliore per descrivere i mali della società era quello di ridicolizzarli ed è per questo che le varie canzoni trattano in modo provocatorio ed ironico i vari argomenti legati alla guerra ed all’odio tra i popoli che non riescono a comunicare tra loro e quindi sentono l’esigenza di confrontarsi con la forza”.

 

 

Nel mosaico realizzato nel 2015 nella Chiesa Redemptor Hominis a Washington, negli Stati Uniti, da Marko Ivan Rupnik, non c’è la torre: ne vediamo solo la base, una scala e una zona confusa e contorta di blu, nero e grigio, segno dell’oscurità del male e della morte, mentre uomini dal volto coperto dai mattoni che portano sulle spalle, vestiti tutti allo stesso modo e con gli stessi colori cupi, salgono tutti per l’unica via.

 

 

L’unione tra le diversità dei popoli e delle lingue sarà concretizzata poi con la venuta di Cristo Risorto attraverso lo Spirito Santo a Pentecoste (At 2,4): “Tutti furono riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi”. L’artista contemporaneo Cristian Del Col, nella sua tavola realizzata nel 2020 per la Diocesi di Concordia-Pordenone, fa incontrare e dialogare bene le due scene di Babele e della Pentecoste. La torre è rappresentata nella confusione con una forma distorta, e solo un uomo tra quelli che salgono una scala a pioli ha una parte di volto scoperto (il secondo dal basso):  vede oltre la catasta di mattoni e incontra le fiammelle rosse che partono dalla mano di Dio e che scendono anche sulla torre di Babele, in segno dell’incontro con l’umanità. Risaltano la monocromaticità della torre in contrasto con la varietà di colori che sono nella Pentecoste; ciò a significare,come dice l’autore, che la ricchezza è contenuta proprio nella diversità, nell’identità personale di ciascuno e nella creatività di Dio.

 

 

 

Il cardinale Gianfranco RAVASI sottolinea che “La pluralità di culture e civiltà è, invece, un segno positivo quando si sviluppa nell’armonia, nella libertà, nella creatività. Diventa allora simile a una musica o a un coro dai mille suoni e dalle tante voci che si muovono in concerto, proprio come accade nella Pentecoste cristiana”.

Per una panoramica sulle varie opere con questo soggetto invito a visionare il link https://www.notedipastoralegiovanile.it/images/ARTE/babele.pdf , un opuscolo di note di pastorale giovanile di Maria Rattà dal titolo Immagini di salvezza – Il piano salvifico di Dio nell’arte (quinta parte) Babele: l’uomo sfida Dio.

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  • In copertina : particolare di una vetrata del Duomo di Milano

Trono & Altare: la musica non cambia

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Riscrittura per Sant’Ambrogio – La Prima della Scala

 

Se  qualcuno avesse ancora dei dubbi sulle conseguenze nefaste dell’accoppiata trono/altare puo’ levarseli definitivamente seguendo una rappresentazione del DON CARLO di Giuseppe Verdi,  magari quella in edizione extralusso messa in scena per la Prima della Scala del 2023.

Al centro di questo cupissimo dramma tutto giocato sulla ragion di stato e sul cinismo richiesto dal suo esercizio – oltre che sulla solitudine umana che essa comporta –  sta difatti il rapporto ferreo quanto ambiguo tra Corona e Chiesa, personificate  dal re Filippo II di Spagna e dal Grande Inquisitore. Intendiamoci: nell’opera i due visibilmente non si amano. Piuttosto si temono, e in ogni modo  sono costretti  a convivere dai rispettivi ruoli e dalla dinamica del potere che entrambi esercitano. Convivere e  rafforzarsi reciprocamente: simul stabunt et simul cadent potremmo dire a ragione.

Uno braccio secolare dell’altro, o, in lettura parallela, uno garanzia della natura divina e soprannaturale del secondo. Potenti, temutissimi, onnipresenti entrambi, ed entrambi desiderosi intimamente di poter fare a meno dell’altro: senza mai poterlo minimamente fare. Verdi, per nulla benevolo verso il mondo clericale  e fortemente influenzato dalla lettura ormai codificata nel suo tempo della Inquisizione, un castigamatti della giustizia  non solo religiosa, dà di questa relazione  una lettura sbilanciata: è il Grande Inquisitore la vera eminenza grigia, lui il perfidissimo eroe negativo dell’opera, lui che spinge senza alcuna remora il re Filippo a mandare a morte sia il figlio, don Carlo appunto, sospetto di ribellione e tradimento, che il suo migliore amico, per ragione analoga. Oltre ad aizzare la corona alla repressione senza esitazioni dell’ eretico “popolo di Fiandra”, protestante e dunque degno di sterminio.

Due sono le scene in cui Verdi rappresenta magistralmente l’atmosfera cupa e oppressiva di questo mostro bifronte: il  trono/altare. Il finale del terz’atto, intanto, in cui irrompe sulla scena la folla, inferocita e pronta a  insorgere e a ribellarsi al re che ha imprigionato l’erede al trono.

