Chi è il terzo che ti cammina accanto?

 

 

Scritto da  MARIA NISII.

 

Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme
Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
C’è sempre un altro che ti cammina accanto
Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato
Io non so se sia un uomo o una donna
– Ma chi è che ti sta sull’altro fianco?

(T.S. Eliot, La terra desolata, vv. 360-66)

 

 

Ne La terra desolata, poema del 1921, scritto da Eliot [1] all’indomani della prima grande guerra, il mondo ritratto è sterile, svuotato, banale. Il caos percepito in quel particolare momento storico non consente la possibilità di una coerenza narrativa o di una scrittura tradizionale. Il linguaggio riflette dunque il tempo vissuto, e il poeta dà forma a quel caos adottando il “metodo mitico”, ovverosia costruendo il suo testo in dialogo con altri testi del passato o, come egli stesso scrive in chiusura, puntellando le sue rovine (di una civiltà in crisi) con frammenti (letterari, mitici, antropologici che lo stesso Eliot si preoccupa di evidenziare, corredando il testo di note).

L’ultima sezione della Terra desolata, a cui appartengono i versi sopra citati, si apre con un riferimento al Getsemani – come il poeta spiega in nota:

 

Duccio di Buoninsegna, Gesù Catturato, 1308-1311, Museo dell’Opera Metropolitana del Duomo, Siena.

 

Dopo la luce delle torce rossa su facce sudate

Dopo il gelido silenzio nei giardini

Dopo l’agonia in luoghi pietrosi

Le grida e i pianti…

 

A questo richiamo segue il confronto tra quel racconto antico e il presente storico:

 

Colui che era vivo è ora morto

Noi che eravamo vivi stiamo ora morendo

Con un po’ di pazienza

 

E se gli uomini stanno morendo, la terra su cui poggiano è altrettanto sfinita, sterile, desertica:

 

Qui non c’è acqua ma solo roccia

Roccia e niente acqua e la strada sabbiosa…

Il sudore è secco e i piedi stanno nella sabbia

Se solo ci fosse acqua tra la roccia

Morta bocca montuosa di denti cariati che non può sputare…

 

All’improvviso però, in questo orizzonte senz’acqua e senza speranza, irrompe l’imprevisto. Il Terzo, l’Altro – la novità che apre un cammino fino a quel momento chiuso solo sul sé.

 

Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme

 

Nel cammino di due, si lascia intravedere la presenza di un terzo. È una storia antica e sempre nuova, dalle molte implicazioni e derive possibili: due che camminano (come sulla strada per Emmaus), un terzo tra i due, ma accanto all’altro e non a sé. Ebbene, chi è costui?

 

Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca 

C’è sempre un altro che ti cammina accanto 

Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato 

Avvolto in un manto scuro, incappucciato: un essere irriconoscibile, che non si dà al riconoscimento. Lo si può solo percepire senza comprenderne il come. Alla vista diretta non appare, mentre emerge in quella obliqua – quando guardo innanzi a me… c’è un altro accanto. La vista obliqua lascia intravedere altro, quel sentire ampliato e amplificato sul di più. L’obliquo è il modo in cui si dà a conoscere il mistero, fuori dalla certezza del vedere diretto e trasparente, è l’ipervisione del veggente e lo sguardo della fede, che non si ferma all’apparenza ma la penetra.

L’occhio obliquo è quello dell’uomo dopo la caduta – offuscato, che non può più riconoscere il divino a prima vista. Come nel Paradiso perduto di Milton: “gloriosa apparizione, se quel giorno dubbio e paura fisica non avessero tanto offuscato l’occhio di Adamo”.

 

È solo la percezione di un attimo, in un frammento presto superato, dimenticato, per lasciare spazio al movimento successivo. È l’ispirazione di un istante di luce in mezzo al deserto – senz’acqua e carico dei lamenti degli uomini. In questa landa desolata, in cui anche la terra è spaccata, screpolata e le torri crollano, l’unico linguaggio possibile corre sul filo di sutura che puntella le rovine. E il mistero è luccichio offuscato, forse quell’ordine desiderato nel finale, che all’improvviso si fa spazio nelle trame sì intrecciate ma non per questo più comprensibili. La terra desolata è ancora abitata da una presenza Altra e, per quanto irriconoscibile, ti cammina accanto.

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[1] Dello stesso poeta inglese, è stato pubblicato in questo blog Natale: cantare il tempo (15/12/2017).

  • In copertina : Janet Brooks-Gerloff , Emmaus, 1992

Senza capo né coda

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA

 

Una delle caratteristiche più lampanti che contraddistingue i vangeli canonici è il loro dipanarsi lungo una trama. Noi tendiamo a dare per scontata questa particolarità, ma in realtà esistono vangeli che non presentano alcuno sviluppo lineare drammatico, ad esempio il Vangelo copto di Tommaso, perciò la scelta degli evangelisti canonici di dare al loro racconto una forma biografica è un elemento rilevante. Il problema, semmai, sarebbe cercare di definire cosa sia una trama, perché su questo non c’è affatto accordo tra gli studiosi.

 

 

Semplificando molto le cose, potremmo dire che la trama è una sequenza di eventi legati tra loro da nessi causali e temporali. Perché una trama funzioni occorre una certa logica. Questo non significa che tutti gli eventi che sono descritti nel racconto siano funzionali all’obiettivo finale della narrazione (ci possono essere molte digressioni che arricchiscono il racconto), ma se l’intreccio risulta troppo dispersivo, il lettore non sa più che pesci pigliare. E anche a livello temporale si possono concedere deroghe allo sviluppo progressivo ordinario, ad esempio con la tecnica del flash-back e quella del flash-forward che ci riportano indietro a fatti precedenti o anticipano quelli futuri, ma anche qui occorre coerenza, perché un personaggio di cui viene annunciata o descritta la morte non può presentarsi vivo in una scena successiva, salvo qualche artificio apposito.

