“NON LO CONOSCO!”

Scritto da NORMA ALESSIO.

Pietro è uno dei primi Apostoli che segue Gesù e insieme a Paolo, con cui è spesso ritratto , è una delle figure su cui si fonda la fede della Chiesa. I Vangeli e gli Atti degli apostoli contengono gli unici riferimenti diretti alla sua vita : in essi compare in diverse occasioni che ci consentono di seguirne passo passo il percorso spirituale. Gesù vuole attribuire a Pietro uno speciale rilievo all’interno del gruppo degli apostoli e : «Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Kefa» (Gv 1, 35-42), parola ebraica poi tradotta in greco Petros e infine in latino Petrus, che non era solo un nome, ma un “mandato“, che Pietro riceveva in quel modo.

Ecco che Pietro compare in molte rappresentazioni di passi biblici: è ritratto nella difficoltà di camminare sulle acque del lago di Genesaret dopo aver lasciato la barca alla chiamata di Cristo, nella pesca miracolosa, nella profezia del suo tradimento, nella Trasfigurazione sul Monte Tabor, nell’ingresso a Gerusalemme, nella lavanda dei piedi, durante la cattura e la condanna a morte di Gesù, nella morte di Anania e Saffira, nella resurrezione di Tabitha, nell’episodio del tributo, nella sua liberazione dal carcere e, infine, compare sempre nelle varie versioni della preghiera nell’orto.

L’immagine più diffusa di Pietro è legata alla “consegna delle chiavi, simbolo fondamentale per la sua connotazione  rispetto agli altri Apostoli, che riprende letteralmente il versetto 19 del capitolo 16 di Matteo: “Io ti darò le chiavi del regno dei cieli”; su questa, però, gli artisti non si sono sbizzarriti nelle intrepretazioni e nelle varianti. Tra tutti gli episodi che lo riguardano, quello da cui emerge il suo  punto debole per eccellenza  è il  comportamento dopo l’arresto di Gesù e le sue  ripetute affermazioni di non essere seguace di Cristo, scandite dal canto del gallo come gli era stato predetto : la cosiddetta negazione o rinnegamento. Questo tema fu rappresentato spesso, soprattutto nel XVII secolo, privilegiando l’indagine sui sentimenti e le emozioni. In questo episodio – infatti –  non ci sono scene di azione che si possano capire immediatamente, vi è solo un dialogo tra persone, per cui gli artisti si sono concentrati sull’atteggiamento e sulle risposte di Pietro, cercando attraverso  gesti “teatrali” delle mani,  e giochi efficaci di sguardi, di spiegare l’avvenimento, caratterizzando anche il volto di Pietro tra i presenti, perché sia ben riconoscibile. Le principali declinazioni del soggetto ebbero grandissima fortuna tra i pittori caravaggeschi;  questo tema bene poteva essere interpretato proprio dall’arte del secolo in cui vigeva il clima della Controriforma  a cui gli artisti si adeguarono prontamente: non più immagini che potevano inneggiare alla gioia e alla felicità, ma immagini che suscitavano necessità di pentimento e di sacrificio. Così, in questa atmosfera buia, anche i colori si scuriscono e gli artisti, sulla scia di Caravaggio, affondano le loro immagini in una cornice di oscurità avvolgente, in cui le luci e la penombra danno rilievo alla drammaticità delle scene.

Nell’opera di Caravaggio del 1610 si vedono solo tre mezze figure – essenziali per individuare l’episodio tratto dal Vangelo in modo sintetico – che sono: la serva, San Pietro e il soldato.Qui non importa creare il contesto in cui l’azione  si svolge, sono importanti i gesti che i personaggi compiono.

 

In altri casi viene proposta un’interpretazione più libera rispetto a quanto  scritto nei testi dei vangeli sinottici, come nel dipinto dal pittore fiammingo Gerard Seghers (1620 ca., Museum of Art Foundation di Raleigh, North Carolina), dove oltre ai due personaggi principali ve ne  sono altri che giocano a carte; riconoscibile è la serva, con in testa una specie di turbante, e Pietro, con la fisionomia tipica di vecchio stempiato con corta barba bianca e le rughe del volto che emergono con evidenza per la luce decisa, e con un’espressione innaturale e forzata che fa intuire la sua bugia. Le parole impulsive e menzognere sono enfatizzate dal gesto della sua mano sinistra.

 

 

 

Interessanti sono le due versioni della scena dipinte dal pittore olandese Van Honthorst Gerrit (1590-1656): in una c’è un soldato in armatura che distribuisce le carte mentre un altro, di fronte, si volta verso il Santo, e dietro di lui un uomo anziano avvolto da un mantello osserva il gioco, tiene un bastone da viaggio nella sinistra e indossa gli occhiali. La scena è arricchita dall’azione di un soldato visto di schiena, che afferra il mantello di Pietro accusandolo di essere seguace di Gesù.

 

Nell’altra versione la stessa azione è della serva, in posizione centrale, che afferra il mantello di Pietro.

 

 

Nell’interpretazione di Rembrandt  (1660,Rijksmuseum di Amsterdam ) sullo sfondo si intravedono delle persone che spuntano dal buio solo con pochi tratti del volto: una di esse è Gesù, che prima di comparire davanti al sinedrio, come scrive Luca (22,61-62), voltatosi, guardò Pietro; e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detta: «Oggi, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, andato fuori, pianse amaramente.