 

Qund’ecco  sopraggiungere  davanti alla turba esagitata il Grande Inquisitore: tale è il terrore che emana la sua figura, da sortire un effetto immediato:

 

L’altra scena in realtà è precedente: si tratta del grande quadro dell’Autodafé. Il re, che ha appena mandato in galera il figlio che gli chiedeva autonomia e libertà, per sé e per il popolo delle Fiandre, si dirige con la regina, la corte e il popolo ( e il clero naturalmente) ad assistere a quella che nel libretto vine definta sinistramente “ la festa”. Si tratta al contrario di  una cerimonia pubblica,  l’ Autodafé appunto –  tipica della tradizione dell’Inquisizione spagnola, in cui veniva eseguita, coram populo, la penitenza o condanna decretata dal tribunale. La parola, ironia della sorte,  deriva dal portoghese auto da fé (in spagnolo, acto de fe), cioè “atto di fede”.

Racconta il libretto:(il Re s’incammina dando la mano alla Regina: la corte lo segue. Vanno a prender posto nella tribuna a loro riservata per l’auto­da­fé. Si vede il chiarore delle fiamme lontano)

Il coro di popolo, come sempre, per secoli, davanti alle esecuzioni e alle gogne di mezzo mondo, gioisce crudelmente e grottescamente davanti al supplizio imminente:

A questa esultanza irresponsabile e sinistra della ggente, anticipazione delle tricoteuses a venire, ecco contrapporsi il lugubre contraltare dei frati: loro sanno, e commentano la realtà atroce del momento che giunge.

 

 

Una voce dal cielo, che con contrasto surreale piomba sulla scena da forca, scandisce:

Volate verso il ciel, volate, pover’alme, v’affrettate a goder la pace del Signor!

A rimarcare l’assurdo, all’epoca non rilevato, della sostanza. Come a dire: o “presunto” eretico, io t’ammazzo , ma ho tanta cura della tua anima che ti invito fino all’ultimo a pentirti e alla salvezza.

La chiusa della scena, poi,  non lascia scampo, e più che il sipario, è come se calasse una mannaia a chiuderla. Dice il libretto:

(mentre il rogo s’accende) i deputati in disparte cantano: E puoi soffrirlo, o ciel! Né spegni quelle fiamme! S’accende in nome tuo quel rogo punitor!  (la fiamma s’alza dal rogo. Cala la tela).

Dunque: trono & altare uniti esercitano la legge e appiccano i roghi. Trono & altare insieme controllano e soggiogano il popolo, anche quando dà segno di protesta. Una società di mutuo soccorso ( o una società a delinquere?).

In un altro passo cruciale dell’opera, in un momento di sincerità, non potendone più, dopo il faccia a faccia tremendo con l’inquisitore, il Re Filippo sbotta esasperato: Dunque il trono piegar ~ dovrà sempre all’altar! Eccola qua, la  visione sbilanciata di Verdi, di cui si diceva sopra. Questa idea del potere “prigioniero” dell’inquisizione è probabilmente forzata;  la combinazione tra i due è verosimilmente paritaria e basata su reciproci, fortissimi interessi. E’ una alleanza esclusivmente di potere, dove il gran sfoggio di simbologia, termini, riti e apparati religiosi è smaccatissimamente strumentale. E non si pensi che sia ormai tramontata storicamente, una volta per tutte. Se è vero che il Concilio Vaticano II ha espresso anche in questo senso una svolta decisa e apparentemente definitiva, continuano a riproporsi costantemente esempi lampanti di alleanze trono/altare che sembrano infischiarsene della storia andata e dei tempi che noi crediamo nuovi. Saranno anche nuovi i tempi, ma non certamente gli uomini di potere – laico o religioso che siano, e le dinamiche che  possono svilupparsi: sempre quelle. Basti pensare al caso  della chiesa ortodosa Russa legata a filo doppio  a Vladimir Putin, in una continua esibizione  a favore di telecamere e social di gesti pii dell’autocrate davanti a icone studiatamente esposte, e, parallelmente, di solenni benedizioni e sermoni infuocati pro Santa Madre Russia da parte del patriarca  Kyrill e confratelli.

C’è poi un altro lato, meno appariscente, ma non meno  significativo, che dimostra come sia ancora tenace e dura a morire, specie in certi polverosi ambienti, la nostalgia per le forme di Santa Alleanza, declinate in tutti i modi possibili. Basta dare una occhiata in questi giorni alla ringhiosa campagna condotta da certi giornali, e galassie di siti e blog satelliti, una campagna di aggressione  pesante alla Chiesa Cattolica Italiana, ai suoi organi di informazione e, non tanto velatamente, su su a salire; rei sostanzialmente, di aver scelto e messo in opera strade di azione e stategie palesemente diverse da quanto la  momentanea “corona” in carica sembrerebbe aspettarsi e pretenderebbe di ottenere. Su un organo di stampa cattolica si è letta una frase lapidaria, proprio in questi  giorni: La Chiesa italiana sceglie la strada dell’incontro con l’umanità, metterlo in discussione è disonestà allo stato puro.

Chiesa & altare, Dio & Patria, Dio è con noi, Dio lo vuole: cambia la musica, e purtoppo non è quella magnifica di Verdi, ma la sostanza resta quella. Siam sempre punto e a capo. E c’è chi, come il re Fillipo, oggi sbotterebbe, ma alla rovescia: Dunque l’altar, sempre dovrà piegare al trono!

 

 

…assumendo la condizione di servo

 

 

Scritto da  MARIA NISII.

 

DI PIEDE IN PIEDE (9).