 

 

La trama dei vangeli canonici è piuttosto semplice, totalmente imperniata sulle vicende del personaggio centrale, Gesù, che costituisce il motore della trama ed è ordinariamente il protagonista degli eventi riportati e il locutore dei discorsi riferiti. I vangeli possono considerati in senso ampio delle trame di opposizione (mettono in scena il conflitto tra Gesù e i suoi oppositori) che vengono risolte con la vittoria finale di Gesù, che nonostante l’apparente sconfitta sulla croce, viene risuscitato e rende vano lo sforzo dei suoi nemici di eliminarlo. Ma al tempo stesso sono anche delle trame di rivelazione perché fanno comprendere al lettore la vera identità del protagonista, su cui esistono diverse opinioni ma che saranno verificate solo al momento finale, quando Gesù viene riconosciuto come Figlio di Dio.

 

 

Se questo è l’impianto generale dei vangeli, ne deriva che essi raggiungono lo scopo pieno della loro narrazione solo nell’insieme della vicenda. Una singola pagina di vangelo può essere evocativa e ricca di suggestioni, ma non contiene in sé tutto il messaggio. E qui sorge una difficoltà considerevole per la nostra cultura italiana, dove la conoscenza dei vangeli è affidata perlopiù alla proclamazione che ne viene fatta nelle Messe domenicali. La lettura episodica che avviene ogni domenica nella Messa festiva risponde alla necessità affrontare un tema celebrativo, ma spesso non tiene conto dell’andamento della trama dei vangeli da cui vengono estrapolati dai brani. In questo modo si trascura ciò che li precede e ciò che li segue e, più in generale, il piano narrativo del singolo evangelista. Ne consegue che la conoscenza episodica dei vangeli non può sostituire una lettura integrale e continuata dei loro testi, che tuttavia resta affidata alla buona volontà dei fedeli.

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  • In copertina: Salvator Mundi con i quattro evangelisti , di Fra Bartolomeo ( 1514 -1516) Firenze, Galleria Palatina

 

LA VIA CRUCIS DEL TERZO MILLENNIO a Jasna Gòra

 

Scritto da NORMA ALESSIO.

 

Umiliò se stesso ancor di più, facendosi obbediente fino alla morte, anzi fino alla morte di croce” (Filippesi 2, 8).

 

Tutta la sequenza delle Viae Crucis che ornano le pareti delle chiese cattoliche è una narrazione dei momenti della Passione di Gesù, che nel periodo pasquale viene ripercorsa in forme diverse attraverso le azioni e i gesti della liturgia.

La “via crucis” per gli artisti è un soggetto molto importante di espressione personale delle proprie posizioni religiose e – allo stesso tempo – ha il compito di aiutare i fedeli che percorrono la Via a meditare sul messaggio del Cristo sofferente. Nel passato le rappresentazioni delle scene della Passione erano pressoché fedeli a quanto i vangeli raccontano sui vari momenti della salita al Calvario, per cui le singole scene dei riquadri nelle “stazioni” delle viae Crucis nelle chiese sono diventate per noi “comuni”.

Gli artisti contemporanei tendono invece a limitare il realismo di questo tipo di cicli, riducendo le scene degli attimi di sofferenza all’essenza stessa del significato dell’avvenimento, ricorrendo a segni o simboli, con una certa difficoltà di interpretazione da parte di chi osserva. Il pittore polacco Jerzy Duda Gracz, ad esempio, nato a Częstochowa nel 1941 e morto nel 2004, crea  ne “La via crucis del terzo millennio” (dipinta tra il 2000 e il 2001) un insieme suggestivo e di straordinaria espressività: pur rimanendo ancorato alla grande tradizione artistica del passato, con i suoi valori e le sue forme estetiche, ecco che le scene sono rilette alla luce della storia d’Europa, e in particolare della Polonia, dell’ultimo secolo.

Questa salita al Calvario non termina, come solitamente la vediamo, con la quattordicesima stazione, dove Gesù è deposto nel sepolcro, ma ad essa ne sono  aggiunte altre quattro: Gesù che risorge, l’apparizione agli apostoli, quella in Galilea e l’Ascensione, che avviene proprio a Częstochowa, aprendo la storia alla speranza. In ognuno di questi riquadri Duda ha ritratto in modo realistico sia Gesù che i testimoni della Sua Passione; in tutti è presente un Cristo sofferente, del tutto umano , a volte anche Lui, come gli altri, persino un po’ deformato, privo di fascino, umiliato e vittorioso ad un tempo, inserito in contesti di folle umane realistiche, che cambiano di volta in volta. Il pensiero che vuole trasmettere, come lui stesso ha scritto,  è “la solitudine dell’uomo in mezzo ai più vicini, nella famiglia, tra gli amici, i seguaci, i proseliti: la solitudine in mezzo alla folla”. L’artista ha inserito tra gli eroi evangelici molti personaggi contemporanei, storici, quotidiani e dei momenti di festa, tipici ed eccezionali,  figure universalmente conosciute, gente rappresentante i più diversi mestieri, professioni, caratteri; il più delle volte appena  deformati, a volte storpiati, brutti, infermi, ridicoli, miserabili, ma concepiti poeticamente, pur se in modo specifico e pieno di elementi grotteschi, portandoli al limite e tendenti alla caricatura. I simboli che Duda dipinge appartengono alla sua storia recente, come Massimiliano Kolbe – martire ad Auschwitz-  padre Popiełuszko, ucciso dal regime comunista negli anni ’80, lo stesso Giovanni Paolo II.