 

 

Il momento che Georges de La Tour, francese, dipinge ne ”Il rimorso di San Pietro”o “Le lacrime di San Pietro” (1645 – Cleveland, Museum of Art) è proprio quando Pietro piange, dopo avere rinnegato Gesù per tre volte di seguito, ricordandosi, udendo cantare il gallo, di quello che Gesù gli aveva detto. Dietro il gallo s’intravvede un tralcio di vite, emblema di Cristo e della Chiesa. Vi è una luce che proviene dalla lanterna e una che proviene dall’alto, di origine divina, che “illumina” Pietro, il discepolo più fedele, quello che Gesù aveva scelto per affidargli “le chiavi” e gli fa riconoscere il tradimento appena commesso.Pietro è ritratto con le mani serrate l’una sull’altra, colto nell’attimo del rimorso, ha il tremore e la supplica prima del riconoscimento della colpa.

 

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In copertina : Pietro rinnega Gesù,  dal “Gesù di Nazaret” di Franco Zeffirelli.

 

Messiaen – Première Communion de la Vierge

 

Scritto da CHIARA BERTOGLIO.

 

Uno dei musicisti classici più interessanti del Novecento, il francesce Olivier Messiaen (1908-1992), era appassionato di teologia, fervente cattolico ed esperto ornitologo: con competenza, pazienza ed entusiasmo annotava i canti degli uccelli, che considerava simboli della gioia di Dio, e poi li riportava, trasformati, nelle sue composizioni. Ciò avviene anche nella Première Communion de la Vierge, uno dei Vingt Regards sur l’Enfant-Jésus, “venti sguardi sul Bambino Gesù”. Nella visione di Messaien, desunta da alcuni autori mistici della sua epoca, il momento dell’Annunciazione, in cui il Verbo si fa carne nel grembo di Maria, è, per Maria, come una “prima comunione”: il Divino entra nella sua vita, nel suo corpo, nella sua persona, vi abita e la riempie.

 

Messiaen sceglie di raffigurare questo mistero con un brano pianistico, ossia senza parole (pur se dissemina di parole la partitura che il pianista studia). Gli accordi iniziali sono il “Thème de Dieu“, il “tema di Dio”, un motivo armonico trinitario che pervade il ciclo dei venti brani a suggerire come ogni mistero della fede, ed in particolare l’Incarnazione, sia radicato in Dio. Questo tema, presentato dalla mano sinistra, è adornato sia da lentissime discese di “bicordi” (due linee melodiche sovrapposte, a suggerire forse la persona di Maria e quella di Gesù che iniziano a “cantare insieme”), sia da ghirlande di note veloci, quasi a simboleggiare la freschezza giovanile e la bellezza verginale di Maria.
Poco dopo, dei canti di uccelli seminano nel cuore di Maria e dell’ascoltatore un sentimento di gioia, che tuttavia torna sempre a raccogliersi nella calma e nel silenzio della meditazione.

 

La parte centrale del brano riprende il “tema di Dio” trasformandolo tuttavia in una danza quasi sfrenata, dal ritmo travolgente ed esultante: è il “Magnificat” di Maria, raffigurato come una danza piena di vivacità.
Una sequenza di ritmi complessi simboleggia il crescere del bambino Gesù nel grembo di Maria: gli intervalli (le distanze grave-acuto) si fanno sempre più grandi, le durate anche, e nel grave si ode una pulsazione veloce e continua che rappresenta (nelle parole dello stesso Messiaen) “i battiti del cuore di Gesù”.
Al ritorno della calma iniziale, con il “tema di Dio” in tempo lento e le ghirlande di note sempre più fitte e intense, sboccia quello che Messiaen chiama “abbraccio interiore”: le due linee melodiche della destra si avvicinano sempre di più e si sfiorano, in un momento di profonda tenerezza. “Dopo l’Annunciazione“, scrive Messiaen, “Maria adora Gesù in lei: Dio mio, figlio mio, mio Magnificat… amore mio senza disturbo di parole…

 

Di seguito, Introduzione alla Première Communion de la Vierge .

 

A seguire, l‘esecuzione del brano.

 

 

 

 

 

COOPERANTI

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA. 

 

Non tutti i miracoli di Gesù sono uguali. Detto così, si rischia di rasentare l’ovvietà: ci sono portenti operati sulla natura, guarigioni di ammalati, risuscitamenti, esorcismi, eccetera eccetera. Ma non è soltanto la tipologia ad essere varia, anche il ruolo dei destinatari – quando il miracolo è rivolto ad una persona umana e non alla natura – può cambiare. In alcune situazioni il beneficiario ha un ruolo totalmente passivo: è il caso – e non potrebbe essere altrimenti – del defunto che viene risuscitato (Lazzaro, la figlia di Giairo, il figlio della vedova di Nain). Ma vi sono anche altre circostanze in cui non pare esserci alcun coinvolgimento da parte del diretto interessato nel processo terapeutico. È il caso ordinario dei sommari di miracoli (Mc 1,32-34), dove l’iniziativa della richiesta cade sui familiari o amici ed è anche la situazione dell’indemoniato della sinagoga di Cafarnao (Mc 1,23-28) o dell’uomo dalla mano inaridita (Mt 12,10-13). L’impressione è che Gesù possa guarire come risposta a precise richieste come pure prendere spontaneamente l’iniziativa. Ciò aprirebbe le porte ad una lunga riflessione sulla fede che è richiesta per accedere ai miracoli, ma non è su questo pur fondamentale aspetto che vorrei soffermare l’attenzione. Qui non intendo occuparmi della fede “prima del miracolo” quanto di quella “durante”. E per farlo vorrei confrontare due situazioni relativamente simili del vangelo secondo Giovanni.

 

Palma il Giovane, Piscina probatica, 1592

 

In Gv 5,1-15 Gesù decide di interpellare un invalido che giace accanto ad altri infermi su una barella domandandogli se voglia guarire (v.6). La domanda è meno banale di quanto possa sembrare. Gesù non sta chiedendo se in generale sarebbe contento di rimettersi in piedi (e vorrei vedere), ma lo interroga sulla sua reale volontà di ottenere quel beneficio. La risposta dell’uomo è significativamente evasiva. Dicendo di non avere nessuno che lo butta nell’acqua quando ci si attende un miracolo si sta giustificando per la sua condizione attuale ma non guarda al futuro. Inoltre non ha alcuna aspettativa sul potere terapeutico di Gesù e non prende minimamente in considerazione l’idea che possa ricevere la guarigione senza essere immerso nella piscina. Tutto quello che fa è obbedire al comando di Gesù che gli ordina di prendere la barella e camminare. Sai che sforzo.