 

L’autore della insolita lavanda dei piedi pubblicata qui sopra ha combattuto e poi è stato fatto prigioniero durante la seconda guerra mondiale. Tornato dal fronte studia e insegna arte, salvo decidere – dopo alcuni anni – di studiare teologia e diventare prete. Da questo momento le due anime di Sieger Köder (l’artista e il prete) trovano unità nella creazione di opere artistiche di profondo valore teologico.

L’opera riportata in apertura ritrae un contesto essenziale, spoglio degli elementi che in genere accompagnano il momento, compresi gli altri discepoli. Su tale sinteticità espressiva siamo quindi chiamati a sostare, perché ogni dettaglio esige la massima attenzione dell’osservatore.

La parte superiore del dipinto è meno illuminata di quelle centrale e inferiore, dove si svolge la scena: su un tavolo è posta una ciotola con del pane (che pare già spezzato) e un calice. Tra i pochi altri oggetti ritratti, notiamo uno sgabello e un tappeto. Gli unici personaggi sono Gesù e un discepolo.

Gesù qui è completamente vestito (non ha l’asciugamano in vita, come riportano i vangeli) e indossa un tallit, il manto della preghiera ebraica che lo connota come ebreo in epoca post-shoah; la parte superiore della veste è bianca e luminosa. La stessa luce torna su parte del tavolo che circonda pane e vino, che già rappresentano l’eucarestia, presenza reale del corpo di Cristo.

Gesù è curvo, proteso in avanti, dando le spalle a chi osserva. È chinato, abbassato (Pur essendo di natura divina, / non considerò un tesoro geloso / la sua uguaglianza con Dio; / ma spogliò se stesso, / assumendo la condizione di servo / e divenendo simile agli uominiFil 2,6-7), perdendo il privilegio e la dignità della posizione eretta, orgoglio dell’homo erectus e quindi sapiens. Sembra sprofondare nel grembo del discepolo, il quale si incurva a sua volta sul Maestro quasi sostenendosi. Le due sagome formano una sorta di arco, che da un lato disegna una continuità tra i due e dall’altro potrebbe rimandare al patto tra Dio e l’uomo che qui si rinnova in un gesto inedito.

Il volto di Gesù è nascosto, rivolto verso il basso, come appoggiato sul grembo del discepolo. E tuttavia visibile nel riflesso dell’acqua, un’acqua di un insolito colore verde, come a suggerirne la sozzura (Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tuttiGv13,10). Un volto dunque non percepibile se non attraverso il filtro immondo, che lo rispecchia.

Sovrasta la scena lo sguardo e il gesto del discepolo, nel quale possiamo riconoscere Pietro che inizialmente intende rifiutare l’offerta (Non mi laverai mai i piedi! – Gv 13,8); sebbeneil gesto della mano potrebbe pure richiamare il rinnegamento che seguirà quella stessa notte. Aver ritagliato la scena solo su Pietro lo trasforma in immagine del discepolo ritroso e riluttante, che comprende poco e male quello che sta succedendo. Eppure la sua cattiva comprensione è l’unica versione di cui disponiamo.

Il tappeto è blu, il colore del cielo, assunto dalla tradizione iconografica, assieme al rosso, per le vesti di Cristo, a rappresentare le due nature. Ma il rosso qui appare sul catino, come a presagire la passione che si consumerà di lì a poco, un colore che appare anche in alcune pennellate sul manto di Pietro che subirà analogo martirio.

 

 

Un rosso più acceso compare nel calice dell’ultima cena dello stesso autore tedesco, in cui appare un volto di Cristo rispecchiato nel colore del vino e del sangue (Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per moltiMc 14,24). Anche qui Cristo è di spalle e addirittura non entra nella porzione rappresentata, ad eccezione delle mani. Ancora una volta il suo volto è visibile solo nelle tante espressioni dei discepoli che lo circondano – imprescindibile mediazione per tutti coloro che seguiranno. E i discepoli ai due lati hanno le vesti blu (a sinistra) e rossa (a destra), forse Giacomo e Giovanni che avevano appunto richiesto tale privilegio (Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra Mc 10,37).

 

 

Il calice rosso torna ancora nell’opera che ritrae la Veronica, mentre il volto insanguinato di Cristo è rimasto impresso su un tessuto di un bianco luminoso, ma macchiato di sangue, al pari della fasciatura di una delle mani che reggono il calice-catino ormai crepato, segno di una morte consumata – come le bende mortuarie paiono suggerire.

Questo ritrarre il volto di Cristo come riflesso di specchi deformi – resi tali dall’impudicizia, dal dolore, dalle cattive o limitate comprensioni – mi pare un tema fondante del discorso sulle riscritture. Perché non è più dato attingere all’originale e la nostra condizione risiede oramai nella fruizione dei tanti racconti e rappresentazioni. A partire dal racconto biblico, che conosce questo evento fondativo in un solo Vangelo, arrivato per ultimo, a lungo ritenuto il meno storico e comunque in gran parte estraneo alla narrazione canonica fissata dai sinottici.

Dunque arte, Bibbia e teologia. Non senza il lettore (l’osservatore), il quale probabilmente – al pari dell’osservatore dei fenomeni fisici nell’infinitamente piccolo – modifica il dato con il suo stesso atto di lettura e osservazione. Non so se lo sia per la fisica, ma certo per la teologia è una splendida sfida!

 

 

Lavanda pop

 

Scritto da MARIA NISII.