Jerzy Duda Gracz inizialmente era un non credente che accompagnava la madre a pregare al santuario della Madonna nera di Częstochowa, sul monte Jasna Gòra , e che  si convertì alla fede cristiana solo dopo la visita di Giovanni Paolo II in Polonia, nel 1979. Decise poi di donare un’opera proprio al santuario per eccellenza dei polacchi, e il tema scelto fu quello della Passione di Gesù Cristo, che gli era particolarmente vicino.

Ogni Stazione merita di essere vista e meditata, qui se ne riportano solo alcune.

I StazionePilato

La condanna di Cristo da parte di Pilato (I STAZIONE ), ad esempio, viene riletta dall’artista alla luce della potenza dei mass media: Pilato con il catino per il lavaggio delle sue mani annuncia davanti a numerosi microfoni e riflettori ciò che sta per compiere.

 

V STAZIONE : IL CIRENEO

Anche l’artista stesso, lo troviamo rappresentato (come avveniva nei dipinti  medioevali, in cui spesso gli artisti erano raffigurati,  presenti come testimoni delle scene evangeliche) : è il Cireneo, colui che aiuta Gesù a portare la croce (V STAZIONE); dietro a lui, un violinista; un uomo accovacciato chiude il percorso, guarda verso il basso, la bottiglia vuota e il bicchiere rovesciato.

 

VII STAZIONE : SECONDA CADUTA DI GESU

La seconda caduta di Gesù (VII STAZIONE) ha luogo tra una folla di gente indaffarata e frettolosa, in quanto è la settimana santa e tra qualche giorno sarà Pasqua. Della Domenica delle Palme sono rimaste solo le palme rituali, in ricordo dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Cristo è caduto, ma lotta ancora, è ancora vivo, mentre è già stato sepolto e coperto di violetto, solo un cane sente che Dio è vivo.

 

IX STAZIONE : TERZA CADUTA DI CRISTO

 

Nella terza caduta di Cristo (IX STAZIONE), nello scenario desolato di un asilo, Cristo cade picchiando duramente il volto sul selciato. Alle sue spalle si consuma la tragedia di una nuova strage degli innocenti: a terra i corpi di neonati seviziati a causa degli esperimenti subiti; in primo piano, bambini soldato. Sullo sfondo le baby-schiave, o bambine-squillo, con tacchi alti, giarrettiera e sigaretta, e una scala, la scala del sogno di Giacobbe “una scala poggiava a terra e la sua cima raggiungeva il cielo; su di essa salivano e scendevano angeli di Dio” (Genesi 28,12)

 

 

 

X STAZIONE : IL GOLGOTA

 

Ecco il Golgota (X STAZIONE). La via dolorosa è terminata, ora la croce attende il corpo di Cristo solo e completamente nudo. Dietro al suo capo risplende l’ostia nell’ostensorio, adorata in processione per la festa del Corpus Domini sotto il baldacchino, con fanciulle in candidi abiti che gettano petali di rose che rivestono di colore la strada e la croce; sacerdoti, guardie che vigilano, e la folla con stendardi e gonfaloni. Il ricordo del dolore sembra ancora vivo, eppure il dramma è vinto.

 

 

XVI STAZIONE: IL RISORTO

 

O ancora, (XVI STAZIONE) un chirurgo che non si rassegna in alcun modo a credere ai miracoli e vuole accertare “scientificamente” la verità della Risurrezione infilando il dito nel costato di Gesù. Sullo sfondo è raffigurata la torre di Babele (Genesi 11,1-9) in riferimento alla confusione di lingue creata da Dio per impedire di terminare la costruzione, in contrapposizione con la Pentecoste quando “tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. (Atti 2,4).

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  • In copertina : XI STAZIONE, La Crocifissione

La riscrittura magistrale di un cattolico “recusant”.

Scritto da  CHIARA BERTOGLIO.

Thomas Tallis – If ye love me

Come William Byrd, anche Thomas Tallis visse la difficile esperienza di essere un cattolico “recusant” nell’Inghilterra elisabettiana. I “recusants” erano coloro che si rifiutavano di aderire alla confessione anglicana imposta da Elisabetta I, sovrana di grandi luci e grandi ombre. Fra i meriti di Elisabetta ci fu quello di aver portato ad una straordinaria fioritura le arti e la cultura inglesi nel suo tempo, ed anche di aver garantito un periodo di relativa tranquillità in un Paese scosso dai conflitti religiosi; ciò, tuttavia, non avvenne se non a costo di una repressione dura e sanguinaria nei confronti, soprattutto, dei missionari cattolici (come s. Edmund Campion e i suoi compagni).

Tallis e Byrd si trovavano perciò in una situazione particolarmente delicata: cattolici convinti, erano musicisti di corte della Regina, che era anche “governatrice” della Chiesa anglicana. Perciò dovevano mantenere un delicato equilibrio fra le esigenze della propria coscienza e quelle dell’impiego che esercitavano.

Sicuramente, non vi fu conflitto interiore, per Tallis, quando si trattò di creare questo brano squisito. Si tratta di un brevissimo ma indimenticabile brano per coro “a cappella” (senza accompagnamento di strumenti), su testo tratto dal grande discorso sacerdotale di Cristo durante l’ultima Cena, come riportato dal Vangelo di Giovanni: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti…”.

Qui Tallis osserva fedelmente le esigenze liturgiche dell’anglicanesimo, come di altre confessioni evangeliche: la Parola – proclamata nella lingua locale – deve essere pronunciata in modo del tutto intelligibile, senza imitazioni (sfasamenti temporali fra le voci) e senza eccessive decorazioni che potrebbero inibirne la comprensibilità. Laddove tali esigenze, pur legittime sotto un certo punto di vista, rischiavano talora di sacrificare la bellezza e l’incantamento della musica sacra privilegiando una sorta di asservimento alla parola, la magistrale composizione di Tallis realizza una sorta di miracolo musicale: raggiungere una tale perfetta semplicità, una tale economia di mezzi di infinita bellezza, che ogni sillaba è chiarissimamente percepibile ma il fascino ineffabile del sacro è altrettanto indiscutibile.