 

Orazio De Ferrari, 1606 -1657, Guarigione del cieco nato

 

Poco più avanti ci imbattiamo in un’altra guarigione, quella del cieco nato (Gv 9,1-7). Anche qui è Gesù a scegliere di guarire quest’uomo ma la modalità di esecuzione è più complessa, passa attraverso la realizzazione di un impiastro e l’invio alla piscina di Siloe. Proprio questo passaggio merita considerazione. Non che la passeggiata fino a là fosse particolarmente onerosa, ma l’adempimento del comando è meno scontato rispetto al prendere su la barella. E la dimostrazione viene da un precedente illustre, quello del generale siriano Naaman a cui come terapia per guarire dalla lebbra il profeta Eliseo prescrive di lavarsi sette volte nel fiume Giordano (2Re 5,10-14). Per quanto possa sembrare strano, la stravaganza della richiesta suscita lo sdegno di Naaman che se ne va adirato rifiutandosi di obbedire. Solo l’insistenza dei servi, che metteranno in evidenza la facilità della cura, riuscirà a rabbonirlo e a fargli conquistare la guarigione. Perciò il lettore che conosce l’episodio dell’AT non darà affatto per scontato che il cieco eseguirà l’ordine di Gesù. Gli è richiesta una forma di collaborazione che il cieco è pronto a dare. Le conseguenze si faranno sentire nel prosieguo dei racconti. Il paralitico non mostra alcuna riconoscenza nei confronti di Gesù (passata la festa, gabbato lo santo), mentre il cieco avvia un graduale cammino di avvicinamento a Gesù che lo porta infine a prostrarsi dinanzi a lui riconoscendolo come “Signore” (9,38). Perciò non è esagerato affermare che la modalità del miracolo riflette in un certo modo l’attitudine spirituale del personaggio in causa nei confronti di Gesù.

 

Cornelis Engebrechtsz ,1462–1527, Naaman al fiume 

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  • In copertina : Renato Rascel nei panni del cieco nato (fotogramma da Gesù di Nazaret di Franco Zeffirelli). 

Mascagni riscrive la Risurrezione

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

“INNEGGIAMO, IL SIGNOR NON E’ MORTO”

Il bello delle riscritture di Scrittura, tra l’altro,  è che te le puoi trovare di fronte all’improvviso, al di fuori dei contesti nei quali sei abituato a frequentare l’Originale, in spazi nei quali non ti aspetteresti di incontrarle. Ad esempio, ti puo’ capitare di andare all’opera, per  Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni ( in scena in questi giorni al Teatro Regio di Torino) e nel bel mezzo di quella   storia di passione, carnalità, gelosie, tradimenti e vendette sanguinose,  di  trovarti inaspettatamente  proiettato…  in una trascrizione lirica del mistero della Risurrezione.

Ora, non è raro che  uno squarcio religioso cristiano  si spalanchi in  un ‘opera , e ve ne sono molti celebri esempi : dal TE DEUM di Tosca, con il perfido Scarpia che mescola i suoi piani criminosi alle parole solenni dell’inno, alla preghiera struggente della  Vergine degli Angeli ne La forza del destino. Nel caso di Cavalleria Rusticana, è la narrazione stessa che consente la digressione religiosa: la vicenda raccontata si svolge infatti nel giorno di Pasqua, in un  paese siciliano . La festa più importante della cristianità fa quindi da cornice alla trama : che è un drammone di amore & morte,  a un livello assai poco spirituale. Si sarebbe tentati di dire , in  buona sostanza, che il mistero della Pasqua qui c’entri come i proverbiali cavoli alla proverbialissima merenda. In realtà, chi si interessa e si appassiona di riscritture, trova qui una piccola e insperata miniera. Sarà certamente per interesse niente affatto teologico, ma piuttosto per calcolo drammaturgico, resa scenografica, escamotage musicale, che Mascagni, rifacendosi a  Verga, concepisce questa pagina ; resta il fatto che riesce nell’intento di dare una rappresentazione incarnata e viva dell’irrompere del Mistero della Risurrezione nella vita di tutti i giorni ( e pure, amaramente, della sua tragica ininfluenza nello scorrere di quella stessa vita).

In questa storia assai terra terra di relazioni incrociate e clandestine, di convenzioni sociali ferree, di brutale violenza che prevarica su tutto, è  come se l’annuncio della Pasqua esplodesse all’improvviso, uscendo dai confini della chiesa per dilagare lentamente in piazza, e poi farci ritorno, refluendo, mentre l’orizzonte torna a chiudersi  plumbeo sul piccolo mondo di egoismi, grettezza e morte. Non per nulla, la scena prevede un coro interno (il Regina Coeli  intonato dal di dentro della chiesa) e un coro esterno che si  sviluppa andando per le strade del paese, con il ritmo, la cadenza e l’andamento di una processione. E qui emerge la seconda caratteristica degna di nota di questa riscrittura in note e in scena: vediamo il libretto.

 

 

“(in chiesa odesi intonare l’alleluja)

ALFIO.

25           Io me ne vado, ite voi altri in chiesa.

(esce)

CORO INTERNO

(dalla Chiesa).

Regina coeli, laetare – Alleluja!

Quia, quem meruisti portare – Alleluja!

Resurrexit sicut dixit – Alleluja!

[p. 13]

CORO ESTERNO

(sulla piazza).