 

DI PIEDE IN PIEDE (8).

 

Death Note è un manga e poi una serie televisiva a puntate in onda nel 2006. Ambientata in Giappone, la storia racconta come il suo protagonista, Light, uno studente modello, venga in possesso di un Death Note, lasciato volutamente cadere dal dio della morte Ryuk. Se la molla dell’azione è per entrambi la noia (Light è annoiato da tutto quanto lo circonda, oltre a essere stanco di vivere in una società pervasa dal crimine; Ryuk vive in una specie di limbo infernale senza diversivi), il misterioso quaderno cambia per sempre la vita di Light non appena egli ne scopre i poteri, ovvero uccidere l’umano di cui sia stato scritto il nome sul quaderno. Così facendo, in breve tempo, il ragazzo elimina un gran numero di delinquenti, avvinto dal delirio di onnipotenza di fare vera giustizia.

Ovviamente la polizia prova in ogni modo a cercare il colpevole di tale mattanza, ma Light è astuto e, operando a distanza, il suo “lavoro” non lascia tracce. Le forze dell’ordine chiedono così l’aiuto di un altro giovane geniale, Elle, un detective privato dai tratti non casualmente opposti a quelli di Light. I due finiranno col collaborare per catturare il misterioso assassino di malfattori, sempre più consapevoli di star combattendo una battaglia contro il proprio alter-ego.

La serie è a tal punto ricca di riferimenti religiosi e cristiani da suscitare non poco sconcerto. A partire dalla sigla con l’onnipresente simbolo della mela, vera e propria tentazione al male offerta a Light dal dio della morte nell’icona michelangiolesca della creazione di Adamo.

 

 

I riferimenti proseguono con l’immagine della pietà, il Kyrie Eleison all’inizio del primo episodio e così via.

 

 

Quasi a conclusione della prima serie arriva poi una delle sequenze più stupefacenti. Fuori imperversa una pioggia furiosa come un diluvio: Light sorprende Elle sotto la pioggia, il quale dice di trovarsi lì per sentire il suono delle campane. Stranamente però Light non sente nulla. A quel punto Elle gli chiede, scrutandolo con grande attenzione: “Dimmi una cosa. Dal giorno in cui sei nato, hai mai detto una sola volta la verità?”

Poco dopo i due rientrano nella casa-ufficio in cui lavorano e, senza una ragione, Elle si offre di asciugare i piedi bagnati di Light. Il gesto è inatteso ed evidentemente imbarazzante per colui che riceve tale cura. Presto si scoprirà che, come gli altri riferimenti biblici, ha voluto rivelare quanto accadrà a breve. Elle ha infatti appena finito di lavare i piedi al suo Giuda.

 

Perché inserire così tanti richiami alla tradizione cristiana da parte di una casa di animazione giapponese, che possiede una ricca mitologia, non è di immediata comprensione. Forse il fascino che la cultura occidentale continua a esercitare anche fuori dai propri confini, forse la facile riconoscibilità delle icone adottate. Quello che si nota è che le divinità della morte, di tradizione estranea al cristianesimo, sono accostate in modo decisamente problematico alle immagini occidentali del divino. Sincretismo?

 

 

Il richiamo all’episodio evangelico viene assunto dal personaggio di Elle, in un momento in cui egli ha a sua volta compreso di essere prossimo alla morte. La scelta di questo gesto è però tanto più inattesa, in quanto nulla di ciò che ha caratterizzato fino a quel momento la relazione tra i due possiede i tratti della carità o dell’attenzione amorevole all’altro. Al contrario si è trattato di un rapporto falsamente amichevole, in cui ciascuno ha giocato un ruolo funzionale alla vittoria della propria idea di giustizia. Che Elle, il giudice buono, lavi i piedi a Light, il giustiziere, non può non offrire un’immagine di giustizia ammantata di luce divina, per quanto possa risultare provvisoriamente sconfitta. E la cosa funziona.

Toccare e lasciarsi toccare: la lavanda di Gesù (2)

Scritto da MARIA NISII

 

Di piede in piede (7) . 

 

Mille volte mi ha visitato il ricordo di quella notte. E so che ancora mille volte verrà a visitarmi. La terra dimenticherà i solchi arati nel suo seno, e la donna le gioie e i dolori del parto, prima che io dimentichi quella notte.

Avevamo trascorso il pomeriggio fuori dalle mura di Gerusalemme, e Gesù disse. “Entriamo in città, e andiamo a cena alla locanda”. Era buio quando arrivammo alla locanda, ed eravamo affamati. L’albergatore ci diede il benvenuto e ci condusse in una stanza al piano superiore. E Gesù ci invitò a sedere attorno al tavolo, ma lui rimase in piedi, e i suoi occhi indugiarono su ognuno di noi. E parlò all’albergatore e disse: “Porta una bacinella e una brocca d’acqua, e un panno per asciugare”. E ci guardò di nuovo e disse dolcemente: “Toglietevi i sandali”. Non comprendevamo, ma obbedimmo al suo comando. L’albergatore portò quanto gli era stato chiesto, e Gesù disse: “Ora laverò i vostri piedi. È necessario infatti che io liberi i vostri piedi dalla polvere dell’antica strada, così da donare loro la libertà della nuova via”. Tutti eravamo turbati e intimiditi.