Le parole di Cristo, fra le più belle e toccanti dell’intera Bibbia, sono rese con una musica di assoluta limpidezza, luminosità e confidenzialità, che traduce perfettamente l’atmosfera di amore senza pari e senza limiti che ha caratterizzato l’ultimo colloquio di Cristo con i suoi discepoli e quello che rimane il testamento spirituale dell’uomo-Gesù e la promessa eterna del Figlio di Dio.

 

 

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  • In copertina: Thomas Tallis  (1505 circa – 1585)

L’abbraccio di Dio

 

 

Scritto da MARIA NISII.

 

Orribil furon li peccati miei,

ma la bontà infinita ha sì gran braccia

che prende ciò che si rivolge a lei.

(Purgatorio III, 103-145)

 

 

Il gesto di apertura delle braccia con cui il padre della parabola lucana (Lc 15,11-32) accoglie il figlio prodigo è ben presente in questo passaggio del Purgatorio di Dante, che ha per protagonista Manfredi di Svevia, un uomo dal sopracciglio tagliato e una piaga sul petto a memoria della morte in battaglia. Giunto in punto di morte, Manfredi racconta di essersi pentito dei suoi molti e orrendi peccati “a quei che volentier perdona” e quindi declama la bontà divina con i versi succitati: le braccia di Dio sono tanto grandi da accogliere tutti coloro che gli si rivolgono. Peccato che il vescovo di Cosenza non abbia ben interpretato questo volto di Dio e l’abbia scomunicato post-mortem!

È solo il richiamo di un gesto, ma curiosamente è simile a quello con cui Rembrandt ha fissato l’intero racconto: due braccia che si chiudono sulle spalle del figlio malconcio,tornato dopo quel lungo vagare. In primo piano però, oltre al volto del padre su cui cade la luce, abbiamo due mani dalle diverse fattezze che esprimono il maschile e il femminile di Dio, già ben presenti nella Bibbia[1].

È con la scusa di rivedere il quadro di Rembrandt che il protagonista del romanzo di Fabio Geda, Se la vita che salvi è la tua, si reca a New York dove, secondo la finzione, sarebbe esposto in una mostra temporanea. E se la tela è l’occasione del viaggio, il bisogno di fuggire è la molla dell’azione – proprio come nella parabola. Una volta lì però “non riesce a staccare gli occhi da quell’abbraccio e dalla luce che lo avvolge – dal desiderio di essere accolto così, perdonato così” (p. 36).Tornerà al museo per quattro giorni consecutivi, struggendosi per il bisogno di capire in quale dei due figli egli possa realmente identificarsi. Vi tornerà ancora a distanza di settimane, mentre la sua vita sta lentamente mimando quella del figlio straccione, che si è perduto in strade lontane da casa e vagheggia la possibilità di una riconciliazione: “eccolo, nelle sue ombre e nell’infinita dolcezza di quell’abbraccio che racconta la storia di un ritorno e di un perdono” (139). Lui a casa non è più tornato, perché teme – e in fondo già sa – di non trovare più quell’abbraccio nella moglie che, stanca di attenderlo invano, è ora in attesa del figlio di un altro.

 

 

Sono molti i figli prodighi che la letteratura ci ha regalato, ma una delle figure più belle e drammatiche è indubbiamente Jack Boughton, protagonista di Casa di Marilynne Robinson, mentre è un pastore protestante quel padre in perenne attesa del figlio amato. “Dio è fedele. Ci lascia vagare affinché sappiamo cosa significhi tornare a casa” (105): Jack ritorna a casa dopo vent’anni del suo vagabondare irrequieto e solitario, cadendo nelle spire dell’alcool e dei debiti, dunque di furti e galera.

“Secondo un proverbio capire è perdonare, ma è sbagliato, diceva sempre papà. Si deve perdonare per poter capire. Fino a quando non perdoni ti difendi dalla possibilità di capire… Se perdonate, diceva, forse non sarete ancora in grado di capire, però sarete pronti a farlo, e questo è l’atteggiamento della grazia” (46-7). L’anziano padre però, vecchio e fiaccato dalla malattia, non sembra più nelle condizioni di capire e dunque perdonare quel figlio, pur amandolo in tutto il suo incomprensibile mistero. Così anche questa figura si rivela un’immagine più che mai distorta del padre della parabola, che aveva riconosciuto quel figlio da lontano e lo aveva riaccolto senza chiedergli nulla.

È sempre e ancora tempo di parlare in parabole a madri e padri, a figli e a pastori vecchi e ciechi. Nelle nostre case non c’è possibilità di redenzione per un figlio che ritorna, ci dicono Robinson, Geda, Rembrandt e Dante. Non siamo mai pronti ad accoglierlo e, per quanto lo attendiamo e amiamo, quel figlio è soprattutto un mistero irraggiungibile, inconoscibile, inaccettabile e dunque anche imperdonabile. Per questo, anche a noi maldestre figure genitoriali dalle braccia chiuse, non resta che sperare in quell’unico e vero abbraccio.

 

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[1]Oltre naturalmente ai tratti maschili, la Bibbia ebraica contiene molti riferimenti a un Dio dalle caratteristiche materne: «Io sono tranquillo e sereno, come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia» (Salmo 131,2); «Quando Israele era giovinetto io l’ho amato (…) ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare…» ( Osea 11,1.4).