Inneggiamo, il Signor non è morto,

30           Ei fulgente ha dischiuso l’avel,

inneggiamo al Signore risorto

oggi asceso alla gloria del Ciel!

CORO INTERNO

(dalla chiesa).

Ora pro nobis Deum – Alleluja!

Gaude et laetare, Virgo Maria – Alleluja!

35           Quia surrexit Dominus vere – Alleluja!

CORO ESTERNO

(dalla piazza).

Dall’altare ora fu benedetto

quest’olivo che amava il Signor;

porti e accresca nell’umile tetto

la domestica pace e l’amor!”

 

 

In poche parole, tutto sommato essenziali, la notizia  della Risurrezione, passa, arriva, correttamente espressa. Tuttavia  viene portata in scena, sì, ma   mediata , attraverso la tradizione e le forme della devozione popolare. Le quali, entrambe, son lì a riscrivere  “il fatto” ( Il Signor non è morto) rappresentandolo con i modi, il gusto e il linguaggio che sono espressione di una terra, di una cultura e di un popolo preciso. La musica, a sua volta, ri-racconta, e si incarica di evocare echi di canti in processione, mentre  le regìe  (ulteriore passaggio di rilettura)  si lanciano  in quadri  scenici intrisi di pietà religiosa locale . Abbiamo qui, dunque, un significativo  esempio di riscrittura a strati sovrapposti : alla base la notizia – Gesù è risorto -, poi  la riscrittura fattane dai vangeli,  quella  dell’inno liturgico pasquale, quella  della rappresentazione sacra, quella della sua messa in musica, quella della sua messa in scena.

Se vogliamo averne una idea completa e paradigmatica di quello di cui stiamo parlando, diamo una occhiata a questo brano – firmato Franco Zeffirelli  –  tratto dal  film/opera Cavalleria Rusticana del 1982.

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  • Cavalleria rusticana è un’opera in un unico atto di Pietro Mascagni, su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga,  in scena per la prima volta il 17 maggio 1890.
  • Il film omonimo di Franco Zeffirelli, è del 1982, distribuito dalla  Deutsche Grammophon.

Ora rialzatevi!

 

 

Scritto da MARIA NISII.

 

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo…

Dopo l’ascensione i discepoli sono rimasti a Gerusalemme, obbedienti al comando del Signore: ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, “quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo” (Atti 1,4-5). Sono i giorni della Pentecoste, che prima di diventare una solennità del calendario cristiano, era già una delle principali festività ebraiche (memoria del dono della Torah sul Sinai) per le quali a Gerusalemme si attendeva l’arrivo dei tanti ebrei residenti fuori dalla regione della Giudea e persino al di là dei confini della Palestina.

…Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. (Atti 2,1-4)

È la Pentecoste, la discesa dello Spirito sui discepoli in forma di fuoco, il battesimo annunciato e atteso. E poiché in questo blog è di riscritture che ci occupiamo, non possiamo non ricordare come questo brano sia stato interpretato da molti esegeti proprio come una riscrittura dell’episodio della torre di Babele di Genesi 11. Là la dispersione in tanti popoli e tante lingue, qui la riunificazione dei popoli e la reciproca comprensione pur nella diversità degli idiomi:

…Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo.A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? (Atti 2,5-8)

 

La Pentecoste, Mosaico del Centro Aletti.

 

Leggiamo ora l’affascinante riscrittura in versi offertaci da Didier Rimaud, gesuita e poeta francese:

 

Ora rialzatevi! Prendete lo Spirito

come la vela prende il vento;

non tenetelo chiuso in voi stessi:

si gonfi di lui il vostro grido

– che sia d’impazienza o di gioia! –

poiché ben sapete per quale battesimo

viventi soffi voi rinascete!

A vele spiegate, prendete lo Spirito

come la vela prende il vento:

nel prenderlo, siatene preda!

 

La parola poetica non dice, piuttosto suggerisce, evoca. Per questo occorre leggerla e rileggerla. Le quattro letture proposte da Cartesio per i suoi scritti filosofici sono spesso insufficienti per comprendere un testo in versi. Si tratta infatti di un esercizio di attenzione ai suoi massimi livelli, quasi come quello richiesto per la preghiera. Ecco perché si parla di un connubio speciale tra le due. Nella Bibbia poi, Dio si esprime preferibilmente in poesia e forse anche per questo il linguaggio in versi (vedi i Salmi) sembra il più adatto per rivolgersi a Lui o per dire di Lui.

La poesia inizia laddove il linguaggio comune mostra i suoi limiti, si fa inaffidabile e ingannevole, insufficiente a esprimere la tensione al trascendente che pure abita la coscienza umana.Quale esempio più efficace allora del tema dello Spirito, che è stato formulato in preghiera prima ancora di essere compreso in concetti e definito in dogmi?

Ora rialzatevi! Il dono dello Spirito mette in moto, lo Spirito è vento che muove quella vela che noi siamo – un vento impetuoso secondo la nuova traduzione della Bibbia Cei, gagliardo nella precedente, che con questo gustoso aggettivo sottraeva il vento all’ambito del naturale, per attribuirgli già i caratteri di persona divina. Alzati! è anche il comando negli episodi di resurrezione (il figlio della vedova, la figlia di Giairo, Lazzaro), con tutta la portata di nuovo inizio che qui assume.

Prendete lo Spirito / come la vela prende il vento traduce il biblico “essere colmati”, “riempiti”. Nel racconto biblico, prima si riempie la casa (riempì tutta la casa dove stavano) e poi i presenti (tutti furono colmati).Qui invece l’immagine analogica suggerita dal “come” invita a visualizzare una vela penetrata dal vento, che non può restare immobile, impassibile, distratta. Il vento l’ha riempita e lei si gonfia, tanto che si può parlare di vela quasi solo se è gonfia, come del discepolo quando è “riempito” dello spirito divino.