Allora Simon Pietro si alzò e disse: “Come posso tollerare che il mio Signore e Maestro mi lavi i piedi?”. E rispose Gesù: “Laverò i vostri piedi perché possiate ricordare questo: chi serve gli uomini sarà il più grande tra gli uomini”. Poi ci guardò uno a uno e disse: “Il figlio dell’uomo che vi ha scelti come fratelli, il figlio dell’uomo a cui ieri sono stati unti i piedi con mirra d’Arabia, e asciugati con capelli di donna, ora desidera lavare i vostri piedi”. E prese la bacinella e la brocca e s’inginocchiò e lavò i nostri piedi, iniziando da Giuda Iscariota. (Kahlil Gibran, Gesù figlio dell’uomo, p. 176-7).

 

 

Ci sono un’infinità di varianti del racconto della lavanda dei piedi: da quella giullaresca di Dario Fo in Mistero buffo alle tante versioni artistiche, letterarie e cinematografiche delle riscritture evangeliche. Ma persino alcune inattese nella cultura pop!

Intanto notiamo l’ampliamento della riscrittura di Gibran riportata in apertura, che assume il punto di vista di Giacomo, fratello di Gesù, all’interno dei numerosissimi personaggi che raccontano il proprio personale incontro con l’uomo Gesù nella raccolta di racconti che è Gesù figlio dell’uomo. Anzitutto il ricordo indelebile nella memoria, poi la descrizione di un gruppo di uomini che eseguono senza comprendere i comandi del maestro, e per concludere il suo iniziare da Giuda Iscariota. Mi pare invece di troppo, ma forse è un gusto personale, la spiegazione che vede la necessità di togliere la polvere della vecchia strada per aprire alla libertà della nuova. Ma quanto alla strada, fuor di metafora, ne avrebbero percorsa quei piedi! Perché il Vangelo ha avuto bisogno dei “bei piedi” di molti messaggeri (e messaggere).

Che il gesto sia stato interpretato dalla Chiesa in funzione sacerdotale, al punto da arrivare a praticarlo nel giovedì santo, è un dato successivo. Certo è che, pur non essendo diventato un sacramento, è stato tuttavia integrato nei riti battesimali di alcune tradizioni ecclesiali, come quella ambrosiana.

 

 

Come già ricordato, è stato però soprattutto interpretato come “sacramento del fratello”. Ed è così che la comunità dell’Arca lo ha praticato, coinvolgendo portatori di handicap e volontari, perché rivestisse un carattere di reciprocità e di uguaglianza, un gesto semplice di servizio nei confronti dell’altro e di accoglienza del gesto altrui: “è commovente vedere persone incapaci di parlare, che vivono con un handicap abbastanza pesante o con disturbi della personalità, lavare i piedi di un assistente con tenerezza e amore. È normale e naturale che un assistente lavi i piedi di una persona che ha un handicap; il gesto assume una bellezza particolare” (le parole del fondatore citate in F. Nault, La lavanda dei piedi, p. 82). In questo contesto il rito della lavanda diviene particolarmente eloquente, perché riflette una prassi concreta di cura e solidarietà.

L’agnostico Emmanuel Carrère, che si trova a fare esperienza di questa particolarissima ritualità durante un ritiro, ne riporta l’intensità a conclusione della sua ampia riscrittura Il Regno (Adelphi, 2015):

Ci togliamo le scarpe e i calzini, arrotoliamo l’orlo dei pantaloni. Comincia il direttore delle risorse umane, si inginocchia davanti al preside, versa con la brocca acqua tiepida sui suoi piedi, li strofina un po’ – una decina di secondi, una ventina, piuttosto a lungo, mi sembra che lotti contro la tentazione di fare svelto e ridurre il rituale a un gesto puramente simbolico. Prima un piede, poi l’altro, li asciuga con l’asciugamano. Dopo tocca al preside inginocchiarsi davanti a me e lavarmi i piedi prima che io lavi quelli della funzionaria della Caritas. Guardo i suoi piedi, non so a che cosa sto pensando. È veramente molto strano lavare i piedi di uno sconosciuto. Mi torna in mente una bella frase di Emmanuel Lévinas sul volto umano […]: appena lo si vede, non si può più uccidere. […] sì, è vero, ma è ancor più vero per i piedi: i piedi sono ancora più poveri, più vulnerabili, sono proprio la cosa più vulnerabile: il bambino in ognuno di noi. E anche se lo trovo un po’ imbarazzante, mi sembra bello che della gente si riunisca per stare il più vicino possibile a ciò che c’è di più povero e vulnerabile nel mondo e in se stessi. Mi dico che è questo, il cristianesimo. (p. 426)

Pur notando l’imbarazzo dilagante, l’autore non manca di evidenziarne l’efficacia: avvicinarsi alle povertà dell’altro e alle proprie. Un significato che, a suo dire, coinciderebbe con lo stesso cristianesimo e che nelle pagine finali lo scioglie fino alla commozione. Un testo ricco e ampio in cui sedimenta un lungo lavoro di ricerca e studio del cristianesimo delle origini, e che sembra non trovare miglior conclusione del gesto della lavanda.