Lo stesso tratto emerge anche nel Nuovo Testamento: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36), dove il termine scelto dall’evangelista (oiktìrmones) allude alle materne viscere di misericordia (radice ebraica rchm, da cui utero) del Signore, in continuità con l’Antico Testamento: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro ti dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15).

Riscritture in lingua.

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Tra tutte le forme di riscrittura, la traduzione, letteralmente il trasferimento di un testo in una lingua diversa da quella originale, apparentemente sembra essere la più tecnica e la meno creativa: almeno secondo il significato che noi, oggi, diamo ai due termini.

Sappiamo benissimo che non è così: la scelta di un vocabolo, di un verbo, o la stessa risistemazione della punteggiatura , in una pagina di Scrittura, possono sollevare un nugolo di questioni interpretative, teologiche e dottrinali su cui gli esperti possono dibattere per anni.

D’altro canto, anche  riscrivere un passaggio secondo una  traduzione dagli antichi testi  più vicina e fedele all’originale di riferimento, va a sollevare gli stesi problemi, con, in più, l’aggiunta della opportunità o meno di modificare un qualcosa ormai sedimentato nell’ascolto, nella tradizione auditiva, e, più banalmente, nell’abitudine generata dalla ripetitività del sentire.

La questione della riscrittura in lingua, dunque, nasce come questione di accademia, ma immediatamente si trasforma in materia viva e palpitante, con rimandi immediati anche sul semplice fedele che si accosti al risultato finale, ignaro di tutto il travaglio e il lavoro precedente,

Senza spingerci oltre in questo campo sterminato, ci limitiamo a fornire qui tre esempi diversi di riscrittura in lingua. Differenti per motivazione, resa, espressione e utilizzo. Ma, tutti e tre, capaci di mostare come la veste semantica, sia in grado di impattare profondamente ed emotivamente nel “fruitore” finale della storia.

 

Il primo caso è quello, recentissimo, della Bibbia  in  friuliano .Saldamente piantato nello spirito del Concilio, è  frutto di un’opera pluridecennale immensa, ed è stata presentata  ufficialmente  dal presidente della Cei a Udine pochi mesi fa. Ai fini esemplificativi, in estrema sintesi, si tratta di un’operazione che si propone- a detta degli autori stessi – la salvaguardia e la trasmissione alle generazioni successive delle radici culturali di un territorio e di una popolazione, entrambi marcati in modo definitivo dal nocciolo cristiano e cristiano/giudaico espressi dalla Scrittura, mescolato in modo indivisibile alla storia stessa e tutta intera di questo pezzo di mondo.

«In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno». (Gen 1,1-2)

«Tal imprin Diu al creà cîl e tiere. Ma la tiere e jere un vuluç e vueide, gnot fonde e jere sul mâr, e il spirt di Diu al svolampave parsore des aghis. Diu al disè: “Che e sedi la lûs“ e la lûs comparì: Diu al viodè che la lûs e leve ben e al metè la lûs di une bande e il scûr di chê altre. Diu al metè il non di dì a la lûs e di gnot al scûr. E passà una sere e une buinore: prime zornade». (Gen 1,1-2)

Il secondo esempio che portiamo è  SU RE ( film del 2013, di Giovanni Culumbu) . Qui c’è non solo la traduzione in lingua sarda di parti della Scrittura ( il film è recitato integralmente in sardo, con sottotitoli), ma storia del Messia crocifisso viene ambientata e rinarrata in terra di Sardegna, girata nei paesaggi sardi, portata in scena da interpreti sardi. Anche in  questo caso, dunque, gioca la volontà di esprimere un radicamento nella cultura di un territorio, spinto al massimo dalla potenza moltiplicativa delle immagini e dei suoni.

 

 

Terzo caso che vi proponamo è  il discusso THE PASSION di Mel Gibson, dove la storia della Passione viene resa attraverso dialoghi in aramaico, ebraico e  latino: con l’obiettivo dichiarato di portare lo spettatore ad ascoltare “il vero suono” di quelle frasi mille  volte riascolatate nelle letture liturgiche e non solo.

 

 

 

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“Ecco, noi saliamo a Gerusalemme” (Mc 10, 33)

 

 

Scritto da NORMA ALESSIO.

La cappella della Sindone ci dà l’opportunità, durante tutto il periodo della Quaresima, di meditare sul dono di grazia incommensurabile che è la Redenzione attraverso la partecipazione intima al mistero della morte e Resurrezione di Gesù. Possiamo cogliere il messaggio che Guarino Guarini ha voluto trasmettere con questa sua opera architettonica, sia attraverso le forme degli elementi strutturali che con i simboli e la luce. Se nei dipinti sono facilmente riconoscibili i riferimenti biblici, perché è solo lo sguardo che entra direttamente in gioco, nelle architetture conta  la percezione degli spazi, delle forme dei particolari, in relazione anche con gli effetti del variare della luce nelle diverse ore del giorno e delle stagioni.

 

 

Cerchiamo allora di entrare nella natura mistica della luce di questa cappella “speciale” pensando che è stata il contenitore del “santo telo” dove è impressa un’immagine che, seguendo il racconto evangelico, si può accostare alla parte finale della vita di Gesù e che rappresenta lo “specchio del Vangelo”, come l’ha definito san Giovanni Paolo II. Consiglio di andarla a visitare con questo atteggiamento e soffermarsi a riflettere prendendo spunto dai commenti che propongo.

Entriamo quindi nella Cappella della Sindone, attualmente dall’accesso al piano nobile di Palazzo Reale:

 

 

e alziamo lo sguardo: abbiamo la visione della cupola nella sua grandiosità.