Tale è la forza dirompente dello Spirito da non poterlo trattenere – non tenetelo chiuso in voi stessi. E come già quei primi discepoli cominciarono a parlare in altre lingue, qui lo Spirito/vento gonfia il grido… d’impazienza e di gioia. Lo Spirito muove, spinge oltre, forza il grido. La gioia è incontenibile, una scarica di adrenalina in chi è nato soffio vivente (Gen 2,7).

L’immagine si colora di nuove sfumature e la vela si fa voce, grido. Si viene al mondo con il pianto e con il battesimo nello Spirito si rinasce grido, voce impetuosa e gagliarda di chi non può trattenere quanto ha dentro.

A vele spiegate, prendete lo Spirito / come la vela prende il vento: / nel prenderlo, siatene preda! Non temere di diventare preda dello Spirito, prendilo come fa la vela, che prende vita quando è spiegata. Dunque, alzati e vai!

 

Vele gonfiate dal vento

 

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  • In copertina: Duccio di Boninsegna, La Pentecoste.

 

 

Tra le nuvole

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

Quando vediamo un’immagine pittorica di Gesù che si eleva al cielo, pensiamo alla sua Resurrezione, oppure alla Trasfigurazione o ancora all’Ascensione, talvolta associata anche alla Pentecoste (quando compaiono le lingue di fuoco che scendono sugli apostoli). Abbiamo difficoltà però  ad identificarle e anche gli artisti – talora – introducono particolari che non ci aiutano a riconoscerle. Gli elementi comuni sono: il corpo di Cristo, la nube, il monte, il cielo, la presenza degli apostoli. In aiuto per distinguerli abbiamo in primo luogo i brani delle scritture e poi i cosiddetti attributi, quei segni od oggetti  atti a caratterizzare e individuare un personaggio, indipendentemente dalla raffigurazione fisionomica.

Nelle rappresentazioni della Trasfigurazione, Gesù per lo più sta eretto su un monte: talvolta si libra nel cielo, ha una veste bianca, una nuvola sullo sfondo e ai lati due uomini, Mosè ed Elia. Nella Resurrezione, Gesù è seminudo, con la veste rossa o bianca, un vessillo crociato della vittoria sulla morte,  è eretto, si libra nel cielo, con o senza sepolcro accanto. Anche la più conosciuta e la più comune iconografia dell’Ascensione presenta, ben visibile, il corpo frontale di Cristo che si eleva in cielo, e proprio per questo  può essere confusa, come già detto, con i temi della Trasfigurazione e della Resurrezione.

 

 

Anche se i tre eventi sono tutti momenti di rivelazione di Gesù, mi soffermo su alcune originali riscritture dell’Ascensione. Nel Vangelo di Marco (16, 19) ne abbiamo una breve descrizione: “Gesù… fu elevato in cielo e si sedette alla destra di Dio”; in Luca (24, 50-51) emergono dei particolari sull’azione più precisi: “Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia…” . Sempre Luca negli Atti degli Apostoli (1, 11), dà colore all’evento specificando che Cristo “fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra di voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”.

In un dipinto del 1585 di Ramenghi Giovan Battista, appartenente alla Pala del Rosario della Chiesa del Carmine a Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, la figura di Gesù è quasi completamente scomparsa dentro una nuvola: sono rimasti alla visione solo i suoi piedi (particolare usato di frequente dal XIII secolo) che sporgono dall’orlo della tunica, mentre gli apostoli e la Vergine lo seguono con lo sguardo, non vedendolo quasi più.

Ramenghi Giovan Battista, Bagnacavallo , Ravenna, 1585

 

Il Maestro Thomas de Coloswar, in una raffigurazione anteriore (1427) conservata al Museo cristiano di Esztergom in Ungheria, non mostra solo i piedi di Cristo, ma anche l’impronta indelebile sulla roccia da cui ha preso il volo, segno concreto del realismo dell’Ascensione. Per secoli sembra che i resoconti dei pellegrini, arrivati dalla Terra Santa, avessero narrato che l’impronta lasciata dei piedi di Cristo, fosse realmente visibile nella chiesa dell’Ascensione sul monte degli Ulivi.

Thomas de Coloswar .Museo cristiano di Esztergom, 1427

 

Giotto invece, negli affreschi della Basilica di Assisi e degli Scrovegni a Padova (1305), dipinge Gesù di profilo, su una nuvola che lo nasconde alla vista degli apostoli e, per illustrare che sta andando oltre il mondo terreno,  gli “taglia” le mani al bordo dell’affresco.

 

Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova , 1305

 

Con l’affascinante ”Ascensione di Cristo” del 1958 del pittore spagnolo  Salvador Dalì  abbiamo lo stravolgimento delle impostazioni degli esempi precedenti. Qui sono ben lontani i riferimenti alla descrizione evangelica, la verticalità dell’ascesa è vista da un altro scorcio prospettico, il corpo di Gesù ha la forma della croce, le mani si contorcono convulsamente ricordando quelle del crocifisso cinquecentesco di Matthias Grünewald e il viso scompare. Al culmine dell’ascesa, ad attendere il Salvatore, non c’è il volto del Padre, ma quello della Vergine Maria, piangente, con il volto di Gala, moglie dell’artista. Dalì sostituisce l’immagine di Dio come Padre, forse a rappresentare la Chiesa, come madre? Al di sotto la colomba, simbolo dello Spirito Santo, e un globo di luce gialla, un sole fulgido, simile al girasole; al di sopra  un universo oscuro e fiammeggiante, originato da un’esplosione “atomica”. Così è interpretata la glorificazione del Corpo, come l’inaugurazione di un nuovo mondo.