 

 

 

La lavanda di Gesù (1)

 

Scritto da MARIA NISII 

Di piede in piede.(6)

Praticamente succede questo, Giulio. Li invita a cena e, mentre stanno cenando, li sorprende con un agguato. Li attacca affrontandoli da sotto, dal basso: Lui ch’è venuto dall’Alto per illuminare i bassifondi, gli scantinati, i sottoscala. Si mette a maneggiare i piedi, che sono i ripostigli delle sciagure. Li sfida da rasoterra. Sono uomini boriosi di cuore. Quell’Uomo, accartocciato ai loro piedi, ha la bellezza di un imperatore; trasuda un’imperiale tristezza, ha un’amarezza allegra in viso. I piedi son piante, Giulio: le piante dei piedi. Non han radici, però: son fatti per muoversi. I piedi di quei discepoli sono anche la loro memoria: nei loro piedi sono registrate le terre attraversate, le strade percorse, la polvere respirata. Le scarpate risalite. […]

Quando passa, di piede in piede, non guarda di chi sono i piedi: li lava tutti senza sapere a chi appartengano. E li bacia tutti, a uno a uno: non vuole che gli amici rimangano statue di marmo dentro il museo, coi piedi freddi, il cuore gelato. Siccome sa che stanno per farlo fuori – perché lui lo sa già – decide che questo sarà il suo ultimo gesto.” (Marco Pozza – “Alla fine è sempre all’improvviso” p. 200-201)

Non abbiamo esaurito (purtroppo e per fortuna) tutto il ventaglio di possibilità che la Bibbia offre in termini di immagini e metafore attorno al tema dei piedi. E tuttavia non possiamo non concludere con la pagina più alta che sia stata scritta in proposito, una pagina che non casualmente si collega all’inizio del nostro percorso, quando i piedi erano quelli del messaggero di buone notizie (https://scrittoridiscrittura.it/senza-categoria/di-piede-in-piede). Ma andiamo per ordine.

 

 

La pagina con cui qui abbiamo aperto è tratta da un bel romanzo di Marco Pozza, cappellano delle carceri di Padova, che nella storia raccontata in Alla fine è sempre all’improvviso mette in scena proprio un prete da carcere e un detenuto. Le parole riportate sono quindi quelle che pronuncia il prete per spiegare il Vangelo durante la messa che celebra nella cella del giovane sbandato, che lentamente sta cambiando vita. E pure i suoi piedi, come quelli dei discepoli di Gesù, faranno molta strada…

https://soundcloud.com/circololettori/la-mia-anima-e-triste-fino-alla-morte-marco-pozza?in=circololettori/sets/torino-spiritualita-2023

[per recuperare l’incontro con l’autore a Torino spiritualità]

 

 

 

Come in altri casi, il gesto del lavare i piedi non è una novità di Gesù. Nell’Antico Testamento, anche al di là dell’ovvia pratica igienica, significa infatti accoglienza, come emerge nel celebre testo di Gen 18,1-5:

Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto».(Gen 18)

Un segno di ospitalità che ai tempi di Gesù era ben noto, come si legge in Lc 7,44-46 ove invece è disatteso:

E volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi.

Un gesto che veniva eseguito dalla servitù, a cui era affidata quella parte del corpo che – come visto in precedenza – non godeva di grande reputazione: “Si tratta di ciò che sta in basso, di ciò che tocca fare all’inferiore, al subalterno, allo schiavo, anche alla donna, in una gerarchia indiscussa e indiscutibile” (Nault p. 13). È così che la interpreta di fatto Abigail, quando informata dell’intenzione di Davide di farla sua sposa in 1Sam 25,41:

Ella si alzò, si prostrò con la faccia a terra e disse: «Ecco, la tua schiava diventerà una serva per lavare i piedi ai servi del mio signore».

Gesù riproduce il gesto di ospitalità eseguito dallo schiavo, cambiandogli però modo e significato. Non li lava infatti in vista del pasto, ma durante il pasto (Gv 13,2):

Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica.(Gv 13,14-17)

Il gesto che veniva eseguito dallo schiavo o dalla donna è ora riprodotto dal maestro, il quale vuole in questo modo dare l’esempio affinché anche i suoi discepoli lo proseguano istituendo una tradizione (con l’esplicito comando a ripeterla). Non si tratta più infatti di accogliere e ospitare, bensì di mostrare il servizio a cui sono chiamati. Un servizio (o sacramento, come è stato definito) al fratello, che Adolphe Gesché ritiene potrebbe essere introdotto nelle celebrazioni domenicali senza presbiteri.

 

 

Scelgo di commentare questo episodio giovanneo, attingendo dal testo già citato di François Nault, La lavanda dei piedi (Qiqajon, 2012), che pone un forte accento sul tema del corpo qui denudato, coperto solo da un asciugamano, come sarà il corpo torturato e nudo sulla croce:

“Se nel racconto sinottico dell’ultima cena Gesù dice: Questo è il mio corpo, qui il Vangelo di Giovanni mostra il corpo. A cominciare da quello di Gesù, che viene esibito, letteralmente messo a nudo. Carne consegnata, prima della sua morte. […] Il corpo nudo del Figlio di Dio che si offre allo sguardo – e oltre, in una passività estrema, orante […], quel corpo nudo sarebbe forse ancora tollerabile se si limitasse a fare questo: mostrarsi. Ma no, tocca pure. Lava. Lava dei piedi e li accarezza.” (p. 13-14)

Senza tralasciare, ma anzi evidenziando la scandalosa portata erotica del gesto, Nault richiama una scena di Pulp Fiction:

“Del resto è per questo motivo che appare giustificato il gesto di Marsellus Wallace nel film Pulp fiction di Quentin Tarantino: fa scaraventare giù dalla finestra quel disgraziato che ha avuto la cattiva idea di massaggiare i piedi di sua moglie” (p. 14).