La realizzazione di una cupola è stata l’ossessione di generazioni di architetti, la sfida più difficile che abbiano dovuto affrontare dal punto di vista costruttivo. Le varie forme date alle cupole hanno tutte il significato simbolico del cosmo, la volta celeste, ponte tra l’uomo e l’altro mondo secondo le diverse culture religiose.

Quando Guarino Guarini, architetto, ma al tempo stesso teologo, mistico e sperimentatore, matematico e astronomo, nel 1667 subentra come progettista della cappella, si trova vincolato dalla pianta circolare e dalla posizione elevata, in quanto doveva avere la comunicazione con il piano nobile di Palazzo Reale da un lato e dall’altro l’accesso dalla cattedrale attraverso delle rampe di scale ai fianchi dell’altare maggiore. Guarini doveva realizzare il luogo dove sarebbe stato  posto il “santo telo” per la venerazione dei fedeli, ma – applicando la simbologia alle regole matematiche e geometriche – ha trovato la soluzione per far andare oltre a ciò che percepiscono i sensi, provocando un impatto psicologico dello spettatore. Non ci sono stucchi policromi o pitture sulle superfici interne della cupola, ma solo sovrapposizione e rotazione di elementi strutturali elementari, come esagoni e archi che si rimpiccioliscono sempre più,  e le aperture sapientemente inserite.

Guarini è riuscito a creare nella parte più alta della costruzione un’illuminazione della massima intensità che entra dalle enormi finestre, in contrasto con la penombra della parte sottostante, dando la sensazione che questa immane struttura voltata si sollevi da terra e si allontani verso l’alto. Al vertice della struttura è ancora la luce, che si modifica diventando avvolgente e diffusa per l’immagine del cielo con la stella-sole raggiata appesa: essa accoglie la colomba dello Spirito Santo come il “Consolatore”, che il Padre manderà nel suo nome dopo la morte e risurrezione di Gesù (Gv 14,26).

La luce parte fioca, penetrando da aperture appositamente studiate per una luminosità soffusa e attenuata che va sulle due scale laterali

ora purtroppo non accessibili al pubblico dal duomo, per accompagnare il fedele alla scoperta della reliquia in un percorso di graduale avvicinamento alla cappella  “…dotato di una coinvolgente dinamica emotiva: al piano di arrivo di una ascesa ostica, immersa nella penombra, di contro ai trentaquattro gradini convessi come una cascata si riversano sul visitatore, i vestiboli predispongono una pausa di attesa per la scena successiva, invitando a varcare la soglia della cappella attraverso lo schermo di colonne per scoprire, solo allora, la meraviglia della cupola”  ( Da La costruzione della visione nella cappella della Sindone a cura di Giuseppe DARDANELLO[1], in “Guarini” Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, ALLEMANDI, TORINO 2006).

Ogni particolare è stato studiato con estrema eleganza, non tralasciando i segni allusivi dei momenti della passione di Gesù: ecco che abbiamo le croci sulla volta interna, la corona di spine e i chiodi (riconoscibili per somiglianza alla corolla e ai pistilli di un fiore come la passiflora), la scritta INRI del cartiglio sui capitelli delle colonne

 

 

All’esterno la cupola finisce in una piramide, sul cui vertice c’è un globo sormontato da una croce cinta dagli emblemi della Passione.

I simboli hanno come propria caratteristica quella di “far pensare”, ossia non svelano immediatamente il loro significato ma si lasciano scoprire.

Al centro della cappella, c’è la traccia di uno scrittore improvvisato che ha riscritto la scrittura: il fuoco; i segni – molto visibili – dell’incendio del 1997, che ha portato a una temperatura di 1000°C i materiali che componevano l’“altare reliquiario” realizzato su progetto di Antonio Bertola nel 1694. È rimasto solo il suo scheletro,spoglio e senza le decorazioni in legno dorato.

 

 

Sulla parte superiore vediamo ciò che resta del recinto dove è stata per molto tempo presente la cassa che ha contenuto il sacro telo, ora vuoto perché collocato in altro luogo.

Fu realizzato in marmi neri arricchiti da decorazioni e sculture in legno dorato, elevato su più gradini e cinto da una balaustra di legno con due fronti: uno rivolto verso il Duomo e l’altro verso Palazzo Reale. Quattro angeli con i simboli della Passione sui lati dell’urna e otto putti, alcuni dei quali portanti i chiodi della croce. Tutto questo per ora non lo vediamo più -tornerà dopo i restauri – ma la riscrittura lasciata dall’incendio  su questo altare, anche se non più materialmente presente il sacro telo, evoca quello che Giovanni Paolo II aveva detto durante la visita pastorale a Torino il 24 maggio 1998 :

La Sindone è immagine del silenzio. C’è un silenzio tragico dell’incomunicabilità, che ha nella morte la sua massima espressione, e c’è il silenzio della fecondità, che è proprio di chi rinuncia a farsi sentire all’esterno per raggiungere nel profondo le radici della verità e della vita. La Sindone esprime non solo il silenzio della morte, ma anche il silenzio coraggioso e fecondo del superamento dell’effimero, grazie all’immersione totale nell’eterno presente di Dio. Essa offre così la commovente conferma del fatto che l’onnipotenza misericordiosa del nostro Dio non è arrestata da nessuna forza del male, ma sa anzi far concorrere al bene la stessa forza del male. Il nostro tempo ha bisogno di riscoprire la fecondità del silenzio, per superare la dissipazione dei suoni, delle immagini, delle chiacchiere che troppo spesso impediscono di sentire la voce di Dio.”

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[1]                    Laureato in architettura, Dottore di ricerca in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica presso il Politecnico di Torino (1992), Post-dottorato all’Università di Torino (1994). Ha coordinato per la Cappella della Sindone (2002-2006), a seguito dell’incendio del 1997, le ricerche e i rilievi che hanno consentito di ricostruire le tecniche progettuali e costruttive messe in opera da Guarini.