Salvador Dalì, Ascensione di Cristo, 1958

 

Per inquadrare l’opera di questo artista riporto un passaggio tratto da un articolo dal pedagogista e filosofo Piero Viotto  ( n.10 del 1999 della rivista Jesus dal titoloUn mistico surrealista”) :

Non ci si può fidare della “teologia” di Salvador Dalí, che si dichiara miscredente e agnostico e vuole essere al tempo stesso un membro vivo della Chiesa Cattolica, ma la sua “arte” quando affronta il sacro non solo è rispettosa dei valori cristiani, ma li esprime in modo convincente e ortodosso, capace di coinvolgere la sensibilità di chi li ammira. Egli pensa a Dio come una forza cosmica immersa nell’universo.”

Fastidiose

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

 

Non sempre è facile per il lettore dei vangeli, soprattutto se credente, accettare che alcune immagini che Gesù adopera nel suo campionario di esempi siano tratte da realtà banali e persino fastidiose nella vita ordinaria. Le nostre scarse competenze botaniche ci fanno glissare sul fatto che il granello di senape, a cui viene paragonato il Regno in Marco 4,31, produce una pianta infestante con cui i contadini devono lottare cercando di sbarazzarsene. Vederla crescere in fretta e diffondersi con rapidità può essere suggestivo dal punto di vista emotivo ma è anche una gran seccatura!

 

 

 

Mi ha fatto ritornare su questo tema il libro recente di un collega ed amico (Mirko Pozzobon, Mosche bianche: manuale di sopravvivenza per parrocchiani, San Paolo) che rievoca due immagini evangeliche spesso bistrattate o trascurate, il lievito e il sale. In Matteo 13,33 Gesù racconta la microparabola di una donna che aggiunge il lievito all’impasto di farina e lo fa fermentare tutto. Anche questa è una metafora usata per spiegare la crescita del Regno e tendiamo a vederla positivamente (del resto se avete assaggiato le torte-mattone di qualche cuoca improvvisata sapete bene quanto il lievito sia un ingrediente fondamentale). Ma in tutti gli altri passi del Nuovo Testamento in cui si parla di lievito, la connotazione è negativa. Gesù invita i discepoli a guardarsi dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia (Luca 12,1). Paolo invita i credenti a essere azzimi, cioè senza lievito (1Corinzi 5,7), ricordando che basta poco lievito per far fermentare tutta la pasta (Galati 5,9), cioè per corromperla. Ed è bene ricordare che il lievito era un elemento bandito dai sacrifici giudaici, che li avrebbe resi inadatti all’offerta.

 

 

Del sale non si può dire che se ne abbia la stessa percezione negativa e tuttavia ha un tratto in comune col lievito, cioè la percentuale minoritaria, quasi insignificante rispetto alla totalità, ma in grado di farsi sentire. Non salare l’acqua per gli spaghetti è un’inavvertenza che viene subito notata da tutti. L’idea, quindi, è che l’essere minoranza del cristiano-lievito e del cristiano-sale è per certi aspetti costitutiva: non potrebbe – neppure se lo volesse – divenire maggioranza, pena un impasto ipertrofico o un piatto ipersalato. Ma non è su questo che Gesù vuole richiamare l’attenzione con i suoi racconti parabolici, quanto sulla necessità che un elemento estraneo e persino sgradevole se preso da solo (chi ciuccia il sale o si fa bustine di lievito?!) diventa gustoso e anzi necessario per dare un senso ad una realtà a cui non appartiene.

 

Soundtrack: quando è la musica a riscrivere

 

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

 

Il linguaggio del Cinema è, per sua natura, complesso, risultante di immagini –  certamente – e di molti altri elementi, narrativi e tecnici:  trama, dialoghi, musica, luci,  tecniche di ripresa, effetti sonori, effetti speciali, montaggio, e molto altro, amalgamato, diretto e coordinato dalla regia.

La colonna sonora ha una parte determinante in questo mix espressivo, anche se puo’ giocare ruoli  e presenza diversi a seconda dei film e degli autori. Talvolta   si realizza un connubio perfetto, come nel caso di   Ennio Morricone e Sergio Leone, nelle cui pellicole diventa persino difficile separare  soundtrack e immagini,  indissolubilmente legate insieme, richiamandosi a vicenda come un tutt’uno organico nella memoria dello spettatore.

Quando il cinema affronta una riscrittura religiosa vera a e propria, le cose non cambiano. Ma con scelte, risultati e rese differenti. Nel corso degli anni, all’interno del vero e proprio filone cinematografico che si è venuto a  creare riconducibile  alla Scrittura e alle sue storie,  i registi hanno battuto le strade più diverse. In estrema sintesi, si può dire che si passa da colonne sonore “ di accompagnamento”, in cui la musica è fondamentalmente un sottofondo alle parole e alle immagini, ai brani  “descrittivi” , in cui diviene parte integrante della storia ed elemento narrativo essa stessa: basti pensare alle “ danze di Salomé ”, variamente interpretate e rese. Abbiamo avuto opere in cui il soundtrack non presenta temi di particolare impatto o melodia, e altre in cui , al contrario, ce ne sono di estremamente riconoscibili e accattivanti per l’ascolto. Fino ad arrivare all’unicum di Jesus Christ Superstar in cui la musica , ovviamente, è  essa  stessa e prima di tutto il resto, il film. Generalmente, più ancora dei dialoghi , delle riprese e dei modi di recitazione, la colonna sonora risente dei gusti dell’epoca, fino a risultare la parte più datata alle visioni successive nel tempo: le musiche di Ben Hur, per dire, sono figlie e testimonianze dell’epoca e dell’epica dei kolossal americani.