 

 

Che fosse la scandalosità o l’abbassamento che l’atto richiede, certo è che la prassi istituita da Gesù ha suscitato forti resistenze, come mostra sin da subito la reazione indignata di Pietro (Gv 13,8), tanto che oggi possiamo affermare senza dubbio che tale prassi sia stata un fallimento e forse persino un fallimento programmato: Gesù “ha prescritto ciò che non poteva verificarsi, quando ha scelto di istituire il ‘non istituibile’” (p. 18).

(cont.)

 

 

Ta pum: onomatopea di guerra

 

 

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

“Cessate il fuoco! Cessate il fuoco!

Fermatevi, fratelli e sorelle.

La guerra sempre è una sconfitta”,

(Papa Francesco, Angelus del 29 ottobre 2023)

 

Cessate il fuoco“: l’irruzione del linguaggio bellico nelle parole del Papa di Roma danno il segno e la misura della drammaticità di questi giorni, e di come la guerra sia ormai presente nello sfondo quotidiano delle nostre vite. Anche se la viviamo solamente da spettatori inquieti, la sua colonna sonora e le sue immagini, con tanto di alta definzione e audio in presa diretta, ci portano – se non fosse quasi di cattivo gusto dirlo a proposito di un tema come questo –  “in prima fila”, sul luogo stesso dei combattimenti. Il che scatena una doppia reazione: di vicinanza impressionante e di altrettanto impressionante sensazione  di guardare un film, o, peggio, un videogioco. Nulla, purtroppo, è fiction in quel che ci vien fatto vedere.

Davanti a tanto realismo tecnologico della narrazione odierna,  sorprende ripensare ad altre epoche tragiche e ad altre terribili battaglie che hanno avuto anch’esse il loro racconto, i loro narratori e un loro pubblico partecipe e angosciato. Basti pensare ai racconti di guerra, e, più ancora, ai canti della guerra, che ancora oggi, nonostante il linguaggio datato e carico di storia e tradizioni, sanno riportarci la vivezza e l’immediatezza del momento. Certo: oggi abbiamo dovizia di  riprese dai droni ed esplosioni riportate in stereo, cent’anni fa avevamo cori alla buona  e un suono semplificato e ingenuo: TA PUM , per esempio, a ricreare il contesto sonoro della battaglia. Ma l’effetto, per il tempo, era lo stesso. E sorprende non poco constatare che funziona, nella sua basicità, ancora oggi.

TA PUM era il suono del “fuoco” di allora, quello stesso per il quale  Francesco invoca oggi la cessazione: anche cent’anni fa – chissà quante volte – sperata, vagheggiata , sognata da chi se lo sentiva martellare nella carneficina delle trincee quel TA PUM. Verso onomatopeico, a riportare e perpetuare nel tempo l’eco insopprimibile dei colpi di artiglieria.

Le canzoni degli alpini sono concentrate sulla “sacralità della montagna” – tema socialmente presentabile nelle diverse Italie politiche che andranno a sovrapporsi a quella liberale – e caratterizzate da una intensità che consente loro di diventare per antonomasia il “suono” della prima guerra mondiale, anche se spesso sbrigativamente associato alle generiche canzoni di montagna. Ta-pum  risale all’epoca del traforo del Gottardo e nell’adattamento dei combattenti trasforma il riverbero degli scoppi in miniera nell’eco prodotta nelle valli dal colpo secco del “cecchino” austriaco

“L’attribuzione della paternità della canzone degli alpini è tuttora discussa. Alcuni l’attribuiscono ai militari italiani durante la Grande Guerra, altri al compositore Antonio Piccinelli di Chiari; in ogni caso sarebbe nata nel periodo della battaglia del monte Ortigara, in quanto essa viene citata esplicitamente nel testo. A quel tempo, nei percorsi di istruzione elementare, non tutti i segni di punteggiatura erano insegnati ed utilizzati; per questo motivo il titolo originale della canzone deve essere scritto tutto attaccato oppure con lo spazio, ma senza trattino alto (ovvero non Ta-pum). Il titolo ed il ritornello sono ispirati al rumore degli spari sul campo di battaglia: il “TA” è il rumore dell’innesto della pallottola e il “PUM” il rumore dello sparo dei fucili Steyr Mannlicher m1895 in dotazione alle truppe austro-ungariche.

Nino Piccinelli (il compositore clarense)  raccontò di avere scritto «Ta pum» la notte prima di un assalto a quota 2105: «La nostra trincea distava poche decine di metri da quella austriaca. Diedi una nota ad ogni sospiro della mia anima, nacque così l’accorato e disperato canto, tra i lugubri duelli delle artiglierie, il balenio spettrale dei razzi, il gemito dei feriti, il tiro infallibile dei cecchini“.