Le tentazioni di Cristo sullo schermo

Scritto da LORENZO CUFFINI.

«1Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, 2per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. 3Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». 4Gesù gli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo».
5Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra 6e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio.7Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo».8Gesù gli rispose: «Sta scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto».
9Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; 10sta scritto infatti:
Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo
affinché essi ti custodiscano;
11e anche:
Essi ti porteranno sulle loro mani
perché il tuo piede non inciampi in una pietra».
12Gesù gli rispose: «È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».
13Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato»
Lc 4,1-13

Prima domenica di Quaresima: il Vangelo ci ripropone il brano delle tentazioni di Gesù nel deserto. Dopo secoli di rappresentazioni pittoriche, in che modo il cinema ha raccontato la vicenda? In estrema sintesi, potremmo dire: come sempre, secondo i gusti e le mode narrative del momento, oltreché secondo la sensibilità artistica del regista. Portiamo qui di seguito quattro esempi tra i tanti, espressione di diversi modi di riscrittura cinematografica.

Il primo è tratto da “Il Re dei Re”  del 1961, diretto  da Nicholas Ray.

 

https://www.youtube.com/watch?v=Gtv42CkJf-0

 

Nel secondo caso si tratta de “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini (1964)

 

 

Nel terzo caso è Giuseppe D’Alatri che si cimenta con questa storia ne “ I giardini dell’Eden” del 1998

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=7FFSzCbu73w

 

Infine JESUS , miniserie tv del 1999 diretta da Roger Young e interpretata da Jeremy Sisto.

 

 

Il silenzio nel cielo

Scritto da MARIA NISII.

 

Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora (Ap 8,1)

 

L’apertura dell’ultimo dei sigilli del rotolo di Apocalisse prevede il richiudersi di tutti i segni nel silenzio. I primi 4 sigilli avevano mostrato una forza positiva (cavallo bianco con destino di vittoria) e tre negative (cavallo rosso, autorizzato a togliere la pace; cavallo nero, ingiustizia; cavallo verde, morte). Il quinto sigillo aveva esibito gli uccisi a causa della parola di Dio, che chiedevano Fino a quando? e che avevano ricevuto una veste bianca quale ricompensa per la propria fedeltà. L’apertura del sesto sigillo invece contiene alcune tra le immagini di sovvertimento e disastro naturale (6,12-17), per cui l’ultimo libro della Bibbia è tanto noto. A dispetto delle interpretazioni della cinematografia apocalittica (il filone dei disaster film), la simbologia assume però le coordinate dello schema-tipo delle teofanie dell’Antico Testamento, rivelatrice dell’intervento di Dio nella storia. Si tratta di immagini che vogliono trasmettere l’idea che quando Dio si fa presente, la creazione si sconvolge riconoscendo il Creatore che si avvicina, ma vogliono anche provocare un senso di urgenza, invitando a reagire. Lo scenario dipinto è di rara bellezza letteraria: il ravvolgersi del cielo come un rotolo, il cadere delle stelle come frutti avvizziti: la stabilità degli elementi è scossa e la fine si avvicina. La reazione dell’umanità è la fuga in preda al terrore.

Il segno del sigillo che segue, il settimo, è invece il silenzio. E questo silenzio è stato variamente interpretato dagli studiosi. Per alcuni è decisivo che sia ambientato in cielo: il silenzio nel cielo è quindi anche silenzio del cielo e per il credente si tratta di un silenzio angosciante, perché non dà le risposte che ci si attende. Ma qualcuno controbatte ricordando come il sesto sigillo sia già stato gravido di risposte e che pertanto non c’è motivo di angoscia. Altri ancora considerano questo silenzio pieno di paura e tensione per quanto sta per accadere (flagelli e castighi), ma anche qui c’è chi non concorda: i flagelli infatti si abbatteranno sui persecutori, mentre ne saranno risparmiati i servi di Dio, contrassegnati dal suo sigillo. Nella logica di Apocalisse, il silenzio non pare dunque foriero di angoscia o paura, quanto piuttosto tempo di attesa dell’intervento medicinale salvifico di Dio che il rotolo ha promesso. Tuttavia le risonanze di senso attorno a questo motivo (che compare solo qui in tutto il libro) sono state molte.

Ingmar Bergman ne Il settimo sigillo (1958) ha fatto ruotare attorno a questo silenzio tutte le domande che riguardano l’esistenza umana e l’esigenza di una comunicazione diretta con Dio. La cornice narrativa – incipit e finale – cita esplicitamente i versetti di Apocalisse:

“E quando l’Agnello aperse il settimo sigillo si fì nel cielo un profondo silenzio di mezz’ora e vidi i sette angeli che stavano dinanzi a Dio e furono date loro sette trombe. Poi un altro angelo si fermò davanti all’altare con un turibolo e gli fu data gran quantità d’incenso. E allora il primo angelo diè fiato alla tromba e ne venne grandine e fuoco misto a sangue. E così furono gettati sopra la terra e la terza parte della terra fu arsa e la terza parte degli alberi fu arsa e fu arsa l’erba verdeggiante. E quindi il secondo angelo diè fiato alla tromba e una specie di grande montagna di fuoco ardente fu gettata in fondo al mare e la terza parte del mare diventò sangue.”