Il più che discusso film di Mel Gibson, The Passion , del 2004, presenta sotto questo profilo una serie di caratteristiche interessanti. Concentrato esclusivamente sul racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, il film si propone  – per ammissione del regista –  non solo di raccontarne la storia, ma di trasportare lo spettatore a condividerne il più vicino possibile l’esperienza: come se fosse stato presente per davvero a quei fatti. La scelta della “lingua originale” del tempo ( aramaico e latino) e la ricerca spinta fino all’eccesso del realismo delle immagini ne sono la prova più evidente. Ma l’intero sonoro del film è concepito in funzione di questo risultato. Compreso l’utilizzo di alcuni accorgimenti tecnici che hanno lo scopo di trascinare , per così dire, chi guarda dalla sala, all’interno della storia stessa. Quando, nella notte del Getsemani, Pietro stacca con il celebre colpo di spada, l’orecchio al malcapitato Malco, ci arriva, fortissimo, un ronzio acustico, un acufene lancinante, che ha il compito di farci vivere, in quel momento, l’esperienza fisica stessa raccontata sullo schermo. Nella stessa scena, i movimenti delle torce nella tenebra notturna, sono accompagnati da effetti sonori irreali ma con  il compito di  sottolineare  e amplificare  la drammaticità dell’azione;  così come accadrà in seguito, con quelli largamente utilizzati al momento dei colpi di flagellum nella fustigazione, o durante la crocifissione, con il martellare sui chiodi e con la slogatura della spalla del Crocifisso.

Per quanto riguarda la musica, proponiamo qui di seguito due esempi significativi, prima in versione acustica e poi riportati nel film. Il primo è il “ tema di Maria” Mary goes to Jesus, dedicato, per ammissione dell’autore John Debney, non solo alla Madonna ma  al rapporto tra Maria e ­suo figlio. “È stato uno dei temi più difficili da scrivere, non riuscivo a trovare la chiave giusta. Poi, una mattina, mi sono svegliato con una melodia in testa, ed era una ninna nanna. La voce di una  madre che parla con un figlio divino, ma che è comunque stato il suo bambino. E parte di quel bimbo è ancora in lui, mentre affronta la tortura e la morte.” (*)  La musica rafforza dunque una delle idee guida del film di Gibson: il rapporto simbiotico e privilegiato tra Gesù e la Madre, vista come vera coprotagonista della storia umana e divina del Figlio. Dalle scene di affettuosa rievocazione domestica alla crudezza esplicita della via crucis e del Calvario, fino alla deposizione, il ritorno del tema musicale, variamente declinato, racconta ed esprime questa specialissima relazione.

Qua la versione acustica:

Qui invece il brano riportato in una delle scene del film:

https://www.youtube.com/watch?v=UmJXm3AjaSM

 

Il secondo è Resurrection, che parte con un’atmosfera sospesa e contemplativa per virare, sotto i colpi delle percussioni, verso un tono  quasi guerresco, prima che ieratico e solenne: più che un gloria pasquale, un annuncio di marcia, di messa in movimento di qualcosa di inarrestabile. Sullo schermo, infatti, si accompagna  all’ultima immagine del film, quella di Cristo che si rimette in piedi per rimettersi  in cammino, definitivamente.

 

Ecco la versione solo musicale:

Qui la trasposizione cinematografica:

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(*) Da una intervista di Elena NIEDDU a John Dembley.

  • In copertina : Maria corre dal figlio bambino, da The Passion, di Mel Gibson

 

 

 

IO SONO IL BUON PASTORE : “grande è il piccolo”!

Scritto da NORMA ALESSIO .

 

L’immagine che associamo al tema cristiano del “Buon Pastore” è quella di Gesù che tiene la pecora sulle spalle con atteggiamento affettuoso e domestico, come appare nei numerosi santini divulgativi popolari che si erano diffusi in diversi ambiti cattolici dal XVII al XX secolo. Il “Buon Pastore” è evocato nei vangeli di Matteo e di Luca, attraverso la parabola del pastore che cerca la pecorella smarrita. In Matteo (Mt 18,12-14) la pecora viene smarrita tra i monti, in Luca (Lc 15,3-7) viene perduta nel deserto; solo in Luca si trova anche la figura del “buon pastore” che riconduce a casa la pecorella sulle spalle. In entrambe il pastore abbandona l’intero gregge per salvare la pecorella smarrita in pericolo e tutte e due incontrano nella catechesi paleocristiana un maggiore interesse rispetto al testo di Giovanni, ma nelle immagini questi dettagli saranno mescolati. È nel Vangelo di Giovanni (Gv10,14-15) che Gesù stesso si dichiara esplicitamente il “Buon Pastore”: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore». La parola “buono” non rievoca la dolcezza, ma la realizzazione perfetta della missione del pastore.

 

Catacombe di San Callisto, Roma, affresco

 

La produzione figurativa cristiana fin dall’origine ha utilizzato questo tipo di rappresentazione, ma all’inizio per questo soggetto venne utilizzata l’’immagine del pastore con le pecore conosciuta del mondo classico-pagano, come  vediamo nell’affresco nelle catacombe di San Callisto a Roma, a cui tuttavia viene attribuito un significato diverso. Il pastore è simbolo di Cristo Risorto che strappa l’anima dell’uomo dalle tenebre (la pecora portata sulle spalle), riportandola in paradiso. Infatti proprio per questo nel IV secolo l’immagine appare soprattutto in ambito funerario, come negli affreschi delle catacombe, sui sarcofagi, nella decorazione delle lucerne in terracotta o nei vetri dorati (basi di coppe o bicchieri per uso liturgico), nei medaglioni e negli epitaffi. Vari secoli dopo l’avvento di Cristo, si forma un’iconografia cristiana dove i motivi simbolici si combinano con i motivi storici tratti dal racconto evangelico e progressivamente il significato allegorico si svuota fino a divenire un vero e proprio simbolo cristologico.