Carlo Salsa (1893-1962), ufficiale durante la prima guerra mondiale, era giornalista, scrittore e sceneggiatore, fondò il Premio Viareggio e lavorò alla sceneggiatura de “La Grande Guerra” di Monicelli. Le sue memorie di guerra vennero censurate sotto il fascismo. E’ l’autore di  “Trincee, confidenze di un fante“, pubblicato per la prima volta da Sonzogno nel 1924, successivamente da  Mursia nel 1995. Così’ racconta nelle sue pagine:

Allo scoppio d’apertura, Molon si rimette l’elmetto, si riallaccia il cinturone delle giberne e si leva, sferrando.
“Che fai adesso?”
“Ghe penso mi”
Gli allungo un cazzotto e lo tengo lì, zitto.
Fuori comincia a sgranarsi il pettegolezzo della fucileria.
Ogni tanto un graduato ficca la testa nello sgabuzzino e reca le solite notizie: qualche ferito, che si dovrebbe accompagnare o portare giù subito al posto di medicazione dei Mulini di Gabrie.
“Ghe penso mi”, dice Molon.
Rassegnato all’immobilità, dopo aver rovistato a lungo nel tascapane, leva una delle sue ventidue pipe e si mette a raschiare nel fornello con la punta della baionetta: canticchia tra sé, sommessamente.

Dietro il ponte c’è un cimitero
cimitero di noi soldà.
Tapum tapum tapum
tapum tapum tapum
Quando sei dietro quel mureto
soldatino non puoi più parlà.
Tapum tapum tapum
tapum tapum tapum

Versa la cicca nel palmo della mano e ne fa una pallottola che apposta con molto riguardo in bocca: spesso, se gli riesce di raggranellare, spuciando in tutte le tasche, un po’ di tabacco e un po’ di briciole assortite, accende la pipa: in questo caso a non dargli la libera uscita, c’è da finire affumicati.”

 

 

Dunque: “Cessate il fuoco!” implora il papa. Ed ha un peso importante ripeterlo oggi,   4 novembre, giorno fino a qualche anno fa dedicato a celebrare la Vittoria nella Prima Guerra Mondiale, prima di essere riconvertito a “Festa della Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate”. Oggi, quando rimbomba di guerra vera e di morti – spaventosamente – veri. Assume un significato particolare, oggi, parlare di questo canto degli alpini, e associarlo a quella implorazione in Piazza San Pietro. Dal momento che ha subìto nel tempo una metamorfosi nell’interpretazione e nell’utilizzo. Semplificando: possiamo dire che  è passato da canto della guerra a canto contro la guerra. Dall’epica bellicista, alla denuncia antimilitarista.

Senza voler aggiungere altro, ne riproponiamo tre diverse versioni, che ne indicano le tappe di trasformazione. La prima è quella tradizionale da Coro Alpino:

 

 

La seconda versione è interpretata dal gruppo  Al-tei :

 

 

La terza è quella del cantautore Massimo Bubola:

 

Per giungere a una riscrittura del canto per opera di Enrico Ruggeri, che lo reintepreta esplicitandone del tutto  la vena antimilitarista e il contenuto contro l’orrore della guerra, nel suo brano  Lettera dal fronte (Ta pum)

In conclusione: niente di ideologico, nell’antimilitarismo intrinseco di questo, come di altri brani analoghi: chi parla  giorno per giorno scopre l’inferno che sta vivendo, l’assurdità di quell’inferno, la realtà così incommensurabilmente diversa da tutta la retorica e gli entusiasmi “interventisti”. Come in certe liriche dal fronte del soldato Ungaretti, nessuna vigliaccheria nè ribellione in queste voci che acquistano via via lucida consapevolezza: al contrario, il coraggio vero e disincantato di chi resta al proprio posto, persino tenerezza  nei confronti del proprio ruolo di “soldatino” a un passo dal cimitero, la coscienza magari inespressa di chi capisce , per dirla con Francesco, “che la guerra sempre è una sconfitta“.

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  • Le citazioni sono tratte da:

https://www.cattolicanews.it/news-dalle-sedi-ta-pum-la-verita-sulla-grande-guerra-nei-canti-dei-soldati”

https://it.wikipedia.org/wiki/Tapum_(canzone)

  • La vignetta in copertina è di Mauro Biani

 

THE BOSS & I SANTI

Scritto da  LORENZO CUFFINI

Riscrittura per Ognissanti in musica e parole.

 

Quando i santi si mettono in marcia
Quando i santi si mettono in marcia
Signore, come voglio essere in quel numero
Quando i santi si mettono in marcia

 

 

 

Stiamo tutti percorrendo le orme
Di quelli che sono andati prima
Saremo tutti riuniti
Su quella spiaggia nuova e illuminata dal sole

 

 

E quando il sole rifiuta di brillare
Quando il sole rifiuta di brillare
Signore, come voglio essere in quel numero
Quando i santi vanno a marciare in

 

 

E quando la tromba suona la sua chiamata
Quando la tromba suona la sua chiamata
Signore, come voglio essere in quel numero
Quando la tromba suona la sua chiamata

 

 

 

E alcuni dicono che questo mondo di guai
È l’unico che vedremo mai
Ma aspetto quella mattina
Quando viene rivelato il nuovo mondo

 

 

 

 

Oh, quando la luna diventa rossa di sangue
Oh, quando la luna diventa rossa di sangue
Signore, come voglio essere in quel numero
Quando la luna diventa rossa di sangue

 

Quando i santi si mettono in marcia
Quando i santi si mettono in marcia
Signore, come voglio essere in quel numero
Quando i santi si mettono in marcia