Dell’ultimo libro della Bibbia, il film contiene soprattutto allusioni e non altri riferimenti espliciti come questo. Jof, il saltimbanco, è un veggente ma non riceve che la rivelazione finale di quanto per tutto il resto della vicenda gli è invece estraneo. L’ambientazione medioevale, il dilagare della peste e la miseria umana rappresentata da una fede infarcita di superstizioni creano però l’atmosfera di crisi ideale per la cornice apocalittica enunciata.La storia narra il ritorno dalle crociate del protagonista, il cavaliere Antonius Block, con il suo scudiero. Allo sbarco Block è però prima di tutto accolto da una nera figura che ne reclama la vita. Il cavaliere non è sorpreso, ma chiede una dilazione alla morte per il tempo di una partita a scacchi che segue lo scorrere della narrazione, dando nel contempo al protagonista la possibilità di cercare una soluzione ai propri tormenti.

Bergman mette in scena il silenzio del settimo sigillo di Apocalisse durante il viaggio notturno della carovana, che vede tutti i personaggi principali insieme verso l’epilogo. Ma di fatto il tema del silenzio riguarda soprattutto la ricerca di Block, in conflitto con se stesso e dilaniato dal dubbio su Dio. Credendo di confessarsi, il cavaliere rivela quanto lo tormenta alla Morte, che si cela sotto un cappuccio dall’altra parte della grata.

Block: Vorrei confessarmi ma non ne sono capace perché il mio cuore è vuoto. Ed è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura: vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili, vi scorgo immagini di incubo date dai miei sogni e dalle mie fantasie.

Morte: non credi che sarebbe meglio morire? Perché non smetti di lottare?

Block: è l’ignoto che m’atterrisce

Morte: l’ignoto è figlio del buio

Block: che sia impossibile sapere. Ma perché perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? E cosa sarà di coloro che non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto Egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?… Io voglio sapere, senza ipotesi, voglio la certezza, voglio che Iddio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto. E voglio che mi parli

Morte: il suo silenzio non ti parla?

Block: lo chiamo e lo invoco e se Egli non risponde, io penso che non esiste

Morte: forse è così, forse non esiste

Block: allora la vita non è che un vuoto senza fine. Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla senza speranza.

Morte: molta gente non pensa né alla morte, né alla vanità delle cose

 

Block non riceve risposte alle sue domande, ma impara a fidarsi dell’uomo e nelle sue potenzialità – come emerge nel finale dal suo salvataggio della coppia di saltimbanchi. È per distrarre la Morte dalla loro partenza (Jof ha “visto” la strana figura che gioca a scacchi con il cavaliere e prontamente allontana il carro) che lascia scivolare il mantello sulla scacchiera; una mossa che gli costerà cara perché l’avversario risistemai pezzi a proprio vantaggio, vincendo infine la partita. La Morte ha barato e non mancherà di tornare a vantare il suo bottino nel finale, ma a quel punto il cavaliere sembra ormai pronto. A uno sguardo meramente religioso, Bergman sembra contrapporre l’amore umano, qui esemplificato dall’amore della giovane famigliola per il figlio e tra di loro, fonte di spiritualità tangibile e visibile.

 

Essere nel gruppo

 

 

Scritto da GIAN LUCA CARREGA.

 

Mi sono già occupato di Tommaso in altri post, ma sembra che questo personaggio sia una miniera di sollecitazioni continue e quindi vale la pena soffermarsi ancora sul percorso di questo discepolo anticonformista. Nel vangelo di Giovanni, Tommaso compare in tre circostanze. Una prima volta è nell’ambito del risuscitamento di Lazzaro. Gesù aveva corso il rischio di essere lapidato a Gerusalemme e tornare in Giudea rappresentava un rischio non da poco. I discepoli cercano di metterlo in guardia, ma lui non vuole sentire ragioni. Così Tommaso prende la parola e dice: “Andiamo anche noi a morire con lui!” (Gv 11,16). Sull’intonazione e il senso da dare a queste parole ho già scritto nel post del 27 gennaio 2018. Qui mi interessa solo notare che Tommaso parla a nome di un gruppo, perché si rivolge ai suoi colleghi e parla al plurale.

 

 

Intonazione

 

 

Stessa situazione in Gv 14,5, dove l’obiezione che pone a Gesù (“Non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?”) è sì di carattere personale, ma espressa nuovamente al plurale, segno che ritiene che anche gli altri condividano la stessa incertezza. E infine c’è l’episodio più noto, Gv 20,24-29. Qui il senso di appartenenza al gruppo è reso evidente dalla presentazione che lo descrive come “uno dei Dodici” (v.24). Ma il dato curioso è che, per motivi che non vengono spiegati, Tommaso aveva lasciato il gruppo al momento dell’apparizione del Risorto. Siamo liberi di pensare che i motivi potessero essere positivi o negativi. Resta il fatto che Tommaso, l’uomo del gruppo, non ha vissuto l’esperienza fondamentale del gruppo. Per certi versi è naturale che chieda di poter esser partecipe della stessa esperienza. Gli altri dicono di avere visto il Signore e lui domanda di vederlo per poter credere. Fino a qui non ci sarebbe molta da obiettare e la sua richiesta appare sensata, quasi lecita. Ma poi aggiunge la mano nel fianco e il dito nel segno dei chiodi e questo rappresenta un di più che appare una sorta di compensazione che dovrebbe porlo al di sopra degli altri.

 

Caravaggio, Incredulità di San Tommaso

 

Infatti quando Gesù riappare otto giorni dopo il rimprovero che muove a Tommaso è sostanzialmente incentrato su questo aspetto e lo provoca a mettere davvero il dito e la mano dove desiderava avere le prove della risurrezione. Anche in questo caso non sappiamo se poi effettivamente lo abbia fatto o meno, ma se ciò non è avvenuto possiamo dire che la visione del Risorto abbia riportato Tommaso nel gruppo e il fatto che abbia creduto lo certifica a tutti gli effetti come vero discepolo di Gesù: nel Quarto vangelo si è discepoli se si crede ai segni descritti in questo libro (20,30-31), perciò Tommaso può ritenersi reintegrato.