 

Mausoleo di Galla Placidia, Ravenna, mosaico

 

Nel mausoleo di Galla Placidia, a Ravenna, edificio monumentale destinato alla sepoltura di personaggi importanti, risalente alla prima metà del V, al di sopra della porta d’’ingresso, come entrata nel regno dei cieli dopo la morte, è rappresentato, con la tecnica del mosaico, il Buon Pastore. La scena è ambientata in un paesaggio di basse colline delineate sullo sfondo di alberelli e cespugli, il “pastore” ha gli attributi che contraddistinguono il Cristo: è imberbe, con aureola, vestito di una tunica dorata che si appoggia a un’alta croce, seduto e attorniato da sei pecorelle, tre per lato, che hanno lo sguardo posato su di lui e una gli si avvicina per essere accarezzata, rispecchiando quanto è affermato nel Vangelo di Giovanni 10, 3-4: «I l guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce».

Questo soggetto passa da  un’ampia diffusione, nei primi secoli dell’arte cristiana, a esempi che diminuiscono dal medioevo in poi, fino a scomparire quasi totalmente nei secoli successivi.

Bartolomé Esteban Murillo, (1617-1682), Museo del Prado di Madrid

 

Nel Seicento ritroviamo un Cristo Buon Pastore bambino, di Bartolomé Esteban Murillo, pittore spagnolo (1617-1682), esposto al Museo del Prado di Madrid, che stringe il bastone usato per guidare e difendere il gregge nella mano destra, mentre poggia in atteggiamento protettivo la sinistra sul dorso della pecora ritrovata, mentre sullo sfondo si vede il resto del gregge. È l’interpretazione del brano del Vangelo di Matteo (Mt 18, 1-14) in cui Gesù si identifica in un bambino: «chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me» ( dove l’argomento del pastore è diretto si verso i piccoli, ma nella fede).

 

Sieger Köder (1925-2015), Gesù Buon Pastore

 

Nell’arte sacra contemporanea del sacerdote e pittore tedesco Sieger Köder (1925-2015), è rappresentato il Buon Pastore del brano di Luca (Lc 15, 3-7) : «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione». È raffigurato al centro della scena, con una pecora sulle spalle e attorniato da un gruppo di persone. Alcune suonano, altre portano delle rose rosse, altre partecipano alla gioia del pastore che li ha chiamati per fare festa perché ha ritrovato la pecora che si era perduta. Anche il cane del pastore partecipa dei sentimenti degli umani, affacciandosi dalla base del quadro. Alle spalle del pastore si vedono le impronte lasciate da lui e un grande sole che illumina tutta la scena. Il cespuglio spinoso che aveva imprigionato la pecora è lontano, sulla destra, trattiene qualche boccolo di lana. Dalla parte opposta le farfalle rosse e gialle che si librano, segno della ritrovata libertà. La faccia dell’uomo si appoggia al muso della pecora. Il loro sguardo è intenso, dolce e carico d’amore. Il muso della pecora si appoggia sul volto del pastore come per formare un’unica testa; così i due occhi, che appartengono uno al pastore e l’altro alla pecora, sottolineano l’intento di vedute che li unisce.

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  •  In copertina: Particolare dal mosaico del MAUSOLEO DI GALLA PLACIDIA, Ravenna.

Sul web: la riscrittura “faidate”

Scritto da LORENZO CUFFINI.

Tra i tanti tipi di riscrittura possibili e praticati, ne esiste uno estremamente diffuso e tipico dei nostri giorni, caratterizzati dal ricorso massiccio e capillare all’uso quotidiano del web. Si tratta di una forma di riscrittura artigianale e domestica, fai da te, per così dire, basata sulla disponibilità praticamente illimitata di materiali  esistenti e reperibili in rete, e sulla possibilità di poterli selezionare, trattare e combinare liberamente  con una sufficiente facilità e in piena autonomia.

A ben vedere, molto di quello che si trova quotidianamente sul web  puo’ essere considerato una riscrittura virtuale della realtà: a 360 gradi. Postare una immagine o un tweet è certamente una forma di comunicazione  immediata e rivoluzionaria, nel suo essere libera e worldwide, ma si presta benissimo a far circolare non solo la realtà dei fatti, quanto la “riscrittura” di quei fatti che io- che pubblico sul social del momento – reinterpreto e filtro attraverso il mio punto di vista e di opinione.

Applicato al campo della Scrittura, accanto a una massa di siti, blog, gruppi che si dedicano espressamente a trattarla in rete sotto i più vari aspetti, quello che colpisce e su cui qui ci si sofferma è la presenza di moltissimi  battitori liberi, che praticano una loro riscrittura personale e autonoma;  è la rete, nei suoi meccanismi di ricerca, che te la  propone poi, in modo orizzontale e paritario, a fianco di altri esempi, assai più celebri e  rinomati.

Tra i tanti possibili, proponiamo due casi a titolo di esempio. Alla base di entrambi c’è l’episodio narrato dal Vangelo di questa domenica, (III domenica del Tempo di Pasqua, Anno C, Gv 21, 1-19) . Tutti e due gli autori lo riscrivono, mescolando le immagini di una narrazione cinematografica, un canto religioso come colonna sonora, l’inserimento didascalico di parole  sovrapposte sulle immagini.

Di seguito, il brano di Scrittura originale e le due “rielaborazioni” tratte da youtube.

“«1Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: 2si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. 3Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. 4Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. 5Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No».6Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. 7Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare.8Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. 9Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. 10Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». 11Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. 12Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. 13Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. 14Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. 15Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». 17Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. 18In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». 19Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».”

 

 

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  • Primo video : ” Pietro, mi ami tu? ” pubblicato da Marco Varello , canto da   ” Compromettersi per Cristo ” di Giosy Cento.
  • Il secondo video: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti amo“, pubblicato da stefano0923, canto di sottofondo ” Servo per amore “,  Gen Rosso . Le immagini dei video sono tratte dal film The Gospel of John ( regia di Philip Saville, 2003)